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Il libro

Taranto e il difficile rapporto con l'arte contemporanea

Presentato il lavoro di Pietro Marino. La ricostruzione critica dell'arte a Taranto dal 1970 ad oggi tra slanci innovativi e contraddizioni

Pietro Marino

La presentazione alla Biblioteca Acclasvio. Da sinistra: Enzo Ferrari, Pietro Marino, Giancarlo Chielli (foto Alessandro Fischetti)

Una felice congiuntura ha anticipato la presentazione di “Taranto, il mare e la cenere” (Gangemi Editore), il lavoro del critico d’arte Pietro Marino sull’arte a Taranto dal 1970 ad oggi, pubblicato a cura dell’Accademia di Belle Arti di Bari.

Da un lato, infatti, proprio nei giorni scorsi, la città ha riparato ad un torto culturale che forse ha condizionato tutto lo sviluppo dell’arte contemporanea nella Città dei Due Mari: la donazione al Comune, da parte dell’ex sindaco Mario Guadagnolo, della maquette del monumento astratto che negli anni Cinquanta lo scultore Nino Franchina – allora figura d’avanguardia nell’ambito artistico italiano – avrebbe dovuto realizzare per omaggiare il compositore Giovanni Paisiello. Monumento mai realizzato vuoi per grettezza culturale, vuoi per imposizioni ideologiche di rifiuto dell’arte astratta. Un gesto, la donazione del bozzetto, che è servito a riabilitare l’opera di Franchina e, questo almeno è l’auspicio, a favorire un approccio più accogliente verso le espressioni dell’arte contemporanea.

D’altro lato, in queste settimane, proprio sulle pagine del nostro giornale, si è aperto un utile dibattito sulla proposta di realizzare un monumento alle vittime dell’inquinamento. Proposta proveniente da una associazione ambientalista che ha già indicato scultore, bozzetto e persino luogo dove collocare l’opera. Proposta che il consiglio comunale ha acriticamente recepito senza alcun tipo di confronto nemmeno con esperti della materia. Una circostanza che però ha spronato intellettuali, architetti e storici dell’arte a fermare questa imposizione unilaterale e a richiedere una seria riflessione prima di dare vita a qualsivoglia iniziativa di spontaneismo artistico che a Taranto ha già partorito negli anni imbarazzanti esempi. Una reazione che, fatte le debite proporzioni, ha ricordato la forza intellettuale con la quale si fermò negli anni ’60 – grazie soprattutto all’ostinato impegno di figure come Antonio Rizzo e Aldo Perrone - il massacro della Città Vecchia, tenuta al riparo da chi voleva trasformarla in una sorta di Manhattan del Sud oppure, in tempi più recenti, la rigorosa presa di posizione contro il progetto di restyling di Piazza Fontana che avrebbe di fatto smantellato l’opera di Nicola Carrino, altro esempio di arte contemporanea vittima del difficile rapporto con la città. Un destino simile a quello della più volte maltrattata Concattedrale di Gio Ponti.

Dunque questa recente rinnovata attenzione verso l’arte contemporanea e in genere verso l’arte pubblica, con il piglio di chi non può più accettare con silente rassegnazione l’invasione di manufatti spacciati per opere d’arte, non poteva che essere il miglior viatico per presentare l’accurata ricostruzione storica che Pietro Marino ha compiuto sulla evoluzione del rapporto tra Taranto e l’arte, con i suoi punti di pregio, gli slanci d’entusiasmo, le illusioni disilluse, i progetti ambiziosi che ancora stentano a decollare talvolta proprio per l’approccio superficiale della politica, più incline – come è ben sottolineato nel libro – alla ricerca del consenso immediato attraverso  scelte accompagnate da una «concezione sprovveduta del decoro urbano».

Il libro di Marino (la presentazione si è tenuta martedì 1 ottobre alla Biblioteca Acclavio con l’autore e con il direttore dell’Accademia di Belle Arti di Bari, Giancarlo Chielli) ha una caratteristica fondamentale e cioè quella di aver contestualizzato gli eventi artistici nel momento storico e politico nel quale si sono svolti. Emerge così il differente andamento negli anni del rapporto tra  Taranto e l’arte, il diverso approccio della politica e delle amministrazioni pubbliche, il rapporto controverso con la grande industria, dalla sua folgorante ascesa al suo declino, fino a descrivere quanto complicata sia stata la relazione tra arte contemporanea e Città Vecchia, il luogo delle radici e della storia. In altre parole, la ricostruzione di Marino ci riporta al tema della complessità dei rapporti e delle espressioni artistiche e dello stesso assetto urbano, lontano dalle banalizzazioni e semplificazioni che pure hanno compromesso lo sviluppo dell’arte e, più in generale, della cultura a Taranto.

Dal lavoro di Pietro Marino emerge, infatti, quanto complesso e ricco sia stato, nonostante le cadute e le improvvisazioni, il sentiero nel quale si è dipanato a Taranto il percorso dell’arte, in particolare quella contemporanea, e quanto vivace sia stato, ad esempio, quel Novecento che pure qualcuno aveva maldestramente liquidato come “deserto culturale”.

