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Giorno del Ricordo

Le foibe: una tragedia del '900

Iniziativa a Carosino. La relazione del prof. Cosimo Rodia

Giorno del Ricordo

Il Giorno del Ricordo è celebrato il 10 febbraio di ogni anno

L’amministrazione comunale di Carosino e “Interzona news” organizzano per domani, venerdì 9 febbraio, alle ore 18,30, presso il Castello D’Ayala Valva di Carosino, la commemorazione del “Giorno del Ricordo”.

Saluteranno il sindaco, Onofrio Di Cillo e l’assessore alla Cultura, Maria Teresa Laneve. Il prof. Cosimo Rodia relazionerà sul tema: “Le foibe – Una tragedia del ‘900”.

Virginia Campanella e Antonella Zannetti cureranno alcune letture riguardo i drammatici fatti, troppo a lungo dimenticati.

Di seguito pubblichiamo la relazione del prof. Cosimo Rodia.

Partiamo da una premessa: Trieste, l’Istria e la Dalmazia sono territori divenuti Province romane nel primo secondo a. C. La Dalmazia, inoltre, fu terra di quattro imperatori romani, tra i più conosciuti, figura Diocleziano.

L’impero romano d’Occidente cade nel 476 d.C. Dopo varie incursioni barbariche e la nascita dei Comuni intorno all’anno Mille, nel ‘400 le città costiere, al di là dell’Adriatico, diventano parte della gloriosa Repubblica di Venezia.

Nel 1797, per effetto del trattato di Campoformio, tutto il territorio della Serenissima è ceduto da Napoleone all’Impero Austro-Ungarico (ovvero, Istria e Dalmazia)

Nell’aprile del 1915, il Patto di Londra (sollecitato dagli inglesi per spingere l’Italia ad entrare in guerra contro gli imperi centrali) mette sul piatto della bilancia proprio i territori su citati, da concedere all’Italia in caso di vittoria; nello specifico: Trieste, l’Istria, la Dalmazia, esclusa la città di Fiume.

Quando finisce la guerra, con la sconfitta dell’Impero Austro-Ungarico, nella Conferenza di Parigi, il 19 giugno 1919, all'Italia vengono riconosciute la città di Trieste, l’Istria, ma alla nascente Jugoslavia viene concessa la città di Fiume e la Dalmazia.

Il 12 settembre del 1919, D'Annunzio occupa militarmente Fiume con 2500 ‘legionari’, contro le mire jugoslave. La soluzione all’impasse giunge il 12 novembre, col trattato di Rapallo, tra Italia e Jugoslavia (confermato, pur con piccole variazioni territoriali, anche dal Trattato di Roma del 1924), prevedendo la Dalmazia alla Jugoslavia, l’Istria all’Italia e Fiume, città libera.

Nel corso del Ventennio fascista, le terre della Venezia Giulia furono sottoposte ad una forzata e cruenta campagna di fascistizzazione. L'Italia, infatti, avviò il processo di italianizzazione della toponomastica e dei nomi propri, la chiusura delle scuole bilingue, la proibizione dell’uso delle lingue diverse dall'italiano nell'amministrazione pubblica; infine, vengono soppresse nel 1927 le organizzazioni culturali ricreative slovene-croate.

Un clima evidentemente di violenze e di intimidazioni che non poteva non far crescere sentimenti di rivalsa nella popolazione slava; sentimenti che non tardarono ad emergere.

L’occasione si presentò l’8 settembre del 1943, quando l'Italia rende pubblico l'armistizio, dopo la caduta del fascismo, avvenuta nella fatidica lunga notte del Gran Consiglio del fascismo, il 25 luglio.

Ebbene in Istria e in Dalmazia, i partigiani slavi si vendicarono contro i fascisti e gli italiani non comunisti con torture e massacri, perché li consideravano “nemici del Popolo”, buttandoli così nelle Foibe, ovvero inghiottitoi naturali, cavità carsiche profonde ed inaccessibili.

