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I giganti cinesi dell'auto guardano a Taranto

Il porto ionico ed il business delle vetture elettriche

Il porto di Taranto

Il porto di Taranto

Un interesse che si conosce da tempo. Ma che ora potrebbe svilupparsi in una maniera nuova, puntando su un business che si presenta in enorme espansione: quello delle auto elettriche per il mercato europeo. Soffia un “vento dell’est”, sul porto di Taranto? Vento dell’Est, o Dongfeng, in mandarino, è il nome del colosso automobilistico cinese che potrebbe essere il pivot di Pechino per diventare protagonista anche dell’automotive oltre i propri confini nazionali.

«Auto elettriche, i porti di Taranto e Brindisi nel mirino dei cinesi» ha scritto una fonte autorevole come Il Corriere della Sera. Il quotidiano di via Solferino riporta come “la Cina mette nel mirino i porti pugliesi, da Taranto a Brindisi. E la strategia si arricchisce della volontà di Stellantis, principale produttore di auto in Italia, che decide di portare le auto cinesi di Leapmotor in Europa.  Il gruppo nato dalla fusione fra Fiat-Chrysler e Renault ha annunciato l’avvio della fase operativa della collaborazione con la casa cinese. A partire da settembre 2024 Stellantis importerà due modelli di vetture elettriche prodotte in Cina da Leapmotor e distribuite in nove Paesi europei, inclusa l’Italia, dalla stessa Stellantis. L’azienda francoitaliana metterà a disposizione di Leapmotor la sua rete di centri di assistenza e di concessionari, che entro il 2027 dovrebbero esporre sei modelli con il marchio cinese. Lo scorso ottobre Stellantis è diventata azionista di Leapmotor, rilevandone il 20% con un investimento di 1,5 miliardi di euro”. Lo stesso Corriere ricorda come questa notizia faccia il paio con la richiesta proprio di Dongfeng al governo italiano “di avere ampia disponibilità dei porti di Brindisi e Taranto (quest’ultimo è uno storico obiettivo cinese), anche per importare batterie made in China per gli impianti italiani. Con i manager di Dongfeng Motor il governo ha appena discusso delle modalità e dei termini in base ai quali il gruppo della Repubblica popolare potrebbe lanciare una filiera di produzione in Italia. A guidare la delegazione di Roma era Amedeo Teti, posto dal ministro Adolfo Urso a capo del dipartimento del Mimit che si occupa di politiche per le imprese. L’obiettivo, ufficiale da tempo, è far sì che la produzione di auto e veicoli commerciali in Italia arrivi al massimo della capacità installata di circa 1,5 milioni di mezzi all’anno”.

Ancora, si legge, "L’interesse per i porti italiani da parte dei cinesi è ormai consolidato. Facendo una cronistoria degli ultimi anni si potrebbe partire dall’investimento da circa 1,3 miliardi di euro finanziato dal general contractor cinese CCCC (China Communication Construction Company) per realizzare la «banchina alti fondali» davanti alla bocca di porto di Malamocco, un’area importante dove ora ci sono i cassoni del Mose da dover immergere come barriera per proteggere Venezia dall’acqua alta. Un progetto che i cinesi stavano studiando per capirne la fattibilità, un terminal on-shore di transito verso lo scalo di Porto Marghera. Ma che poi, è davvero il caso di dirlo, non andò in porto. Ci fu anche una trattativa intavolata da uno dei più grandi terminalisti del mondo, China Merchant Port Holding, per rilevare una partecipazione rilevante dai soci italiani (il gruppo Parisi e la Icop) nel porto di Trieste tramite la società che controlla la cosiddetta «Piattaforma logistica». I cinesi la spuntarono vincendo la concorrenza dei singaporiani di Psa che controllano il terminal di Voltri a Genova, degli emiratini di Dubai Ports World e del fondo sovrano del Qatar, interessati a prendere un’infrastruttura pensata per accogliere navi portacontainer. Un altro caso fu quello di China Merchants Group, con base ad Hong Kong, che avviò un centro di ricerca e sviluppo nel porto di Ravenna nel campo dell’ingegneria navale. Un colosso che spazia dalla finanza all’immobiliare, dalla costruzione di autostrade alla realizzazione di piattaforme off-shore. Qualche anno fa Venezia inaugurò persino una linea settimanale per il traffico container con il porto del Pireo grazie a un accordo con i cinesi di Cosco che controllano lo scalo greco dopo aver abbandonato quello di Taranto per i suoi fondali troppo bassi, vecchio pallino di Pechino”.

