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La storia
07 Luglio 2024 - 06:15
Una copertina di Classic Rock con i Soundgarden
«La tappa successiva è quella di Taranto, al Cinema Teatro Ariston, voluta fortemente dal promoter locale Franco Battafarano, che insiste per dare un assaggio di Nord-ovest Pacifico a quella che a quel tempo, grazie al suo fermento musicale, viene definita “la Firenze del Sud”. Thayil (Kim Thayl, chitarrista dei Soundgarden, ndr) ricorda molto bene il primo impatto con la città: “Era molto diversa da Roma o Milano. Sembrava un altro Paese. Sembrava di stare in Messico, o in Sudamerica”. E aggiunge un particolare che ben rappresenta, non senza un filo di folklore, cosa potesse significare per l’Italia di allora avere una banda di forestieri in città, una manciata di squinternati capelloni con i jeans stracciati, tra cui un indiano e un giapponese. “Dopo la cena al ristorante abbiamo fatto una passeggiata. La gente si affacciava dai balconi, scendeva in strada e ci urlava addosso”».
E’ un passaggio di ‘Niente specchi in camerino’, la storia del mitico gruppo grunge-rock Soundgarden, scritto da Valeria Sgarella ed edito da Tsunami edizione. Uno stralcio del libro, che documenta i primi tour italiani di quella che sarebbe diventata una delle più note e celebrate band del pianeta, è stato pubblicato anche dal magazine musicale RollingStone.
La copertina del libro di Sgarella
Ne emerge, in filigrana, anche un ritratto della Taranto del 1989, che ospitò una delle prime trasferte europee di Chris Cornell, poi tragicamente scomparso, e soci. Una città a metà tra il provincialismo del Mezzogiorno e pulsioni ribelli, underground, davvero grunge: insomma, un po’ Youngstown, la steel town dell’Ohio poi simbolo del declino industriale cantato da Bruce Springsteen, un po’ Seattle, terra d’origine degli stessi Soundgarden, oltre che dei Nirvana di Kurt Cobain, altro angelo caduto degli Anni Novanta.
E se a Kim Thayl pareva di “stare in Messico o in Sudamerica”, con i tarantini che dai balconi inveivano contro di loro, Sgarella aggiunge che «per fortuna però non ci sono solo i detrattori; una folta rappresentanza di fan accoglie la band e la crew fin dal suo arrivo al Cinema Teatro Ariston. Stuart Hallerman (noto produttore musicale statunitense, ndr) intervistato per questo libro, ricorda come la gente inseguisse anche lui e Johnson, scambiandoli per musicisti. “Oh, quelli hanno i capelli lunghi; sicuro sono delle rockstar!”, gridavano. Prima del concerto, Thayil si intrattiene a parlare con alcuni fan, e quel che si sente dire è del tutto inaspettato. “Ricordo che un ragazzo, indicandomi, esclamò più volte: ‘Policia! Hollywood Policia!’. E l’altro invece diceva in continuazione: ‘Eddie Murphy!’, ‘Beverly Hills Cop!’. Poi guardarono Hiro e gridarono: ‘Kung Fu!’. In quel momento capimmo che a quei ragazzi io ricordavo Eddie Murphy, mentre Hiro il protagonista della serie televisiva Kung Fu! Dal canto mio, feci loro presente che Hiro era giapponese, non cinese. Forse ero la prima persona con la pelle scura che avessero mai visto in vita loro, fatta eccezione per Eddie Murphy nei film”. Uno spaccato buffo e surreale che pare risalire agli anni Cinquanta, mentre invece è il 1989!».