Emblematica è la vicenda di Norma Cossetto, studentessa italiana istriana, di una frazione del comune di Visinado, uccisa e infoibate nell’autunno del 1943, quando aveva 23 anni, diventata appunto simbolo di quella strage, perché figlia di un capo Manipolo della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale ed anche Podestà (La RAI le ha dedicato un reportage non poco drammatico).

Ondate di violenza simili si ebbero anche in altri luoghi; nel 1944 in particolare a Zara, in Dalmazia. Dopo l'8 settembre la città venne occupata dai tedeschi; Tito chiese agli angloamericani di bombardarla e Zara subì 54 bombardamenti, con oltre 4000 morti.

Quando i tedeschi furono costretti a lasciare la città, i partigiani di Tito entrarono a Zara, se ne impossessarono e immediatamente iniziarono le persecuzioni degli italiani, fucilati o affogati in mare (perché lì non ci sono foibe). Una città, quella di Zara, che contava più della metà di abitanti italiani, su cui si abbattè la mannaia dell'’Esercito Popolare”, che passò per le armi: fascisti, cattolici, socialisti, donne e bambini. Fu una carneficina.

Quali obiettivi perseguivano gli jugoslavi?

È verosimile che Tito volesse eliminare eventuali oppositori al suo potere in Jugoslavia. Dalla cronaca si apprende che furono uccisi anche 39 sacerdoti (come si evince dalla condanna del vescovo di Trieste e Capodistria, Monsignor Antonio Santin); e la violenza durò fino al 1947; ovvero, fino a quando non furono fissati i confini tra l'Italia e la Jugoslavia, nella Conferenza di pace di Parigi.

A Parigi i vincitori del secondo conflitto mondiale (USA, Inghilterra, Francia) avevano deciso di seguire l’idea di ritornare ai confini territoriali del primo dopoguerra (quindi ogni Stato avrebbe avuto i confini corrispondenti a quelli del 1919).

Per l’Italia, in verità, questa idea non venne seguita; il 10 febbraio 1947, la nostra Nazione ratifica il Trattato di pace e le città di Fiume e Zara passarono definitivamente sotto la sovranità jugoslava; inoltre, la fascia Costiera, da Monfalcone a Muggia andò sotto l'amministrazione alleata, detta Zona A; l’Istria, detta Zona B, passò sotto l’amministrazione jugoslava; la zona di Gorizia tornò sotto la sovranità italiana.

Per Trieste, la soluzione definitiva si dovrà aspettare il 1954, quando la Zona A rientrerà nelle pertinenze del territorio nazionale.

Tra confini ballerini, soprusi e violenze, alla fine si stimano circa 15.000 morti italiani e circa 350.000 esuli, che secondo il programma del governo italiano sarebbero dovuti venire in Italia.

Molti degli esuli, invece, prenderanno la strada dell'oltre oceano (Stati Uniti, Australia, Sudamerica…), quindi solo una parte verrà collocata in Italia.

Il 10 novembre 1975, con il trattato di Osimo, il nostro ministro degli Esteri il Rumor, accettava la cessione in via definitiva dei territori italiani, riconoscendo la Zona B definitivamente come zona jugoslavia (L’accordo prevedeva anche un indennizzo agli sfollati dal governo jugoslavo).

Fin qui, i fatti storici secondo una linea diacronica.

Ora ritorniamo al 1943, ovvero alla prima ondata di violenza contro gli italiani, iniziata dopo l'8 settembre.

Crollate le strutture dello Stato italiano, i tedeschi occuparono inizialmente i punti strategici di Trieste, Pola e Fiume, mentre all'interno, nell'entroterra dell'Istria, il potere venne assunto dal Movimento di liberazione jugoslavo.

In questo quadro generale, ci furono i contadini croati che insorsero e si costituirono dei poteri popolari, ispirati al marxista, dando inizio agli arresti di squadristi e gerarchi fascisti; vennero prelevati segretari, Podestà, Carabinieri, Guardie campestri, esattori delle tasse… figure umane che rappresentavano il vecchio Regime.

