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L'intervista

«Io, giornalista tarantino, vi racconto la mia esperienza nella Russia di Putin»

La storia di Daniele De Quarto, per sei anni a Mosca

Soldati ucraini

Soldati ucraini

Daniele De Quarto, quanto tempo hai vissuto in Russia e perché hai deciso di andare a vivere lì?

«Ho vissuto in Russia per sei anni, dal 2016 al 2022. Quando nel 2015 ho conosciuto Elena, la donna che sarebbe diventata presto mia moglie, ci siamo innamorati fin da subito ed abbiamo deciso di andare a vivere insieme in Russia, dato che lei in quel momento aveva una posizione lavorativa stabile, mentre io ero in cerca di un’occupazione. Così nell’estate del 2016 ci siamo sposati a Mosca ed è iniziata la mia avventura in Russia, dove ho anche conseguito una laurea magistrale in giornalismo internazionale, imparando la lingua di Dostoevskij e Tolstoj».

Per un giornalista occidentale la vita a Mosca è complicata?

«Direi di sì, soprattutto dopo l’inizio della cosiddetta “operazione militare speciale”, ovvero l’aggressione dell’Ucraina da parte della Russia avvenuta nel febbraio 2022. Proprio in quei giorni venne approvata dal parlamento una legge che impone restrizioni alla libertà di stampa e che sostanzialmente proibisce le critiche, su qualsiasi mezzo di informazione di massa, al governo e alle forze armate russe, prevedendo come pena anche la reclusione in carcere. Inoltre è in vigore la legge sugli “agenti stranieri”, che consente al governo russo di dichiarare come tali anche chi non riceve finanziamenti esteri e che ha il fine di colpire le associazioni e le organizzazioni non governative ritenute scomode. Quando è iniziato il conflitto su vasta scala in Ucraina ero corrispondente da Mosca per l’agenzia di stampa “Agenzia Nova” e, fortunatamente, ho continuato a svolgere il mio lavoro senza grossi problemi, anche perché le citate misure restrittive della libertà di stampa sono state ideate per colpire prevalentemente le pubblicazioni in lingua russa». 

La stampa russa gode della stessa libertà di quella occidentale? La guerra in Ucraina ha modificato il rapporto tra media e potere in Russia?

«La stampa russa è quasi totalmente assoggettata al governo, anche perché mancano nel Paese dei partiti che facciano una vera opposizione. Nel mondo occidentale c’è un certo conformismo di fondo da parte dei principali media, il cosiddetto mainstream, ma non sono mai mancati né il pluralismo dell’informazione, né una dialettica vivace, grazie anche al ruolo sempre più determinante dei social. In Russia invece viene regolarmente applicata una forma di autocensura da parte degli editori, per non incorrere in sanzioni amministrative o anche penali e ciò rende stucchevole il dibattito. Il principale periodico di opposizione, la rivista Novaya Gazeta, diretta dal premio Nobel per la Pace 2021 Dmitrij Muratov, è stato costretto a sospendere le pubblicazioni a data da destinarsi dopo diversi richiami da parte del Roskomnadzor, l’agenzia federale russa posta sotto il controllo del ministero delle comunicazioni. Il conflitto in Ucraina ha inevitabilnente accentuato la stretta del governo russo sui media, inducendo tra l’altro diversi giornalisti o blogger indipendenti a lasciare il Paese, temendo per la propria incolumità. D’altronde l’informazione è un’arma potentissima e ciò vale soprattutto in tempo di guerra, al fine di orientare l’opinione pubblica interna e produrre disinformazione contro i “nemici”, pertanto il governo russo ha bisogno di silenziare le voci non compatibili con il raggiungimento degli obiettivi politici e militari annunciati». 

Cosa vi ha convinti a tornare in Italia?

