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La crisi del Siderurgico

«Non vogliamo chiudere, ma non dipende solo da noi»

Il "faccia a faccia" tra Morselli e indotto

Lucia Morselli - Foto Francesco Manfuso

Lucia Morselli - Foto Francesco Manfuso

«Lo stabilimento va avanti? Deve andare avanti? O dobbiamo fermarlo?» «Noi non lo vogliamo chiudere. Ma, per non chiuderlo, dobbiamo essere tutti dalla stessa parte». Così parlò Lucia Morselli ai lavoratori delle imprese delle indotto siderurgico, all’esterno dello stabilimento tarantino di Acciaierie d’Italia. Una mossa a sorpresa, quella dell’amministratore delegato di AdI, che si è messa a dialogare con alcuni dei manifestanti che in questo momento sono fermi, e vivono con enorme apprensione il momento delicatissimo della Fabbrica e del variegato sistema che le gira attorno. «Le vogliamo salvare, le aziende, dottoressa?» è stata l’esplicita domanda che si è levata dagli operai; “le aziende”, chiaramente, sono le ditte dell’appalto la cui situazione è di grande sofferenza. Il terrore di queste persone è di «stare nel limbo», «diventare disoccupati a 60 anni», e se non si lavora è perchè  «siamo stati costretti, se non ci pagano, cosa andiamo a fare?».

Morselli, a Taranto per “European Casting Forum”, evento organizzato dalla società francese Transvalor proprio nello stabilimento siderurgico tarantino, ha ascoltato - e risposto. «Lo stabilimento è al minimo storico anche perché ci manca il vostro lavoro. Non è al minimo storico perché vogliamo chiudere. Non vogliamo chiudere» ha dichiarato Morselli, occhiali scuri a goccia e la dialettica che certo non le manca. «Ci sono però delle questioni che stanno sopra voi e anche sopra noi. Queste questioni stanno su dei tavoli molto importanti. Dobbiamo aspettare che questi tavoli trovino una via d’uscita. Se il problema fosse fra tutte le vostre aziende e l’acciaieria, l’avremmo risolto. In un qualche modo ma l’avremmo risolto. Il problema sta sopra le nostre teste. È un problema molto importante, molto grande. E abbiamo persone che devono darci loro la soluzione. Anche noi come acciaieria speriamo che si trovi una strada comune. L’acciaieria non ce l’ha con voi e voi non ce l’avete con noi. Siamo la stessa cosa. Non c’è una contrapposizione». Ancora, «penso che sappiate qual è lasituazione, penso che sappiate che ci sono grandi partite che si stanno giocando a livello molto elevato, a livello di governo e di tutti gli altri soci e penso che stiano arrivando ad una soluzione. Siamo all’ultimo miglio di questo percorso complesso. Il lavoro che si sta facendo lo fanno a livello di grandi potenti. Noi ascoltiamo, diamo una mano, ma sono loro che devono decidere».

Ad ogni buon conto, però, Acciaierie d’Italia sembra andare sempre più veloce verso l’amministrazione straordinaria dopo che Cesare Giuseppe Meroni, chiamato dal Tribunale per gestire la “composizione negoziata” della crisi di Acciaierie d’Italia ha definito «non  ipotizzabile, quanto meno nel brevissimo periodo, il raggiungimento di un accordo tra Invitalia e ArcelorMittal idoneo ad assicurare quel sostegno finanziario indispensabile a garantire la continuità aziendale» e sottolineato come «pare difficile ipotizzare che, in assenza di una compagine sociale coesa, AdI possa accedere alle ingenti (e urgenti) risorse finanziarie previste dal piano nonché poter continuare ad essere un primario partner industriale di società italiane ed europee». E, ancora, «non pare che si possa giungere ad una conclusione diversa dalla sopravvenuta impraticabilità del percorso di risanamento posto a fondamento della domanda di accesso alla composizione negoziata», «Non sussistono condizioni per l’elaborazione – nell’ambito del presente strumento – di un percorso alternativo che potrebbero in ipotesi giustificare l’adozione delle richieste misure protettive».

Già da oggi, 7 febbraio, Invitalia potrà chiedere al ministro delle Imprese e Made in Italy, Adolfo Urso, se esistono i presupposti per l’amministrazione straordinaria.