Immagine dal profilo facebook di Dongfeng Motor

Il corrispondente dalla Cina, Guido Santevecchi, in un articolo del primo maggio scorso aveva evidenziato come “il ministero delle Imprese e del Made in Italy cerca sempre un secondo produttore oltre a Stellantis e ha mandato una delegazione a Pechino per verificare la possibilità di portare nel nostro Paese una tra le decine e decine di case cinesi. Ecco dunque i contatti con Dongfeng, la cui strada tra l’altro si è intrecciata con quella di Stellantis: nel 2014 il gruppo statale cinese aveva acquistato il 14 per cento del pacchetto azionario di PSA, ceduto dalla famiglia Peugeot e oggi mantiene una partecipazione dell’1,5% nella multinazionale nata dalla fusione tra la casa francese e Fiat Chrysler.

A tracciare la storia della fabbrica voluta da Mao è sempre Santevecchi. La Dongfeng Motor Corporation è controllata al 100% dal Partito-Stato. Vento dell’Est è una delle metafore usate per esaltare l’ascesa della Repubblica popolare in tutti i campi, politico, industriale, militare. Fu costituita ufficialmente nel 1969 come «Fabbrica Numero Due» a Wuhan, nella provincia dello Hubei, per volere di Mao Zedong che aveva lanciato il Movimento del Terzo Fronte: un editto per l’insediamento di industrie strategiche nell’interno del Paese. Erano i tempi della guerra del Vietnam, della spaccatura ideologica e di potenza con l’Unione Sovietica e Mao pensava che fosse necessario proteggere i centri di produzione da eventuali attacchi. All’inizio la Fabbrica Numero Due produceva camion in un impianto collocato per segretezza accanto a un villaggio con un centinaio di abitanti. Il luogo era così isolato che la catena di montaggio nel 1972 fu in grado di assemblare solo 200 vetture, oltre ai veicoli pesanti. Con l’avvento di Deng Xiaoping e l’apertura all’economia di mercato, il nome è cambiato in Dongfeng, Vento dell’Est, e dalle catene di montaggio sono cominciate a uscire anche automobili. Con il costante sostegno statale e il boom del mercato cinese, nel 2016 la casa era salita fino al secondo posto nella classifica dei venditori di automobili della Repubblica popolare. I suoi 160 mila dipendenti lavorano anche per produrre marchi stranieri in Cina: Nissan, Honda, Kia, Renault, Peugeot e Citroën (per Stellantis). Ma la creatura di Mao si è trovata sotto pressione in patria per la caduta della domanda di veicoli a motore termico: dopo il picco di consegne di 2,83 milioni di auto nel 2017, nel 2023 è scesa a 1,72 milioni con un calo del 38%. Ecco la necessità di cambiare strategia. Insediarsi in una fabbrica da 100 mila vetture l’anno in Italia potrebbe essere una prima mossa. Lo ha confermato il capo delle operazioni europee di Dongfeng, Qian Xie, venuto a Milano a metà aprile per presentare il nuovo marchio Voyah. Il dirigente mandarino ha detto che l’Italia «è molto interessante, sia per la sua tradizione e cultura nell’industria automobilistica sia per i suoi porti»”. Porti tra cui c’è proprio quello di Taranto.

