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DRAMMATICO
13 Novembre 2025 - 06:01
Bovindo – racconti da leggere, autori da scoprire è la rubrica dedicata a chi desidera far conoscere la propria voce letteraria e condividere il piacere del racconto breve.
Ogni giorno, dal lunedì al venerdì, Bovindo propone un nuovo racconto, scelto tra autori esordienti e scrittori già affermati, offrendo ai lettori uno sguardo privilegiato sulla narrativa italiana contemporanea: una finestra luminosa da cui osservare il mondo attraverso tante piccole grandi storie.
Gli autori interessati possono inviare all’indirizzo bovindo2025@gmail.com il proprio racconto indicando nome, cognome, luogo di residenza e contatto telefonico. I testi, in lingua italiana e a tema libero, non dovranno superare le quattro pagine (formato A4, file Word). Sono ammessi racconti editi o inediti, senza limiti di genere. Per ulteriori informazioni: cellulare 327 1371380. Bovindo è uno spazio aperto e inclusivo, dove la scrittura respira, il talento si riconosce e ogni voce trova il suo lettore.
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Mio padre aveva una piccola ditta di “svuotacantine”, molto apprezzata in zona, e quando è andato in pensione ho continuato con piacere il suo lavoro.
Fin da bambino mi portava con sé e io ero sempre affascinato da quei piccoli “mondi” che si nascondevano nelle soffitte e negli scantinati. A quei tempi ero attirato solo da giocattoli o fumetti buttati negli angoli a prendere polvere, ma col passare degli anni ho ampliato i miei interessi: non avete idea di quello che la gente non tiene in conto, oggetti per loro insignificanti o sprofondati nell’oblio ma che, piazzati nei posti giusti, aggiungono un discreto gruzzolo ai miei guadagni.
L’altro ieri, per esempio, in un seminterrato ingombro di detriti e cianfrusaglie insignificanti, ho trovato una scatola da scarpe ammuffita: dentro c’erano una vecchia Agfa, che secondo me qualcosa doveva valere, e una decina di foto ingrigite e accartocciate dal tempo che ritraevano un uomo sorridente sulle rive di un lago.
Ho infilato il tutto sotto il sedile del furgone, in attesa di portarlo a Yossef, quell’avido rigattiere ebreo con cui faccio affari.
«Sì, bella è bella, anche vintage, ma non vale un granché», ha detto Yossef rigirandosi la macchina fotografica tra le mani. Come al solito cercava di tirare sul prezzo. Poi ha dato un’occhiata distratta alle fotografie.
Il suo sguardo si è fatto sempre più attento finché è sbottato:
«Che mi venga un colpo, dove hai preso queste foto?»
«Che importanza ha?»
Ha messo un dito tremante sul volto del soggetto ritratto.
«Lo sai chi è questo?»
«Lo conosci?»
«Tutti noi lo conosciamo: Friedrich Jeckeln, criminale di guerra. Uno dei responsabili del massacro di Babij Jar.»
«Ormai sarà morto e sepolto.»
«È stato giustiziato nel ’46. Il fatto è… il fatto importante è chi e perché tiene nel suo scantinato foto di questo mostro.»
«Saranno lì da prima della guerra… che ne so?»
«Mi ci vuole un goccio.»
Ha preso da sotto il banco una mezza bottiglia di Jim Beam e un solo bicchiere.
«Ehi, ci sono anch’io. Se devo sopportare il tuo piagnisteo…»
Mi ha guardato come se sul serio fosse convinto di essere solo, poi ha aggiunto un bicchiere. Più piccolo.
«Piagnisteo, dici. Io c’ero, lo sai? Io c’ero, a Babij Jar. Vieni, accomodiamoci.»
