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REALISTICO

L’anfibio di tulle rosa

di Emanuela Cucci da Taranto

Bovindo

Bovindo – racconti da leggere, autori da scoprire è la rubrica dedicata a chi desidera far conoscere la propria voce letteraria e condividere il piacere del racconto breve.
Ogni giorno, dal lunedì al venerdì, Bovindo propone un nuovo racconto, scelto tra autori esordienti e scrittori già affermati, offrendo ai lettori uno sguardo privilegiato sulla narrativa italiana contemporanea: una finestra luminosa da cui osservare il mondo attraverso tante piccole grandi storie.
Gli autori interessati possono inviare all’indirizzo bovindo2025@gmail.com il proprio racconto indicando nome, cognome, luogo di residenza e contatto telefonico. I testi, in lingua italiana e a tema libero, non dovranno superare le quattro pagine (formato A4, file Word). Sono ammessi racconti editi o inediti, senza limiti di genere. Per ulteriori informazioni: cellulare 327 1371380. Bovindo è uno spazio aperto e inclusivo, dove la scrittura respira, il talento si riconosce e ogni voce trova il suo lettore.


L'anfibio di tulle rosa

di Emanuela Cucci

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Non so perché non mi hanno accettata. I miei genitori hanno sempre lavorato sodo e a noi figli, siamo tre, non è mancato mai nulla. Quando decisero di lasciare il paese in cui sono nata per trasferirsi a Milano, eravamo tre bambini che non avevano ancora iniziato le scuole elementari. Ci sistemammo in un alloggio alla periferia della città, una Milano di inizi anni Sessanta che mi pareva una giostra. Tante automobili, negozi, signorine per le strade del centro vestite con le minigonne e i Navigli, quei Navigli di cui osservavo l’acqua e mi chiedevo da dove arrivasse e dove finiva. L’acqua dei Navigli assomigliava poco a quella del posto in cui ero nata e in cui, d’estate, da maggio a settembre, facevo il bagno. Era l’acqua della mia spiaggia, quella che per arrivarci dalla città ci mettevi un quarto d’ora: era infinita quell’acqua, o così mi pareva che fosse.
L’acqua dei Navigli, però, la amai quasi subito anche perché era lì che la domenica, non tutte le domeniche del mese, mio padre ci accompagnava per passeggiare. In estate potevamo anche prendere il gelato, in inverno invece ci piaceva fermarci in una pasticceria e lì mangiare la sfogliatella napoletana (sì, strano a Milano una buonissima sfogliatella riccia). Chissà, forse non era poi così buona come sembrava, ma per noi lo era.
Mamma non c’era in quella passeggiata, e così papà, per lei, se ne faceva avvolgere una in un foglio di carta bianco con le stelline d’argento, quando tornavamo a casa io e i miei fratelli eravamo felici. La mamma era lì, ancora intenta a rigovernare e stirare, tutta la settimana in fabbrica, anche lei come papà.
E poi i miei due fratelli, già alle elementari; io avrei iniziato in quell’anno: era il 1968.
Stranamente il mese di agosto di quella estate lo trascorremmo a Milano. I miei decisero infatti che solo sul finire di settembre saremmo stati qualche giorno dai nonni, al paese. Avevo compiuto sei anni nel mese di giugno, ero una bambina che parlava poco, sorridevo spesso, amavo leggere le favole ma i libri costavano troppo; però la mamma, quando poteva, prendeva dei fumetti in edicola e io gliene ero grata.
Quella sera di settembre, qualche giorno prima della partenza per il paese, mentre mi metteva a letto la mamma quasi sussurrò: «Devo dirti una cosa che ti farà felice: a ottobre inizierai la scuola giù al paese e resterai a casa della nonna. Sei contenta? Vedrai i tuoi cugini ogni giorno e pure le zie».
E così fu.
La nonna era buona e le volevo bene; le zie, sue figlie, avevano scelto per lei un soprannome: «la cerimoniera». Sì, la nonna amava festeggiare qualunque cosa e diceva: «Io le feste ve le faccio sentire». Già, fu proprio la nonna che mi spiegò la ragione di quella enorme calza di tulle rosa che al mattino del 6 gennaio, per sette anni, trovai al risveglio sul tavolo della cucina: mi diceva «Nella calza c’è tutto ciò che ti piace. Io compro a etti! Ci sono le caramelle dalla carta rossa, ci sono i cioccolatini con la nocciola nella parte finale, ci sono i confetti ricci con la mandorla intera, i torroncini e i cremini. Insomma, c’è solo ciò che ti piace, così consumi tutto e non buttiamo via niente».
Mi diceva che quella cioccolata me la meritavo perché ero davvero una brava figlia: la Befana conosceva ogni bambino e, se non avessi meritato, avrei trovato sul tavolo della cucina un pezzo di cenere e uno di carbone. Insieme a quella calza c’era anche una bambola e un libro di favole.
