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Palazzina Laf - Il film
13 Gennaio 2024 - 07:00
Michele Riondino ed Elio Germano nel film Palazzina Laf
Sono forse due i momenti chiave del film di Michele Riondino sulla Palazzina Laf. Due sequenze che impongono una riflessione non tanto sull’innegabile pregio cinematografico dell’opera prima dell’attore e regista tarantino. No, sono due istantanee che esprimono perfettamente illusioni e disincanto cresciuti intorno a quel colosso siderurgico che fece «menar vanto ai tarantini, orogliosi di abitare nella capitale eruopea dell’acciaio», come scrisse nel 2001 Carlo Petrone nella presentazione del libro sulla storia di Claudio Virtù. Il primo momento è proprio quello iniziale: l’interno della chiesa Gesù Divin Lavoratore con quel mosaico del Cristo che dal ponte girevole, sullo sfondo di navi e ciminiere, benedice operai, pescatori, massaie, professionisti. Quel mosaico rappresentava l’utopia della Taranto che si sentiva madre di un popolo variegato e operoso, orgoglioso sì di vivere in quella comunità che nel tenere insieme tradizione e progresso inseguiva il futuro proiettata in una dimensione internazionale, accarezzata dal benessere economico che per almeno un ventennio accompagnerà le sorti felici di quel miracolo del Mezzogiorno. Basterebbe citare i dati riportati da Roberto Cofano nello stesso libro oggi ristampato in edizione aggiornata per comprendere il peso di quel miracolo: il reddito totale prodotto a Taranto passò dai 101 milioni di lire del 1961 ai 529 milioni del 1971.
Se quel mosaico rappresentava dunque il sogno, l’utopia, la proiezione nel futuro, la seconda sequenza cardine del film di Riondino è quella in cui uno dei confinati della Laf dice a Caterino (il personaggio interpretato da Riondino): «Vi siete mai chiesti come mai accanto alla più grande acciaieria d’Europa non ci sta nemmeno una fabbrica di forchette?». È l’interrogativo che racchiude il paradosso di una città ricca di una importante storia industriale ma, per assurdo, priva di autentica vocazione industriale e imprenditoriale. Più adusa a galleggiare tra appalti e subappalti che a creare quella “fabbrica di forchette” che è sempre mancata.
A margine del film va infine fatta chiarezza su un aspetto: il caso della Palazzina Laf, come tanti commentatori soprattutto sui social credono e hanno lasciato credere, non è stato portato alla luce da Riondino. Lo stesso libro di Virtù, dal quale il film è tratto, dà testimonianza delle iniziative politiche e istituzionali e della grande attenzione dei giornali su quel caso che rappresentò uno spartiacque nel rapporto tra città e industria. Queste sistematiche rimozioni di una parte della storia delal città sono purtroppo alla base delle discussioni tossiche intorno alla presenza del siderurgico, della incapacità di un confronto equilibrato e senza pregiudizi, della sguaiata tendenza alla rissa. Ecco, chi scopre solo oggi la storia della Palazzina Laf o è troppo giovane per sapere oppure dormiva allora e oggi, destato dal clamore del film, pensa che a dormire fossero gli altri.
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