Ancora il ricordo di quel memorabile concerto tarantino. Si legge sempre in ‘Niente specchi in camerino’: «All’apertura delle porte, l’affluenza di pubblico al Cinema Teatro Ariston è di circa centocinquanta persone, che entrano a rilento a causa dei cavillosissimi controlli all’ingresso. Thayil ricorda anche una certa tensione: “Arriviamo e c’è tutto un dispiegamento di forze di polizia. Ricordo in particolare tante poliziotte”. A rallentare il tutto ci sono anche i cosiddetti “autoriduttori”, movimento della sinistra extraparlamentare post-sessantottina che sostiene la gratuità della musica e che rifiuta di pagare il biglietto (quindicimila lire). Un’azione, questa, che non di rado sfocia in scontri con le forze dell’ordine, ma che in quest’occasione si esaurisce senza conseguenze; anzi, i manifestanti entrano senza disordini. Nelle fasi che precedono il concerto, Hallerman non ha vita facile nel settaggio degli strumenti. Trattandosi di un cinema, lo spazio riservato al palco è più largo che lungo e la batteria deve per forza essere posizionata non dietro, bensì davanti al gruppo. Non una gran soluzione. I microfoni a disposizione sono pochi e devono essere collegati a terra, in prossimità del pubblico, non sul palco.
“Quando la band ha attaccato a suonare, la gente ha cominciato a fare invasione di palco, scavalcandosi, calpestando gli spinotti dei microfoni e i cavi”, ricorda Hallerman in modo molto vivido. “Quindi, appena attacca il concerto, la voce va via, la chitarra pure, e anche la cassa. Allora mi precipito a fronte palco e ricollego tutto. Dopo venti minuti, tutti gli spinotti sono distrutti e mi rimangono due microfoni. Ecco, questo mi ricordo: la fatica di portare a casa lo show con due soli microfoni”. Anche in questo caso, Thayil ha ancora scolpiti nella mente alcuni particolari del dopo-concerto. È notte tarda, il pubblico si è ormai diradato se non per una decina di irriducibili; strumenti e merch sono già caricati sul furgone e ci si appresta a rientrare in hotel. Dino Galasso, nella concitazione delle mille cose da fare, può a volte essere un po’ scoordinato. Per giunta, quella sera, oltre a fare tutto quel che già faceva, era pure salito sul palco a suonare la chitarra su ‘Beyond the Wheel’. “Fatto sta che Dino si accende una sigaretta, mette la retro e prende in pieno una macchina”, ricorda Thayil. “Da fuori si solleva un corale: Oooh!. E allora ci tocca chiamare le forze dell’ordine e fare tutti gli accertamenti” Non ci voleva proprio: con quella stanchezza addosso, quando c’è solo la voglia di buttarsi sotto la doccia, tocca avere a che fare con la polizia. Però, durante i controlli, qualcosa attira l’attenzione degli agenti: è il passaporto con il nome Galasso. È la svolta. “A quel punto, non solo ci hanno fatto passare”, racconta Hallerman con una risata, “ma ci hanno anche liberato la strada. Perché con noi c’era un italo-scozzese che non conosceva una parola di italiano!”. E chiosa: “Ci dissero che Galasso era un cognome molto famoso”».
La tappa a Taranto fu la seconda nell’italian tour degli ancora poco noti Soundgarden; a precederla, scrive sempre Sgarella, quella al «Uonna Club, storico locale di Roma gestito da Amerigo Brodolini, al numero 871 di via Cassia. Un piccolo club scavato nella pietra, con un soffitto talmente basso che quasi si può toccare, con zero distanza tra pubblico e palco. È il 6 giugno 1989. I Soundgarden portano in scena una scaletta di diciassette canzoni che si apre con un pezzo da novanta: ‘Gun’. È presente anche ‘Circle of Power’, in una delle sue rarissime esecuzioni. “Il set bruciava di quell’urgenza imperfetta più tipica della scena hardcore che di quella metal”, racconta Michele Giorgi, uno spettatore che a un certo punto si trovò abbracciato a Cornell al centro della sala e saltò con lui a tempo di musica. “Mi sono ritrovato in una scena surreale, in mezzo al pit, qui e ora, nello sbarco italiano del fenomeno grunge”».
Dopo Roma e Taranto, sarà la volta del concerto al Velvet di Rimini, e quindi Pisa, al Centro Sociale Autogestito Macchia Nera.
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