La nonna sapeva come rendermi felice. Le vacanze di Natale trascorrevano veloci (vedevo i miei genitori solo d’estate) e ricominciavano i pomeriggi d’inverno al tavolo della cucina dove facevo i compiti. Quei pomeriggi, di solito luminosi, conciliavano la tentazione di mangiare un po’ del cioccolato di quella calza, sebbene gran che golosa non fossi, e la nonna sorrideva per questo.
Quella calza di tulle rosa era bellissima, trasparente e profumata di vaniglia, la vaniglia dei confetti ricci. Era così perfetta quella calza che la fissavo intatta per giorni, non decidendomi a tirare fuori una caramella, e pensavo: “Ma che peccato svuotarla! Diverrà piatta, il tulle appassirà, perderà colore… e poi me la sono meritata, come dice la nonna. Voglio non scomporla per molto tempo ancora, così da ricordarmi di quanto sia stata brava.”
Imparai da subito, grazie alla madre di mia madre, la bellezza del dono – quello che arriva perché c’è la Befana che ci pensa, ma che arriva perché l’hai meritato.
Trascorsero gioiosi quegli anni sino alla conclusione della scuola media. La nonna, con mio sommo compiacimento, decise che dovevo continuare a studiare. «La bambina promette», diceva, e così mi iscrisse al primo anno dell’Istituto magistrale più vicino al paese di provincia nel quale vivevamo. Ne fui contenta.
I miei erano sempre più lontani e, col passare degli anni, diradavano anche le vacanze estive a casa della nonna. I miei fratelli ormai erano degli sconosciuti. Improvvisamente, però, la mamma quell’estate – quella che avrebbe preceduto l’inizio del primo anno di scuola superiore – piombò a casa della nonna dicendo che l’iscrizione a scuola andava annullata e che ormai era tempo che tornassi a vivere con loro a Milano.
Non ricordo di aver ascoltato in vita mia delle urla così roboanti come quelle che la nonna dispensò per tutta la casa, opponendosi a quell’ulteriore trasferimento che riteneva ingiustificato e senza senso. Ero felice di sentire la nonna così decisa: io stavo bene lì, con loro.
Mamma non volle ascoltare ragioni; nel giro di una settimana preparò le tre valigie e tornai a Milano con loro.
La nebbia di quel posto era ormai un ricordo lontano. Avevo sei anni quando la vidi per l’ultima volta; poi, di lì a poco, arrivò anche la neve, e non avevo neppure il cappello di lana, perché al paese non si usava, non era necessario.
Mamma in fretta e furia mi iscrisse al primo istituto di scuola media superiore disponibile, che a ottobre iniziai diligentemente a frequentare.
Ero sola, sempre. Ero sola sul tram che mi portava a scuola, sola in classe, sola col mio spiccato accento meridionale e sola a casa, dove con loro non sapevo davvero di cosa parlare. In verità, che io ricordi, neppure loro facevano grandi sforzi per parlare con me.
La casa aveva due stanze e una cucina: una era la camera da letto, nell’altra dormivano i miei fratelli; io fui sistemata in cucina, dove la sera si dispiegava una poltrona letto acquistata appositamente per il mio arrivo.
Avevo compiuto tredici anni a giugno, parlavo sempre poco ma, a differenza dei miei sei anni, ridevo sempre di meno e non leggevo più le favole. Sedersi a quel tavolo con quella famiglia la sera, per la cena, era un’inesprimibile fatica. Io non li conoscevo e loro non conoscevano me. Continuavo a chiedermi il perché di tanta ferocia nell’avermi strappata al mio paese, ai nonni, alla campagna e al mare.
Perché? A cosa serviva, e a chi? Forse a rassicurare mia madre, bisognosa di sentirsi una buona madre, una che, dopo aver superato le fatiche economiche familiari, decide di riportare con sé la figlia femmina a casa?
Ma quale casa, mi chiedevo. Questa non è la mia casa e voi non siete esattamente la mia famiglia: io non vi conosco.
Ricordo che un pomeriggio, tornando da scuola, pensai: “Io sono triste”. E quella tristezza divenne ben presto il sentimento predominante che accompagnava le giornate.
Studiavo, sì, ma con tristezza. Col passare dei mesi iniziai anche a frequentare alcune compagne di scuola e poi il fidanzatino, il primo, di due anni maggiore di me. Era vivace, allegro, tutto ciò che mi pareva io non fossi.
Il tempo libero dalla scuola si stava insieme, spesso anche con la compagnia del suo quartiere. Non so bene, o forse non ricordo, non voglio ricordare, cosa accadde a un certo punto. So, però, che la scelta ebbe compimento.
Si cominciò a “usare”, o forse a osare. Da quel quartiere con regolarità ci spostavamo verso la periferia della grande città: ci avevano ben informati su dove e come andare e lì ci insegnarono ad acquistare. E così fu.