Inoltre, bersagli delle retate di questo periodo divennero i possedenti italiani, proprietari di terra e di fabbriche; poi, non mancarono di essere perseguitati i dirigenti e impiegati e ben presto il campo della violenza si allargò fino a coinvolgere tutte le figure rappresentative della comunità italiana.

L'obiettivo era quello di distruggere la classe dirigente italiana che poteva essere un ostacolo per l'affermazione del nuovo corso politico.

A Pisino, al centro dell’Istria, si costituì il comitato Popolare di liberazione e vi fu un Tribunale rivoluzionario che naturalmente non lesinò ad infliggere condanne a morte. Gli ordini venivano dati dall’alto, per ripulire il territorio dai nemici del Popolo.

Una testimonianza della ferocia che imperversava, è la deportazione delle unità di Guardia di Finanza che mai avevano partecipato contro i Partigiani e che anzi avevano collaborato con le forze Partigiane nella lotta contro il potere nazista.

Questi militari, evidentemente, vennero perseguitati, perché si volevano distruggere le forze armate esistenti sul territorio e che potevano costituire un freno all’obiettivo del potere popolare.

Quindi dall’8 settembre 1943, la vendetta contro gli italiani interessò fascisti e gente comune.

Il centro di queste violenze furono Trieste, Gorizia, Fiume.

A Vines, in località Albona, di fronte alle isole Quarnerine, nella cosiddetta foiba “Dei colombi” (attualmente nella Repubblica croata), vennero recuperate nel 1943, 84 corpi.

Imprecisati sono gli uomini invece buttati nel pozzo di Basovizza, nei pressi di Trieste, divenuto anche monumento nazionale, contro questa barbarie.

Tito, in collegamento con Mosca, iniziò una battaglia di conquista della Slovenia, della Croazia che erano state occupate dal terzo Reich; in verità, aveva già palesato l'idea di impadronirsi della Dalmazia, della penisola dell'Istria e, finanche, del Veneto fino all'Isonzo, perseguendo, così, tutte le persone scomode al suo progetto.

Vi era un clima di selvaggia violenza, in una commistione di rancori etnici, familiari e di interesse; non è un caso che i rivoluzionari distrussero catasti e avviarono linciaggi.

È stata una violenza programmata. Fonti croate del tempo confermano come uno dei compiti prioritarie affidati ai ‘poteri popolari’ in Istria, era proprio quello di ripulire il territorio dai "nemici" del Popolo; una formula che bene si prestava a comprendere quale sarebbe stata la fine di coloro i quali non avessero collaborato con il movimento di liberazione.

La seconda ondata di violenza avviene tra il 1945-1947.

Fino all'aprile del 1945 i partigiani jugoslavi erano stati tenuti a freno dai tedeschi. Con il crollo del terzo Reich, si diceva, nulla più poteva fermare gli uomini di Tito, organizzati nel IX Corpus e nella loro Polizia segreta. Il loro obiettivo era l'occupazione dei territori italiani. Nella primavera del 1945, l'esercito jugoslavo occupò l'Istria e puntò verso Trieste, per riconquistare i territori che alla fine della prima guerra mondiale erano stati negati alla Jugoslavia.

Le forze anglo-americane, anticiparono Tito (proditoriamente) e quasi si precipitarono a conquistare Trieste l’1 maggio del 1945, frenando naturalmente i sui sogni (ovvero, arrivare ad una pace con una situazione di vantaggio territoriale).

Allora, con Trieste in mano agli angloamericana e con l'Istria e Fiume in mano titina, iniziò la seconda ondata di persecuzioni contro gli italiani, in tutta la Venezia Giulia e centinaia di militari della Repubblica Sociale Italiana, caduti prigionieri, furono passati per le armi e lo stesso accade a quelli tedeschi; poi, migliaia di uomini civili furono avviati verso i campi di prigionia in particolare nel famigerato campo di Borovnica (lungo la direttrice Trieste-Lubiana), dove in molti morirono per fame, violenze e malattie.