Ha preso le foto, mi ha fatto passare oltre il banco, cosa mai successa, e ha fatto strada lungo un corridoio fino a un minuscolo salotto. Ci siamo seduti su due poltrone intorno a un tavolinetto basso. Ha versato il bourbon e tirato fuori una scatola di sigari. Quei gesti di generosità del tutto inusuali mi hanno fatto pensare che fosse impazzito. Col senno di poi posso dire che non ero molto lontano dalla verità. Dopo un lungo sorso e due boccate si è lanciato nei ricordi.
«Babij Jar… un fossato vicino a Kiev… 29 settembre… o il 30, non ricordo bene. L’anno sì: 1941. Dopo, solo molto dopo, hanno accertato che lì sono morti trentatremilasettecentosettantuno ebrei. Potevano essere trentatremilasettantadue, ma io sono stato fortunato. Avevo sei anni. Un bambino che non comprendeva cosa stesse succedendo. Solo un bambino, capisci?»
Parlando ci dava sotto col Jim e da quello ho realizzato quanto fosse sconvolto.
Ha preso una delle foto, una di quelle in cui il soggetto era quasi in primo piano, sorridente, e gli ha cancellato la faccia col sigaro. La sua, di faccia, si è distorta in un ghigno. Soddisfazione, odio, sofferenza…
Mi è sembrato di leggere tutte queste emozioni sul suo volto trasfigurato.
«Ci presero all’alba. Mio padre, mia madre, Esther, Aaron, me. Ci fecero uscire dalla nostra misera casa e ci ammassarono in piazza. Una piazza piena. Piena di noi. Poi in marcia fino a Babij Jar. Mio padre continuava a ripeterci che era solo un gioco, non preoccupatevi, giochiamo.»
La bottiglia era finita, ma non il suo doloroso viaggio nel passato. Ne ha presa un’altra da un armadietto.
Vodka, stavolta.
«Non ti dispiacerà mischiare, spero.»
«Ehi, amico, non è necessario che…»
«È assai necessario, invece. Per me. Per gli altri trentamila.»
Il bicchiere di vodka è sparito in un baleno.
«Dove hai preso queste foto?»
Ho cercato di tenermi sul vago, non capivo dove volesse andare a parare.
«Non lo so, una soffitta come le altre.»
«Non prenderti gioco di me, possiamo chiamarci amici ma non è detto che tu lo sia. Quindi, dove hai preso queste foto?»
Non ha aspettato la mia risposta, è tornato all’armadietto. Stavolta ha preso un revolver. Piccolo, ma non avevo nessun dubbio che fosse micidiale.
«Vuoi spararmi? O sparare a chi magari da millenni aveva questa immondizia dentro casa? Per cosa, poi? Per una storia di cento anni fa? Ma dai, andiamo…»
«Lo sai come sono sopravvissuto? Unico superstite su più di trentamila persone. Non ti fa impressione questo numero? Trentamila.»
In effetti, a pensarci, la cosa cominciava a disturbarmi. Ho cercato di tirarmi su con la vodka.
«Spararono con i mitra. Almeno una cinquantina di soldati. Altezza d’uomo, come da ordini. Ma io ero basso, capisci? Non ero ancora un uomo. Non ancora. Mi presero di striscio alla testa e caddi nel fosso. Su di me si accumularono corpi senza vita, i miei genitori, i miei fratelli, i miei vicini di casa… Una catasta di morti che mi permise di restare in vita. Non è grottesco?»
«Senti, Yossef, mi dispiace, ok? Mi dispiace di quello che hai passato e mi dispiace averti portato queste foto. Ma adesso, sul serio, che vuoi fare? Sei sopravvissuto, sei andato avanti, hai una famiglia… perché tornare indietro, eh? Ormai…»
Lui ha continuato come se non l’avessi mai interrotto.
«Dopo due giorni, due giorni sotto una catasta di cadaveri, un bambino di sei anni, coperto di sangue dei miei parenti, mi sono fatto strada tra i corpi che cominciavano a puzzare. Hai mai sentito la puzza di cadavere? No, non penso, il massimo a cui puoi aspirare tu è la puzza di cantina ammuffita. Quindi ancora una volta ti chiedo: dove hai preso queste foto?»