Intanto, proseguono le audizioni per gli ultimi provvedimenti del governo:  il presidente di Confindustria, Carlo Bonomi, è intervenuto presso la commissione Industria del Senato rimarcando che «lo stabilimento di Taranto ha un ruolo ancora cruciale. Nel 2023 la produzione di acciaio nazionale è risultata pari a 21,1 M.t. Anche se ha mostrato una maggior tenuta rispetto a quella dei principali partner europei (Germania: 35,4 M.t., -3,9%; Spagna: 11,3 M.t., -2,7%; Francia 10,0 M.t., -17,4%), è in calo del 2,5% nel confronto annuo e del 10,2% rispetto al livello medio dell’ultimo decennio (23,5 M.t.). Alla luce di queste evidenze, è intuitivo capire che, se la produzione di Taranto continuasse a diminuire, col rischio di azzerarsi, l’unica alternativa sarebbero le importazioni. Tuttavia, l’acciaio primario proveniente da Paesi extra UE ha tempi di consegna molto più lunghi, come quello ordinato dall’Asia che viene consegnato dopo 3-4 mesi, ed è più esposto al rischio di volatilità dei prezzi. Ciò comporta che gli operatori devono fare scorte più ampie, che necessitano di più spazio e incidono in negativo sul capitale circolante». Per Bonomi, «l’acciaio prodotto a Taranto, invece, arriva ai settori industriali italiani in 30-40 giorni e presenta costi maggiormente preventivabili. È il motivo per cui riteniamo essenziale che Taranto torni a una capacità produttiva importante, com’è stato in passato. Fondamentale, poi, è anche il tema automotive: se davvero l’Italia punta a tornare a produrre un milione di veicoli l’anno, poter disporre dell’acciaio di Ilva è un fattore strategico».

Il presidente degli industriali italiani ha ribadito l’importanza della «decarbonizzazione» e della «sostenibilità ambientale della produzione di acciaio a Taranto» e nello stesso tempo delle «misure per la competitività della produzione nazionale di acciaio e che riguardano anche Taranto», mentre «la principale criticità dell’Amministrazione Straordinaria, annunciata come imminente, è il sostanziale azzeramento dei crediti pregressi; dunque, il pesante impatto che avrebbe, come già nel 2015, sull’indotto. Riguardo a quest’ultimo, le stime di Confindustria Taranto sono di circa 80 milioni di euro di crediti pendenti; peraltro, ferma la forte composizione locale, i creditori di Ilva sono dislocati su tutto il territorio nazionale. È il motivo per cui crediamo che un sacrificio così importante alle ragioni delle tante imprese coinvolte, e dei rispettivi lavoratori, rendano necessarie e urgenti, da un lato, le decisioni sul fronte industriale; dall’altro, misure tempestive e incisive a supporto dei creditori di Acciaierie d’Italia».

Certo, il vero dato di fatto, per Bonomi, è che «dopo 10 anni ci ritroviamo a discutere gli stessi temi e con gli stessi strumenti, perché continuiamo a commettere lo stesso errore: inseguiamo soluzioni al problema dell’indotto, che ha contribuito a tenere in piedi lo stabilimento di Taranto, ma non consideriamo che il modo migliore per salvaguardarlo e, con esso, tutelare un pezzo importante dell’economia del Mezzogiorno, è inserirlo in una visione chiara sulla politica industriale e sulla competitività del Paese. Come Confindustria, ci rendiamo disponibili sin d’ora per l’apertura di un tavolo, con i ministeri competenti, per definire le misure necessarie a dotare l’Italia di un piano industriale per l’acciaio, che ricomprenda il ruolo strategico della produzione di Taranto».

Anche Lunetta Franco, presidente di Legambiente Taranto, ha partecipato alla audizione svoltasi in videoconferenza presso la nona Commissione del Senato. Per Legambiente la continuità aziendale, finalità del decreto in esame espressamente richiamata dall’articolo 2 dello stesso, ed indicata nel testo come indispensabile a preservare la funzionalità produttiva degli impianti ed assicurare la salvaguardia dell’ambiente e la sicurezza dei luoghi di lavoro, da sola non assicura la salvaguardia nè dell’ambiente, né della salute, peraltro neppure menzionata nel decreto. «Siamo preoccupati per gli incidenti che si sono registrati nei mesi passati:  riteniamo necessario un check up completo degli impianti, sulla cui scorta si proceda rapidamente alle manutenzioni straordinarie necessarie ed al fermo di quelli che risultassero in condizioni non idonee al normale esercizio. Siamo allarmati dal costante incremento delle concentrazioni di benzene rilevate da Arpa Puglia nel quartiere Tamburi: i valori registrati dalla centralina di via Orsini risultano più che raddoppiati dal 2019 al 2022 e nei primi 7 mesi del 2023 risultano ancora superiori, con una media di oltre 4 microgrammi per metro cubo, ormai prossima al limite di 5, previsto dalla normativa».

Per Legambiente è indifferibile che si proceda alla «Valutazione dell’Impatto Sanitario delle emissioni dello stabilimento connesse alla attuale produzione, pari a circa 3 milioni di tonnellate annue, oltre che sulla quantità massima autorizzata, pari a 6 milioni di tonnellate. Gli interventi previsti dalla Autorizzazione Integrata Ambientale per le emissioni in atmosfera sono stati effettuati: è urgente sapere se sono efficaci e stabilire su basi scientifiche se, e quanto, gli impianti attualmente in uso possano produrre senza rischi inaccettabili per la salute di cittadini e lavoratori. Occorre avviare da subito la decarbonizzazione».

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