Immagine dal profilo facebook di Dongfeng Motor

Il Corriere aggiunge che  “I contatti sono stati positivi e Qian non ha certo nascosto che l’interesse produrre in Italia è dettato dal fatto che permetterebbe di entrare in tutto il mercato europeo” e specifica che sarebbe un errore pensare che made in China coincida necessariamente con low cost. “Il brand Voyah punta al segmento di lusso e si avvale di una collaborazione con il colosso delle telecomunicazioni Huawei, che ha sviluppato un sistema di «guida intelligente». All’Auto Show di Pechino Dongfeng ha appena presentato la sua Nammi, una piccola vettura elettrica con 300 km di autonomia e alcuni comandi integrati nello smartphone (apertura delle portiere e accensione). Prezzo per il mercato cinese meno di 9 mila euro. La battaglia dei prezzi, alimentata dai sussidi statali, infuria anche sul mercato interno cinese e non è solo un mezzo per scaricare sull’Europa l’eccesso di produzione. Peraltro, You Zheng, uno dei manager di prima linea di Dongfeng, dice che l’azienda pubblica non pensa di seguire ciecamente la corsa agli sconti e alle vendite sottocosto lanciata da Byd per battere Tesla. In Italia il costruttore cinese si concentrerebbe all’inizio sul settore ibrido. È noto che da noi le vetture completamente elettriche ancora non convincono: l’anno scorso la loro quota di mercato era arrivata al 4%, rispetto al 15% della media europea. Ma anche gli automobilisti cinesi hanno ansie da autonomia delle batterie e di accesso alle colonnine di ricarica: ultimamente la progressione dei motori completamente elettrici ha rallentato anche a Pechino. Per questo Dongfeng ha lanciato il suo Suv Aeolus L7 che monta una nuova tecnologia ibrida”.

Che già in novembre ci sia stata “una prima presa di contatto” tra governo italiano e manager cinesi sul tema lo ha scritto - le pagine sono ancora quelle del Corsera - Federico Fubini. “Questa volta però i colloqui sono stati più specifici secondo fonti informate di Roma. Soprattutto con i manager di Dongfeng Motor, si è discusso delle modalità e dei termini in base ai quali il gruppo della Repubblica popolare potrebbe lanciare una filiera di produzione in Italia. L’obiettivo, ufficiale da tempo, è far sì che la produzione di auto e veicoli commerciali in Italia arrivi al massimo della capacità installata di circa 1,5 milioni di mezzi all’anno. Oggi Stellantis, l’unico produttore nel Paese, mira ad arrivare a un milione di veicoli nel complesso”.

Per Fubini, “Potenzialmente ci sarebbe dunque spazio per un investitore cinese disposto a produrre varie centinaia di migliaia di mezzi all’anno, più di quanto trapelato fin qui. Dongfeng, che ha la sua sede a Wuhan, è controllata al 100% dallo Stato ed è l’ottavo gruppo auto cinese per vendite con l’equivalente di 12 miliardi di euro di fatturato nel 2023 (contro i 189,5 miliardi di Stellantis) ha confermato il suo interesse per l’Italia. Ma entrambe le parti indicano alcune condizioni. I manager cinesi sperano di poter utilizzare sussidi pubblici di Pechino all’internazionalizzazione delle imprese, così come sussidi italiani per l’attrazione degli investimenti. A Roma il ministro Urso e i suoi collaboratori si dicono attenti al rispetto dei limiti europei agli aiuti di Stato, chiedono che un eventuale investitore cinese si impegni all’uso delle filiere di componentistica italiane; in ogni caso il governo resta molto attento al rispetto della proprietà intellettuali dei fornitori di parti. L’Italia presenta comunque alcuni elementi di interesse per Dongfeng, che punta a costruire direttamente all’interno del mercato europeo auto elettriche medio-piccole e a prezzi contenuti. In primo luogo, c’è la questione dei marchi. I consumatori esteri potrebbero essere riluttanti a comprare auto dal nome cinese, ma proprio per aggirare ostacoli del genere Dongfeng ha già avviato in Asia joint-venture con marchi di Honda o di Nissan. Nel caso dell’Italia, il Mimit detiene ancora la proprietà intellettuale di numerosi vecchi marchi italiani fuori produzione da oltre cinque anni che potrebbe cedere ai cinesi a poco prezzo. Resta poi aperta la questione degli impianti e delle infrastrutture. In Italia c’è spazio per aumentare la produzione di auto non solo a Mirafiori, ma anche negli stabilimenti di Atessa in Abruzzo, ad Avellino e nelle Marche. C’è poi un interesse cinese, evidente da anni sul terreno, ad utilizzare sempre di più i porti di Taranto e anche di Brindisi”.

E qui torniamo al punto: i porti pugliesi sono decisamente interessanti per la Repubblica popolare di Xi Jinping.