A sedici anni accolsi nella mia vita, nella testa e nelle ossa ciò che mi faceva compagnia. Nessuno a casa mi chiedeva dove andassi o perché tornassi tardi, di solito taciturna e assonnata.
E intanto trascorsero altri due anni, e siamo alla maturità. Ebbene, diplomata… diplomata e tossicodipendente, spacciatrice ormai da più di due anni, e con me lo storico fidanzato.
Milano… bella, io me la ricordo bene la Milano del 1983. La percorrevo in lungo e in largo, con il bus o i passaggi in auto o a piedi, e giravo… cercavo, contattavo, macinavo chilometri di passi.
E il mattino non era più così diverso dalla sera. Tutto identico: colori, sapori, volti, voci, stagioni. Nulla faceva più la differenza.
Ero diventata brava, una tossica specializzata, competente, scaltra e ben educata (bontà della mia nonna). Sapevo cosa fare per riuscire a concludere degnamente la giornata, anche senza il mio fidanzato ormai perso in altre strade di altri quartieri.
Evidentemente le mie capacità non passarono inosservate nell’ambiente, e così mi furono attribuiti compiti sempre più impegnativi e delicati. E fu così, imbrogliando e raccattando, che qualcuno si accorse che così scaltra, di fatto, non ero.
Mi condussero di filato nella prima casa di reclusione e poi… boh, non so più quante ne ho visitate. Siamo alla prima condanna, quella seria, mi disse una mattina l’avvocato.
«Per la prima chiediamo la sospensione, ma per questa non possiamo far nulla».
La prima sentenza mi condannò per un reato di associazione a delinquere finalizzata allo spaccio, e il legale continuava a ripetere: «Mi dispiace, non posso far nulla».
E sono passati vent’anni da quella prima casa di reclusione. Tanti 6 gennaio condivisi con compagne di sventura, niente calze di tulle rosa, ma ci pensavo ogni anno a quel tulle trasparente che sapeva di vaniglia e sorridevo ripensandoci, perché quel cioccolato in quel tulle non mi apparteneva più.
Chissà cosa avrebbe implorato la nonna sapendomi in una cella… credo avrebbe fatto in modo che io avessi ancora una calza di tulle, anche non meritandola.
Quel tulle impalpabile e fino si era trasformato in un anfibio pesante, stretto alla caviglia con lacci simili a corde e una suola di carro armato che non mi impediva di scivolare. Eppure era giusto così. Quell’anfibio non possedeva dolcezza né colore, ma sapevo di poterlo trasformare.
Avrò una grande calza di lana lavorata con i ferri, pensai un giorno, con un intreccio strettissimo, perché nulla di me vada perso e dimenticato: il peggio che sono stata e il meglio che sono lo voglio tutto lì, in quella calza di lana a intreccio strettissimo. In quella calza di lana metteteci, forse, anche qualche caramella con la carta rossa e i cioccolatini con la nocciola nella parte finale.
Negli anni delle celle credo parlassi poco, ma continuavo a leggere e il mio peso corporeo riusciva ad andare finalmente anche oltre i cinquanta chili.
«Non male», mi diceva l’infermiera del carcere. «Mangia un po’ di più, continua così».
Poi un giorno un febbrone, un esantema inspiegabile sulle gambe, e allora un test – sapete, quel test che negli anni Novanta, se lo facevi, voleva dire che… beh, su, avete capito. Era il test dei tossici e degli omosessuali.
Eh già, il test spiegò la ragione della febbre e dell’esantema.
E poi tutto il resto è storia.
Sono qui. Non sono morta. Condanne espiate, programmi riabilitativi rispettati. Pare ancora oggi che io sia nei ricordi di coloro che negli anni mi hanno vigilata, curata, ascoltata, controllata e che hanno creduto nella possibilità che non morissi così presto. Avevano ragione loro.
Ma mia madre non aveva mai creduto a loro e, ancora oggi, quando mi guarda – se pure solo con gli occhi – mi dice: «Ma quanti guai hai combinato… quanto fastidio hai dato».
Già, quello stesso fastidio per cui, a sei anni, mi impacchettò inviandomi alla nonna e che, a tredici, per senso di colpa, la condusse a riportarmi nella sua casa, che mia non era.
Io sono libera ora, sapete? Malandata, sì, certo. Cupa, sì, naturalmente. Un po’ arrabbiata, oh sì, qualche volta succede ancora. Ma sono libera ora. Sono libera di scegliere. Non è poco, ve lo assicuro. E mi piace vivere. L’ho scoperto procedendo con prudenza. E mi piacciono le persone, e ho capito – ascoltatemi bene – che io piaccio a loro. E talvolta ripenso alla calza di tulle rosa… ma oggi ne ho una a intreccio strettissimo, in cui qualcuno ha voluto riporre pure la cioccolata. E anche stavolta vi dico: non è poco, ve lo assicuro.

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