Fuori dai pregiudizi e da certo qualunquismo che si è affermato intorno alla vicenda ambientale, è ad esempio molto interessante riscoprire il grande impulso che l’industria siderurgica, allora Italsider, ha dato alla divulgazione dell’arte contemporanea, in particolare a partire dal 1974 con l’inaugurazione della nuova sede del Circolo Italsider alla Masseria Vaccarella. Con la direzione di un operatore culturale illuminato come Giuseppe Francobandiera, quella masseria settecentesca vide aprirsi “Uno spazio per l’arte” che ha ospitato alcuni dei più grandi nomi dell’arte contemporanea, come ad esempio Arnaldo e Gio Pomodoro. Non solo: quel circolo ebbe l’intelligenza culturale di accogliere persino quelle spinte artistiche che già allora si ponevano in modo critico verso la presenza del siderurgico. Un ruolo di impulso destinato a esaurirsi con la privatizzazione e con la ferma determinazione della famiglia Riva ad occuparsi della mera produzione senza alcun interesse e attenzione verso la cultura ed altre attività di impatto sociale. Una chiusura che potrebbe non essere stata marginale nel mesto e drammatico epilogo della gestione Riva del più grande stabilimento siderurgico d’Europa. L’esaltante avventura del circolo nel frattempo denominato “Ilva” e passato sotto la direzione di Elio Donatelli, si concluse con la mostra di Giuseppe Capogrossi. Fu la fine di un’epoca di grande spirito innovativo che mirava, come disse Francobandiera, ad avvicinare il mondo dell’arte a quello del lavoro. Tutto ciò mentre nel resto della città il denaro pubblico spesso foraggiava iniziative di così dubbio valore da scatenare la reazione indignata di un grande ispiratore dell’arte di qualità come Franco Sossi, per il quale certi eventi avrebbero addirittura meritato l’attenzione della magistratura.

Ma nel ricco e documentato lavoro di Marino emergono altri aspetti meritevoli di profonda riflessione critica come la relazione spesso conflittuale tra arte e Città Vecchia, non solo per le vicende della Piazza di Carrino, di cui si è già detto, ma anche per le vicissitudini attraversate da Piazza Castello, con l’ambizioso progetto di Gio Pomodoro voluto dall’allora sindaco Guadagnolo e successivamente mortificato e rimasto chiuso in chissà quali cassetti degli uffici comunali, nel mentre in questi ultimi anni si è affacciato un progetto di restyling che è apparso, a dire il vero, più come un banale intervento di arredo urbano che come un’opera di valorizzazione della straordinaria ricchezza storica di quella piazza.   

Marino sottolinea tuttavia come la Città Vecchia sia comunque teatro di iniziative encomiabili, come la nascita del Crac, coraggioso progetto di Giulio De Mitri, ad oggi l’unico spazio a Taranto riservato all’arte contemporanea.

E al contemporaneo, con l’avvento della ex direttrice Eva Degl’Innocenti, si è aperto anche il Museo Archelogico MArTA, in una suggestiva relazione tra passato e futuro.

La ricostruzione di Pietro Marino non trascura l’importanza della fotografia negli eventi di arte contemporanea. Anche in questo caso, va citato il laboratorio del circolo Italsider. All’arte fotografica sono legati i nomi di talenti locali, come Pino Settanni, che si appassionò alla fotografia proprio attraverso il circolo Italsider, o come il grottagliese Ciro DeVincentis o ancora di artisti che a Taranto hanno lasciato il segno come Mario Cresci o Uliano Lucas. Non ultima per importanza l’attività del circolo “Il Castello”, che ha portato in città nomi del calibro di Letizia Battaglia, Ferdinando Scianna, Franco Fontana e lo stesso Lucas, giusto per citarne alcuni.

Interessanti anche i riferimenti alle attività nei comuni della Provincia, a Massafra o a Martina Franca dove emerge la figura di una operatrice culturale come Lidia Carrieri. Molto intrigante il raffronto tra le esperienze di street art: quella che si è sviluppata a Grottaglie, inizialmente come fenomeno spontaneo e di protesta legato soprattutto alle tematiche ambientali, e il progetto che si è sviluppato a Taranto negli ultimi anni, nel quale al contrario gli artisti hanno agito su commissione del Comune, perdendo forse lo spirito spontaneistico che caratterizza queste forme d’arte.

Restano le grandi incompiute: la Pinacoteca, l’Arsenale Mediterraneo dell’Arte Contemporanea e la Biennale del Mediterraneo. Quest’ultima, come ha rivelato alla presentazione del libro il direttore del Dipartimento Turismo e Cultura della Regione, Aldo Patruno, ha incontrato un grosso ostacolo proprio nel suo nome: quel “Biennale”, sul quale si sarebbero registrate robuste resistenze veneziane.

In ultima analisi, la lettura di “Taranto, il mare e la cenere”, grazie alla puntigliosa ricostruzione di Pietro Marino, lascia una profonda necessità di riflessione critica su ciò che è stato e ciò che può ancora essere, sempreché Taranto sappia finalmente uscire da un certo municipalismo culturale, partendo proprio dalle esperienze contradditorie che ne hanno costellato la storia degli ultimi decenni.

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