«Che vuoi fare? Dimmi cosa vuoi fare e io ti dico dove le ho prese.»
Messo alle strette ha tentennato. La risposta che alla fine mi ha dato è stata vaneggiante: «Voglio uccidere quei bastardi. Di sicuro sono parenti di Jeckeln.»
«Ma no, sono una giovane coppia molto simpatica. Non penso che…»
Per tutta risposta ha cominciato a caricare il revolver. Sul serio non avevo idea di come uscire da quell’incubo.
L’ho buttata lì: «D’accordo, sparami, se questo ti serve a far pace col passato. Sparami e vaffanculo.»
Per un lungo attimo ho pensato che avrebbe seguito il mio consiglio.
Invece ha preso le foto e una a una le ha avvicinate all’accendino.
È stato soddisfatto solo quando non ne è rimasto che un mucchietto di cenere.
«Vattene. Ah, per l’Agfa non ti do neanche una lira, puoi anche riprendertela.»
«Tienitela e vai a farti fottere.»
Solo quando stavo per uscire mi è venuto da dirgli: «Non fare cazzate.»
Sono andato di filato dalla giovane coppia molto simpatica. Non so neanch’io perché: volevo metterli in guardia o cercare di capirci qualcosa. Il secondo intento non è andato a buon fine. Neanche il primo, se è per questo.
Lei, bionda e carina, mi ha detto che sì, i nonni da cui aveva ereditato la casa erano di origine tedesca, ma che prima di tutto non capiva il senso di quelle domande e poi… chi cazzo ti dà l’autorità per venire qui a rompere…
Le ho dato ragione, mi sono scusato e ho fatto per uscire. Sulla porta mi sono ritrovato a sbattere contro Yossef.
Mi aveva seguito, il bastardo, sapeva che l’avrei portato dove voleva. Mi ha respinto dentro, con il suo piccolo revolver a fare da persuasore. Ci ha riuniti in cucina.
«Allora, chi è qui il diretto discendente di Friedrich Jeckeln? Io penso che sia tu, piccola bionda teutonica.»
La piccola bionda teutonica è rimasta aggrappata al suo compagno senza dire una parola. Ho considerato che toccasse a me rimediare in qualche modo.
«Dai, Yossef, ti rendi conto che è una cosa ridicola? Stai parlando di fatti successi almeno…»
Mi ha sparato, quello stronzo, mi ha sparato a una spalla. Non so se avesse mirato proprio lì o se sono stato fortunato. Propendo per la seconda ipotesi. In ogni caso il dolore mi ha fatto guaire.
La ragazza, spaventata a morte, ha cominciato a piangere. Il suo compagno, sotto shock, è rimasto a bocca aperta a lisciarle i capelli.
Quei capelli biondi. Teutonici.
«Voi non sapete quello che ho passato per colpa di Jeckeln, voi ve ne state qui nella vostra bella casetta come se niente fosse. Avete dimenticato tutto, tutto quello che noi abbiamo vissuto sulla nostra pelle. Ci trattate ancora da paria, questa testa di cazzo viene nel mio negozio a portarmi inutili cianfrusaglie convinto di farmi un favore, non sapendo… non sapendo un bel cazzo di niente. Allora ti ripeto, sei tu la discendente del mio aguzzino? Del nostro aguzzino?»
Ancora squassata dai singhiozzi, la ragazza ha cercato di dire qualcosa, ma Yossef l’ha anticipata.
«Non me ne frega più un cazzo, sono stanco.»
Si è appoggiato la pistola sotto il mento e ha tirato il grilletto. Schizzi di cervello sono andati a imbrattare i pensili della cucina.
Nel letto d’ospedale continuo a rigirarmi, con milioni di domande nella testa. A pensarci bene tutto si riduce a un solo quesito: perché? Un enorme perché che parte dal 1941, anzi molto prima, fino ad arrivare ai giorni nostri. Non riesco a trovare una risposta. E voi?

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