Siamo comunque ancora nel campo delle ipotesi. Come spiega ancora Fubini, “un gran numero di dettagli sembra dunque sul tavolo, nella trattativa con Dongfeng. Ma quest’ultima non è chiusa. Teti e la sua squadra a Pechino hanno incontrato anche altri produttori auto cinesi e questa scelta sembra una spia del fatto che Dongfeng stessa potrebbe non aver ancora preso una decisione finale. In questo il precedente di Byd, il primo produttore di auto cinese e del mondo, è emblematico: in anni recenti ha condotto con la Spagna una trattativa simile a quella che Dongfeng sta conducendo ora con l’Italia, per poi accettare invece l’invito dell’Ungheria a costruire un impianto a Seghedino. Anche Dongfeng potrebbe essere impegnata in colloqui paralleli con un governo d’Europa centrale o orientale, forse proprio quello di Viktor Orbán. Molto probabilmente è per questo che Urso tiene aperti anche altri canali. Certo ai cinesi interessa produrre in Europa, anche per aggirare eventuali dazi sulle loro auto che ora sono in elaborazione a Bruxelles. Al governo di Pechino interessa anche che alcuni dei principali governi europei siano più legati alla Cina da interessi economici immediati, nella speranza che si possano opporsi a dazi o ad altre restrizioni contro la Repubblica federale. E’ la linea che i cinesi stanno seguendo con la Germania di Olaf Scholz. Ma anche Giorgia Meloni al G7 di giugno in Italia potrebbe ricevere domande in proposito dai suoi alleati tradizionali”.

Immagine dal profilo facebook di Dongfeng Motor

Da non trascurare il fatto, ricordato in un articolo dello scorso gennaio di Euronews, che “Il Parlamento europeo ha adottato una risoluzione sullo sviluppo di una strategia marittima europea. Gli eurodeputati si rivolgono alla crescente influenza della Cina su alcune infrastrutture critiche europee, tra cui i porti. In particolare, chiedono di “porre dei limiti agli investimenti stranieri”. Al centro delle preoccupazioni c’è la strategia di fusione tra militare e civile della Cina, “un programma concepito e attuato dallo Stato, che prevede di utilizzare tutte le leve del potere statale e commerciale per rafforzare e sostenere il Partito Comunista Cinese (Pcc)”. «Ogni attività civile è in qualche modo legata ai più ampi interessi strategici e militari della Cina», spiega l’eurodeputato (Rinnovare l’Europa)e relatore del testo Klemen Groselj. L’eurodeputato ritiene che sia necessario un meccanismo di valutazione del rischio per gli investimenti cinesi in infrastrutture essenziali, senza chiedere un completo cambiamento di rotta”. Sempre Euronews ricorda che “uno studio condotto per il Parlamento europeo elenca 24 acquisizioni cinesi di infrastrutture marittime europee tra il 2004 e il 2021. Gli investimenti cinesi nelle infrastrutture europee, in particolare nei porti, sono aumentati dopo la crisi dell’euro. Queste acquisizioni vengono effettuate principalmente da tre giganti cinesi: Cosco, China Merchants e Hutchison Port Holdings. China Merchants Port (Cmp), ad esempio, possiede quote dei porti di Anversa (Belgio), Fos e Le Havre (Francia). Dal canto suo, Cosco è azionista di maggioranza dei porti di Zeebrugge (Belgio) e Valencia (Spagna) e possiede quote del porto di Vado Ligure (Italia) e Rotterdam (Paesi Bassi). «La Cina aveva bisogno di esportare la sua sovrapproduzione. L’accesso al mercato unico europeo era quindi particolarmente importante», spiega l’analista dell’Istituto Agarda, Francesca Ghiretti. «L’Europa dipende fortemente dalla Cina. Gran parte del commercio tra Europa e Cina è trasportato da compagnie di navigazione statali cinesi come la Cosco», spiega Ghiretti. Tuttavia, «la portata dell’influenza cinese su un porto dipende da tre fattori: se l’investitore è un’impresa statale cinese; se l’investimento è finalizzato allo sviluppo dell’infrastruttura e non solo all’acquisizione; se l’azionista è di minoranza o di maggioranza», spiega l’analista. Un altro elemento strategico è in gioco: l’integrazione verticale. «Le aziende di proprietà statale come Cosco tendono a essere completamente integrate nella loro catena di fornitura con altre aziende cinesi»”.

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