Notizie
Cerca
La storia
16 Febbraio 2025 - 09:00
Virgilio Iacus
Una magnifica arena che potrebbe confondersi con il Colosseo ricorda i fasti orgogliosi e crudeli dell’Impero Romano. A guardare la baia che sembra una delle tante insenature smeraldine della litoranea salentina c’è il monumento a Vladimir Gortan, nazionalista croato di cittadinanza italiana, considerato eroe nazionale, giustiziato proprio in quel luogo per mano fascista perché accusato di aver condotto una spedizione contro un gruppo di contadini che si recava a votare alle elezioni plebiscitarie del 1929. Uno di quei contadini, padre di dieci figli, rimase ucciso e a Gortan toccò la fucilazione. Ma le opinioni cambiano a seconda del punto di vista dal quale si guarda la storia e quel monumento fu poi imbrattato quando esplose la guerra che portò alla dissoluzione della Jugoslavia.
Al centro della città, in un giardinetto pubblico, affiora una scultura dedicata a Sergio Endrigo e alla sua “L’arca di Noè”. Una canzone che a riascoltarla oggi è quasi una toccante allegoria della necessità di salvezza a bordo di quella nave che «partirà/ dove arriverà/ questo non si sa». Quella nave che in una gelida giornata di fine gennaio del 1947 (anche quella data cantata da Endrigo) imbarcò un carico di famiglie costrette a lasciare la loro terra, la loro patria, la loro Heimat: Pola, l’Istria. Tra quelle famiglie, quella di Virgilio Iacus, classe 1937, che alla tragedia del popolo istriano e alla sua profonda esperienza personale ha dedicato diversi libri. L’ultimo in ordine di tempo, “Istria – Quarant’anni nella tempesta che ha sconvolto tutti e risparmiato nessuno”, pubblicato tre anni fa da Antonio Mandese Editore.
Oggi Virgilio, pensionato del siderurgico, persona colta e dalla memoria ferrea che gli consente una meticolosa ricostruzione storica dei fatti, dedica il suo tempo a rimettere insieme i fili di una storia controversa e a raccontarla, quella storia, tenendosi lontano da strumentalizzazioni di sorta, da una parte e dall’altra. Operazione complicatissima, se si considera che per quasi ottant’anni quella storia è stata schiacciata da dall’errato assioma che essere profughi istriani significava essere fascisti.
La storia di Virgilio racconta tutt’altro: che essere profughi arrivati dall’Istria non significava affatto essere fascisti ma che purtroppo, quello stigma, ti costringeva a subire la discriminazione e a preoccuparti delle orde più violente di chi stava dall’altra parte e che, ancora di recente, urlava che «infoibare un fascista non è un reato».
Virgilio mette subito le cose in chiaro: «Non vi è dubbio che le foibe abbiano rappresentato un momento tragico, ma i numeri e le descrizioni delle torture, che abbondano nei racconti di parte, risultano spesso esagerati o strumentalizzati».
E allora Virgilio prova a ricostruire il contesto storico nel quale si consumò quell’odioso massacro ad opera delle milizie di Tito: «Così come la vicenda palestinese non inizia il 7 ottobre del 2023 e l’invasione russa in Ucraina ha radici ben più profonde, anche le foibe non possono essere comprese senza esaminare le pagine precedenti e successive. Quelle precedenti raccontano trenta mesi di conflitto durissimo nei territori occupati dagli italiani oltre il Monte Nevoso: trenta mesi nei quali l’esercito fascista mise a ferro e fuoco quelle regioni. Le pagine successive raccontano invece che il conflitto in Istria proseguì per altri venti mesi dopo il settembre del ’43. Venti mesi nei quali la nuova alleanza tra partigiani jugoslavi e italiani si scontrò contro le forze fasciste che, dopo l’8 settembre, avevano giurato fedeltà a Hitler». Italiani contro italiani: una storia fatta di massacri, rappresaglie e migliaia di morti.
«Le foibe ci furono, ma anche i massacri fascisti ci furono e molti dei loro autori sono stati successivamente reintegrati nelle istituzioni italiane. La memoria storica non può essere selettiva. Raccontare solo un capitolo della storia significa falsificarla. Per onorare realmente le vittime, italiane e slave, bisogna ricordare tutto il contesto, senza distinzione di parte».
Torniamo allora a quella nave che salpò da Pola in quella gelida giornata di gennaio. Centinaia di famiglie costrette a lasciare la propria terra perché nel frattempo, dopo l’armistizio, l’Istria era stata di fatto abbandonata a sé stessa, atroce campo di battaglia tra tedeschi e slavi.