La logica era l'eliminazione delle forze armate nemiche esistenti sul territorio; furono paradossalmente anche perseguitati i combattenti delle formazioni partigiane italiane, sotto la guida del CLN, che erano insorti nell'aprile del 1945 contro i Tedeschi, apertamente in concorrenza alla lotta di liberazione dei partigiani jugoslavi.

Tra maggio e giugno ’45, migliaia di italiani dell'Istria, di Fiume, della Dalmazia furono obbligati a lasciare la loro terra, altri furono uccisi e gettati nelle Foibe o deportati nei campi Slovenia o in Croazia.

Secondo stime solo approssimative si parla di 15.000 morti e di 350.000 sfollati dalle zone occupate da Tito e in cui ognuno lasciò una casa, poderi, affetti e i propri defunti.

Come si moriva nelle foibe? Sulle modalità di uccisione, le testimonianze sono agghiaccianti. Abbiamo detto che finirono nelle foibe carabinieri, poliziotti, finanzieri, nonché i militari fascisti della RSI, i collaborazionisti che non erano riusciti a scappare per tempo (e le testimonianze dicono che in mancanza di questi, i titini prendevano le mogli, i figli o i genitori per la condanna a morte).

Le esecuzioni erano cruente: i condannati venivano legati l'un all'altro con un filo di ferro o ai polsi o ai o alle caviglie, schierati in linea sugli argini di una foiba, quindi si sparava al primo della fila, che cadendo si trascinava nell'abisso tutti gli altri, che sarebbero, poi, morti di stenti, con a fianco i cadaveri degli amici o parenti.

Dopo il Trattato di pace, la Jugoslavia ebbe il diritto di confiscare tutti i beni dei cittadini italiani, con l'accordo che sarebbero poi stati indennizzati del governo di Roma.

In verità molti, di questo esodo, ammassarono sui carri le loro masserizie e andarono via e in tantissimi non ricevettero risarcimenti, poiché decisero di seguire altre mete espungendo quella italiana.

Rimangono alla fine le stime approssimative e verosimili della tragedia: 15.000 morti e 350.000 sfollati dal territorio dove si parlava per più della metà della popolazione l’italiano.

E veniamo ad una riflessione pacata su fatti storici incontrovertibili.

La tragedia è stata sempre negata e la diaspora minimizzata. Vale come esempio, l’atteggiamento dell’allora Ministro Emilio Sereni, anche Costituente comunista, con la carica di Ministro per l'assistenza post bellica; quando sul suo tavolo finivano i rapporti con le domande di esodo di assistenza provenienti da Pola, Fiume, Istria, Dalmazia, anziché farsene carico e rappresentare all'opinione pubblica la drammatica situazione, minimizzava la portata del problema e rifiutava di ammettere nuovi esodi nei campi profughi di Trieste, con la giustificazione che non c'era più posto. E in una serie di relazioni a De Gasperi (allora, Presidente del Consiglio), sempre lo stesso Ministro parlò di fratellanza italo-slovena e italo-croata e sostenne la necessità di scoraggiare le partenze e costringere gli istriani italiani a rimanere nelle loro case, affermando che le notizie sulle Foibe erano una "propaganda reazionaria".

Minimizzare il problema fa pendant con la negazione (e di negazione si deve parlare. Può valere come testimonianza di una temperie culturale il fatto che il manuale tra i più studiati nei licei, quello di Rosario Villari, per i tipi Laterza, non dedichi neanche un rigo alle foibe).