«In concomitanza con l’inizio della guerra è stato introdotto un regime di sanzioni e controsanzioni tra Mosca e Paesi occidentali e questo ha avuto delle conseguenze immediate dal punto di vista sociale in Russia. In particolare la situazione economica si è presto deteriorata divenendo decisamente instabile, inoltre abbiamo notato una certa carenza di medicinali anche di prima necessità il che, avendo una bambina piccola, nata ad agosto 2021, ha destato in noi una certa preoccupazione. A questo va aggiunto il citato clima intimidatorio nei confronti dei giornalisti occidentali da parte delle autorità russe, accentuatosi dopo l’inizio dell’invasione dell’Ucraina. In sintesi io e mia moglie abbiamo avvertito un repentino peggioramento delle condizioni generali di vita e, pensando soprattutto al futuro di nostra figlia, abbiamo deciso di trasferirci in Italia la scorsa primavera».

Il tuo ritorno ha cambiato il modo di vedere la Russia e la guerra scatenata contro l’Ucraina?

«Da quando sono tornato in Italia con la mia famiglia provo un misto di sollievo ma anche di dispiacere per la piega presa dagli eventi. Devo dire che mi aspettavo una qualche forma di intervento militare russo in Ucraina, ma limitato al Donbass, dopo il riconoscimento dell’indipendenza delle repubbliche di Donetsk e Luhansk da parte di Mosca, ma non avevo assolutamente previsto un attacco su vasta scala all’intero territorio ucraino. Pertanto il 24 febbraio 2022 la mia reazione è stata un misto di stupore e di preoccupazione ed inoltre ho iniziato a maturare la consapevolezza che, da qui a chissà quanti anni, le strade della Russia e dell’Europa occidentale, che stavano lentamente convergendo, si separeranno sempre di più. In ogni caso continuo a mantenere un grande rispetto per la cultura russa e per il suo popolo, che non ha responsabilità in questo conflitto».

In Russia esiste un’opposizione a questa guerra e, se sì, che rilevanza ha? Come si esprime?

«L’opposizione alla guerra in Ucraina si esprime quasi esclusivamente a livello di media alternativi, da parte di giornalisti o blogger indipendenti, i quali sono quasi tutti emigrati all’estero. Si tratta di voci che nell’attuale contesto non possono fare il salto di qualità e costituirsi in opposizione politica, anche perché i partiti della cosiddetta opposizione, presenti in Parlamento, sono tutti controllati più o meno direttamente dal Cremlino. Il principale avversario di Putin, il giornalista ed esponente politico Aleksej Navalnij, si è espresso fin da subito contro l’aggressione in Ucraina, ma lo ha fatto dalla cella della colonia penale dove è rinchiuso in regime di carcere duro, per delle condanne in merito a reati di frode che però celano motivazioni politiche, a riprova di quanto sia impotente l’opposizione in questo momento».

A tuo giudizio hanno senso le speranze occidentali di una destituzione di Putin da parte di forze interne al Cremlino?

«Credo che Putin, che è al potere da oltre 23 anni, abbia eliminato con ogni mezzo a sua disposizione ogni forma di opposizione interna, sia inerente alle forze armate che ai servizi segreti, ma anche economico-finanziaria, avendo legato a sé le sorti degli oligarchi. Pertanto non ritengo plausibile al momento un colpo di Stato interno alle istituzioni russe volto a rovesciare Putin per installare un leader filo-occidentale, a meno che la guerra in Ucraina non dovesse evolvere verso una sconfitta rovinosa per Mosca, mettendo in pericolo il futuro stesso della Federazione Russa come Stato unitario e sovrano. In tal caso i militari ed i servizi segreti potrebbero assumere le redini del potere, ma non è detto che il nuovo governo abbia necessariamente un atteggiamento più conciliante verso l’Occidente».

Come spieghi l’atteggiamento del patriarca moscovita?