Anche la famiglia di Virgilio fu costretta all’esilio forzato. Una famiglia che, senza quegli sconvolgimenti, sarebbe stata una tranquilla e agiata famiglia polesana: «Eravamo in sei. Mio padre per avere un posto di lavoro fu costretto a farsi la tessera del Fascio e partecipò alla campagna di Etiopia che, oltre alla malaria, gli procurò un posto di lavoro all’Arsenale di Pola. Mia madre lavorava in una fabbrica di lucchetti. Nel ’44 mio padre rischiò di essere fucilato. Fu scaraventato contro un muro dai tedeschi mentre usciva dall’Arsenale. Volevano fucilarlo insieme ad altri operai. Era successo, infatti, che i partigiani avevano ucciso due soldati tedeschi e per rappresaglia i tedeschi volevano fucilare i primi venti operai usciti dall’Arsenale. Fortunatamente poco prima dell’esecuzione arrivò la notizia che i due partigiani accusati di aver ammazzato i soldati tedeschi erano stati individuati e uccisi. Così quella fucilazione di massa degli operai dell’Arsenale fu fermata».
A dicembre del ’46 Pola è allo stremo: l’Arsenale e i cantieri navali furono chiusi. Non restava che partire. Con la garanzia di un lavoro e di un alloggio in Italia.
«La prima tappa a bordo della nave Toscana – racconta Virgilio – fu Venezia. Da lì, un treno per Taranto. I vagoni erano stracolmi. Mio fratello era costretto a dormire sulle mensole in alto, al posto delle valigie».
Viaggio lunghissimo e sfiancante. «Viaggiamo in treno per una settimana. Arrivammo a Taranto il 6 febbraio 1947. Era una giornata di sole. Ci caricarono su un camion della Marina e fummo portati a San Vito, in un campo vicino le Scuole Cemm, quello che poi sarebbe stato chiamato “Villaggio polesano”. Eravamo stanchi e sporchi. Puzzavamo. Le donne ci buttarono letteralmente in mare. Avevamo assoluto bisogno di ripulirci, non solo per igiene ma per il bisogno inconscio di purificarci da tutto ciò che avevamo subìto e prepararci così ad una nuova vita».
L’impatto con Taranto non fu dei più semplici: «Dalla popolazione eravamo trattati con diffidenza. Temevano che togliessimo loro il pane e quella diffidenza divenne aperta ostilità in occasione delle elezioni del 1948. In quella che allora era Piazza Giordano Bruno, oggi Piazza Immacolata, erano state innalzate delle forche alle quali erano stati impiccati dei pupazzi con i cartelli “Polesani fascisti”. Un giorno, dei manifestanti comunisti, armati di bastoni e fucili da caccia presero a dirigersi verso il villaggio polesano, seguiti dalla polizia. Scattato l’allarme al villaggio, i polesani, aiutati dai marò della San Marco, svuotarono l’armeria e si disposero lungo il muro che delimitava il campo. Poi, rotti gli indugi, abbandonarono quella postazione e si diressero a fronteggiare il gruppo degli assalitori. Lo scontro fu evitato perché la polizia e i marinai della San Marco balzarono al centro tra le due fazioni ed evitarono quello che sarebbe stato uno spargimento di sangue. Mi chiedo ancora oggi cosa sarebbe accaduto se non ci fossero stati gli uomini della San Marco a proteggerci, dal momento che la polizia aveva “scortato” il gruppo dei manifestanti».
C’era sempre quello stigma a criminalizzare i polesani: «Eravamo considerati fascisti solo perché eravamo scappati dai comunisti. Ma noi non stavamo né con gli uni né con gli altri».
Quello fu sicuramente l’episodio più cruento, prima che si tornasse a vivere una vita più serena. «Rimanemmo a San Vito fino al 1952, quando ci furono assegnati degli alloggi in via Cesare Battisti». In quegli anni Virgilio cresce, studia al Pitagora e poi prende posto all’Italsider, dove riesce a diventare dirigente degli uffici finanziari: «Nella più grande industria siderurgica italiana sono rimasto trent’anni. Mi etichettavano come slavo. Ma un riconoscimento morale lo ebbi quando l’allora direttore dello stabilimento, Sergio Noce, disse: “Mi fido più di quello slavo che di me stesso"».
Il rapporto con la città è via via diventato più sereno. «Di quei millecinquantaquattro polesani sbarcati a Taranto non è rimasto quasi più nessuno. Io mi sento istriano, ma mia moglie e mio figlio sono di Taranto. Sono tornato in Istria diverse volte, ma è cambiato tutto, la casa di famiglia non c’è più. Le discriminazioni? Erano figlie del tempo. Mi sono preso insulti, ma non nutro astio verso nessuno. Oggi Taranto è la mia città».
I più letti
Testata: Buonasera
ISSN: 2531-4661 (Sito web)
Registrazione: n.7/2012 Tribunale di Taranto
La società percepisce i contributi di cui al decreto legislativo 15 maggio 2017, n. 70. Indicazione resa ai sensi della lettera f) del comma 2 dell’articolo 5 del medesimo decreto legislativo
Piazza Giovanni XXIII 13 | 74123 | Taranto
Telefono: (+39)0996960416
Email: redazione.taranto@buonasera24.it
Pubblicità : pubblicita@buonasera24.it
Editore: SPARTA Società Cooperativa
Via Parini 51 | 74023 | Grottaglie (TA)
Iva: 03024870739
Presidente CdA Sparta: CLAUDIO SIGNORILE
Direttore responsabile: FRANCESCO ROSSI
Presidente Comitato Editoriale: DIEGO RANA