Dopo la caduta del muro di Berlino, novembre ‘89, e la disgregazione dell'Unione Sovietica, la diga del silenzio iniziò a rompersi. Il 3 novembre del 1991, l’allora Presidente della Repubblica italiana, Francesco Cossiga si reca in pellegrinaggio alla foiba di Basovizza e, in ginocchio, chiese perdono per un silenzio durato 50 anni. Poi ci fu la fiction televisiva: “Il cuore nel pozzo” con l'interpretazione di Beppe Fiorello, che apre un altro squarcio nel silenzio assordante. Anche Oscar Luigi Scalfaro, Presidente della Repubblica, si reca al sacrario di Basovizza, l'11 febbraio ‘93.

Sono gesti simbolici di avvicinamento alla verità storica, tanto che il Parlamento italiano partorisce nel 2004, la legge n. 92 del 30 marzo, che istituisce il 10 febbraio il “Giorno del Ricordo”.

Cosa è stata alla fine la tragedia delle foibe? Quale finalità ha mosso la mano assassina contro migliaia di italiani spesso inermi?

Le prime riflessioni sul fenomeno concludevano che fosse stata la vendetta ad aver originato tanta violenza indiscriminata. Ovvero, si vendicavano coloro i quali avevano subito violenza dal regime fascista e quindi una volta sfaldato il Regime, i vessati dal fascismo trovarono la possibilità di una rivalsa. Una siffatta ipotesi accantonerebbe l’idea della programmata intimidazione e annichilimento del dissenso.

Dalla fine degli anni Novanta e negli anni Duemila, studi più puntuali (G. Oliva, R. Pupo, G. Scotti, E. Apih) sgombrano dal campo intanto le posizioni negazioniste, che erano in nuce proprio alcuni comunicati titini, secondo cui da parte del governo jugoslavo "Non furono effettuati né confische di beni, né deportazioni, né arresti, salvo che di persone note come esponenti fascisti di primo piano o criminale di guerra" (Nota jugoslava del 9 giugno 1945). Come pure sgombrano l’idea di un tentato genocidio degli italiani da parte degli jugoslavi.

La repressione jugoslava nel 1945, nei confronti dell’intera comunità italiana, si configura, invece, come ferma risposta, volta a far comprendere agli italiani che sarebbero potuti sopravvivere nelle terre passate sotto il controllo jugoslavo, solo se si fossero adattati, senza riserve al nuovo regime, perdendo qualsiasi altra forma di velleità.

Quindi, più che una volontà barbarica di sterminio (tipo la Shoah), si è realizzata una strategia ponderata di annichilimento del dissenso.

Questa sembra l’interpretazione più convincente dei fatti, che naturalmente bene pongono in evidenza il rapporto esistente tra le violenze della primavera del ‘45 e il più generale processo di presa del potere in Jugoslavia da parte del Movimento rivoluzionario sotto la guida comunista, protagonista di una guerra di Liberazione, che era anche guerra civile, diretta alla eliminazione fisica degli avversari.

Sicchè, nella Venezia Giulia si combinavano abilmente obiettivi sia di rivalsa nazionale, sia di affermazioni ideologiche, sia di riscatto sociale. Quella epurazione preventiva, era diretta a eliminare dalla società Giuliana tutti gli oppositori, anche soltanto presunti, al disegno politico di cui i nuovi poteri erano espressione, un progetto che era al tempo stesso nazionale e ideologico, dal momento che consisteva nell'annessione della Venezia Giulia alla Jugoslavia comunista.

Nella Venezia Giulia la violenza di massa costituiva uno degli elementi portanti della rivoluzione vittoriosa, che favorì la vittoria di un Regime di stampo sovietico, capace di convertire in violenza di Stato l'aggressione nazionale e ideologica presente nell'esercito di Tito.

Così, confrontando i fatti che ci hanno visti tristemente coinvolti con la Jugoslavia, con le rivoluzioni realizzate in altre parti del globo, si evince come la storia si sia ripetuta nelle modalità tipiche delle rivoluzioni violente, sia nella manipolazione dei fatti drammatici e sia nella vessazione delle persone che avrebbero potuto creare un dissenso.

Cosimo Rodia

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