«La chiesa ortodossa russa è stata sempre fedele al potere politico, fin dai tempi dell’Impero russo, e questa è una dinamica ereditata dall’Impero romano d’Oriente, o Bizantino che dir si voglia. Le autorità sovietiche, che dopo la rivoluzione bolscevica rinchiusero in campi di lavoro forzato o eliminarono fisicamente centinaia di migliaia di sacerdoti ortodossi, spesso anche con le loro famiglie, riuscirono ad infilitrare esponenti dei servizi segreti ai vertici della chiesa ortodossa. Quando la Germania nazista invase l’Urss, Stalin autorizzò personalmente le processioni popolari e le preghiere in pubblico con l’ostentazione delle icone sacre, perché ciò era funzionale all’unità del “popolo sovietico” nella guerra contro l’invasore. Il patriarca di Mosca Kirill, che ha sostanzialmente pronunciato parole di approvazione nei confronti del conflitto in Ucraina, ha semplicemente confermato la storica subordinazione della sfera religiosa a quella politica in Russia».

Perché è così difficile parlare di pace e così facile parlare di armi, sia in Russia che in Occidente?

«Le guerre nascono da interessi contrapposti tra centri di potere, riguardo la conquista di territori, l’utilizzo di materie prime e di risorse energetiche ed il controllo delle rotte commerciali e dei flussi finanziari. Questi opposti interessi non possono essere eliminati ma devono essere mediati e stemperati attraverso la diplomazia, che, purtroppo ha fallito nell’evitare la guerra su larga scala, la prima in Europa dal termine del secondo conflitto mondiale. La sensazione che ho è che sia la Russia che la Nato, in particolare Stati Uniti e Regno Unito, avessero intenzione di andare allo scontro armato, senza curarsi delle conseguenze nefaste, a cominciare dalle sorti della popolazione ucraina. Se da un lato l’Ucraina rappresenta per la Russia un territorio da assoggettare, dall’altro rappresenta, per la leadership della Nato o quanto meno per le fazioni più oltranziste, i cosiddetti “falchi”, un mero campo di battaglia dove inviare armi, istruttori militari e soldati mercenari al fine di costringere la Russia ad una guerra di logoramento, consumandola militarmente ed economicamente e costringendola a sedersi al tavolo delle trattative da una posizione di debolezza».

C’è qualcosa che rimpiangete della vostra vita moscovita?

«Rimpiangiamo soprattutto il fatto di aver dovuto lasciare una città dalla bellezza straordinaria, dalla storia millenaria e cosmopolita dopo aver investito tante energie per creare la nostra famiglia. Abbiamo lasciato parenti ed amici in Russia, oltre ai familiari più stretti di mia moglie, per i quali spesso nutriamo una certa preoccupazione, anche perché i collegamenti aerei dall’Europa sono sempre più difficoltosi. La stabilità politica ed economica non è mai stata una prerogativa della Russia, però fino all’inizio della guerra, per circa 20 anni, c’è stato un oggettivo miglioramento delle condizioni di vita generali, unito ad una parvenza di democrazia e di libertà».

Cosa pensi del fatto che molti giornali e televisioni da poco dopo l’inizio della guerra chiamano Kiyv e non più Kiev la capitale dell’Ucraina?

«Si tratta di un’operazione mediatica volta a consolidare l’identità nazionale dell’Ucraina in funzione anti-russa. In particolare Kyiv è la traslitterazione dell’ucraino Київ, che in russo si scrive invece Киев e si pronuncia Kiev.

D’altronde l’Ucraina ha una storia relativamente recente, avendo ottenuto l’indipendenza come Stato sovrano nel 1991, dopo la disssoluzione dell’Urss, dopo essere stata parte integrante dell’Unione sovietica e precedentemente dell’Impero russo, mentre alcune regioni occidentali appartenevano all’Impero Austro-Ungarico fino alla Prima Guerra Mondiale e precedentemente a Polonia e Ungheria. La costruzione di una identità nazionale dell’Ucraina separata dalla Russia e a lei ostile, in contrasto con l’idea di un unico popolo portata avanti da Mosca, rappresenta un tassello fondamentale del conflitto, almeno a livello mediatico».

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