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rubrica poetica

Controverso

Le poesie scelte sono di Nicolas De Nicolò, Rosa Mannetta e Antonio Mungo

Poesia del Giorno

La rubrica settimanale "controVerso" è dedicata alla poesia. Nasce per dare spazio alla vostra fantasia e ai vostri versi ispirati dalla quotidianità o dai vostri stati d'animo. Si è deciso di raccogliere in questa pagina le più belle poesie che di volta in volta vorrete inviare. 

Chi fosse interessato a vedere un proprio componimento poetico pubblicato sul quotidiano Buonasera in edizione cartacea, digitale e online nella apposita sezione, dovrà:

  1. Seguire le pagine dei profili social di Buonasera24: su Facebook e Instagram;
  2. Inviare una mail a controverso2019@gmail.com con il proprio nome, cognome, luogo di residenza e dichiarando nel testo della mail la paternità dell'opera. La poesia non dovrà superare i 20 versi.

Ogni settimana tre poesie, tra quelle più significative, saranno scelte, recensite e pubblicate nella rubrica "controVerso" sull'edizione digitale del giovedì e visibili online dalle ore 8:00.

Altre, invece, verranno selezionate e pubblicate esclusivamente online come "Poesia del Giorno" sul sito web di Buonasera24.it e sui canali social. 

Le tre poesie pubblicate giovedì 5 giugno 2025 sono:

  • L'idolo, l'occhia e la clessidra di Nicolas De Nicolò di Bari;
  • Umanità di Rosa Mannetta di Avellino;
  • Urlo nero di Antonio Mungo di Castrolibero (CS).

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L'IDOLO, L'OCCHIO E LA CLESSIDRA

E qui
tra uno scoglio e l’altro,
tra gatti miagolanti,
e rosmarini singhiozzanti,
aspetto.
Una clessidra snocciola,
uno per uno, granellini
di angoscia e sospiri.
L’occhio, nuova Penelope,
rotola attento
sul freddo e distante
orizzonte, attendendo
la tua ombra.
Il corpo del dio
è sparito; ne fa le veci
un suo idolo
mnemonico, replica
sfuggevole.

di NICOLAS DE NICOLÒ di Bari

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Recensione



In questi versi si respira un’attesa sospesa tra scogli, gatti e rosmarini che sembrano partecipare a un paesaggio emotivo disturbato. La clessidra, che scandisce “granellini di angoscia e sospiri”, diventa il simbolo del tempo che non consola, ma pesa. Ogni secondo che passa è una goccia di silenzio, un pensiero che cade e non trova appoggio. L’occhio dell’io poetico, trasformato in “nuova Penelope”, vigila sull’orizzonte freddo, cercando una presenza che non arriva. Il dio è assente, rimpiazzato da un idolo mnemonico, fragile simulacro che non colma il vuoto ma lo amplifica. Non si tratta solo di attesa, ma di confronto con l’illusione: ciò che si vede è solo una traccia, una copia sfuggente. Il linguaggio di Nicolas De Nicolò è asciutto, immaginifico, carico di tensione. Gli elementi naturali sono antropomorfizzati, come se il paesaggio fosse coinvolto nell’attesa. Non c’è conclusione né sollievo, ma una consapevolezza lucida del vuoto e della sua persistenza. Tutto è filtrato da una solitudine discreta. La poesia si muove tra memoria e illusione, tra ciò che si spera e ciò che non torna. In questa tensione irrisolta, ogni immagine vibra, ambigua e precisa.

   

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UMANITÀ

Città spoglie
di cuori
parole come lanci
di pietre...
vita dimenticata
in canestri di rovi.
Macerie tra droni
bombe tattiche
distruggono
alberi
piazze
uomini e donne.
Dov'è la pietas?
Abbiamo scolpito
l'umanità in una
roccia che piange...

di ROSA MANNETTA di Avellino

Recensione


Una poesia breve e intensa, che affonda le parole nella durezza del nostro tempo. Le immagini sono immediate, come schegge: città “spoglie di cuori”, parole che diventano pietre, lanciate per ferire anziché comunicare. È un paesaggio umano e urbano devastato, in cui ciò che resta della vita è abbandonato “in canestri di rovi”, come qualcosa di dimenticato, di marginale. Nelle strofe successive il quadro si fa ancora più drammatico. Si entra in uno scenario di guerra, con “macerie tra droni” e “bombe tattiche” che non colpiscono solo gli edifici, ma la vita stessa: “alberi, piazze, uomini e donne”. Il dettaglio degli alberi e delle piazze infrante mostra come non ci sia più spazio né per la natura né per la comunità. Nel cuore del testo emerge la domanda centrale: “Dov’è la pietas?”. Un richiamo classico e universale, che affonda le radici nella cultura latina e insieme parla al presente. È un interrogativo che non cerca risposte, ma pretende attenzione. L’umanità, ci dice la voce poetica, è stata scolpita in una “roccia che piange”: immagine potente, che fonde l’idea della durezza con quella del dolore trattenuto, inciso nel tempo. La poesia di Rosa Mannetta non concede spazi alla speranza, ma nella sua lucidità lascia un segno netto.

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URLO NERO

Un grido disperato,
un urlo sconcertato
squarciò il triste silenzio
che dentro me celavo.
La tua voce straziata
è un'eco mai sbiadita
che tormenta i miei giorni
straziandomi il cuore!
Nel silenzio assordante
che invade la mia vita,
che ha dissolto i miei sogni,
ascolto la tua voce.
È guida ed è speranza
per i miei giorni tristi
che sono sempre vuoti
se sono senza te!

di ANTONIO MUNGO di Castrolibero (CS)

Recensione

La poesia si apre con un “grido disperato”, un “urlo sconcertato” che irrompe nel silenzio, svelando una sofferenza trattenuta e profonda. Il dolore, inizialmente celato, si fa voce, si manifesta con forza, rompendo la quiete solo apparente che abitava nell’animo del parlante. La voce amata, “straziata”, diventa memoria viva, un’eco che non si spegne e che continua a ferire nel presente. Il cuore è “straziato”, i giorni sono tormentati: la ripetizione e l’insistenza sugli stessi sentimenti accentuano la forza emotiva del testo, rendendo il dolore qualcosa di tangibile. Nel centro della poesia emerge il paradosso del “silenzio assordante”: un ossimoro che racchiude perfettamente lo stato di chi è rimasto, di chi continua a vivere nella mancanza. I sogni si dissolvono, la vita si svuota, ma la voce dell’altro continua a risuonare, come un filo sottile tra assenza e presenza. Ed è proprio questa voce – forse scomparsa fisicamente, ma ancora viva nel ricordo – a farsi guida e speranza. La poesia di Antonio Mungo si chiude con un’ammissione semplice e devastante: “i miei giorni… sono sempre vuoti se sono senza te”. È una confessione limpida che lascia spazio solo alla verità del sentimento. L’autore affida alla parola poetica la funzione di contenitore e di ponte: contenitore del dolore, ponte verso chi non c’è più.

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