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INTROSPETTIVO

Te lo spiego domani

di Raffaella Zinelli

Bovindo

Bovindo – racconti da leggere, autori da scoprire è la rubrica dedicata a chi desidera far conoscere la propria voce letteraria e condividere il piacere del racconto breve.
Ogni giorno, dal lunedì al venerdì, Bovindo propone un nuovo racconto, scelto tra autori esordienti e scrittori già affermati, offrendo ai lettori uno sguardo privilegiato sulla narrativa italiana contemporanea: una finestra luminosa da cui osservare il mondo attraverso tante piccole grandi storie.
Gli autori interessati possono inviare all’indirizzo bovindo2025@gmail.com il proprio racconto indicando nome, cognome, luogo di residenza e contatto telefonico. I testi, in lingua italiana e a tema libero, non dovranno superare le quattro pagine (formato A4, file Word). Sono ammessi racconti editi o inediti, senza limiti di genere. Per ulteriori informazioni: cellulare 327 1371380. Bovindo è uno spazio aperto e inclusivo, dove la scrittura respira, il talento si riconosce e ogni voce trova il suo lettore.


Te lo spiego domani

di Raffaella Zinelli

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Avevo tredici anni e frequentavo la terza media. Tutto iniziò un pomeriggio, senza preavviso. Ricordo bene G., una mia amica, che durante la lezione di musica non mi salutò e si dileguò, guardandomi con ostilità. Io restai di sasso: non capivo, cosa le avevo fatto? Prima che sgattaiolasse via le chiesi perché si stesse comportando in quel modo e lei, con aria beffarda, mentre correva, farneticò: “Te lo spiego domani!”. Sentii il panico insinuarsi nelle ossa. Da quel momento non ho più avuto amiche.
Contro di me erano in nove. Lo scoprii la mattina successiva all’entrata della scuola. Si coalizzarono come orche assassine e mi cantilenarono in continuazione una strana accusa che mi lasciò di stucco: mi approfittavo di loro, le usavo e basta, perché avevo iniziato a frequentarle soltanto da quando S., la mia migliore amica, aveva lasciato il paese.
Tra me e S. c’era stato un legame speciale fin da subito: eravamo tutte e due fatte di sensibilità. Era arrivata dall’isola di Capraia, ma non sapevo che sarebbe rimasta per poco. Ci divertivamo un sacco insieme, eppure non facevamo niente. Bastava stare accanto l’una all’altra per frizzare di gioia.
S. non mi disse che sarebbe partita, lo seppi dalle chiacchiere di paese: giravano voci che la sua famiglia non pagasse l’affitto e che fossero rimasti senza un soldo. Ricordo che, quando le chiedevo se sarebbe andata via, lei rimaneva vaga, con un sorriso nervoso appiccicato sulla faccia.
Poi un giorno sparì, senza salutarmi, e la odiai.
Dovetti vedermela con le nove bulle da sola. Non era affatto vero che uscivo soltanto con S.: andavo a giocare a tennis con alcune del branco e con altre ci ritrovavamo a zonzo il pomeriggio, motivo per cui l’accusa che mi starnazzavano contro mi era incomprensibile. Era il momento in cui sentivo di diventare grande ed ero curiosa di ampliare le mie conoscenze, avere legami anche coi maschi delle superiori. Ogni uscita mi procurava eccitazione, perché mi avventuravo in mondi diversi da quelli di bambina.
Ma da quel giorno tutto è crollato, e ho iniziato a indossare una maschera: restavo impassibile alle offese, alle grida che mi scagliavano in coro; passavo davanti e sembrava che non sentissi, stando ben attenta a evitare gli sputi e gli sgambetti. Dentro, però, incameravo tutto.
Iniziarono mal di testa fortissimi, persi i capelli, le mestruazioni scomparvero, la pelle delle mani e dei piedi si squamò. Mi faceva male vedere che, una a una, le bulle, anche quelle con cui pensavo di essere più legata, non avevano esitato a seguire B., la loro capa, un tempo mia amica per la pelle.
Anche ragazzi con cui non avevo mai scambiato una parola si schierarono dalla loro parte, e quando passavo sghignazzavano ai ripetuti “Puzzo di merda!” e “Buzzona!” strillati a squarciagola.
Solo due o tre non si fecero coinvolgere. Nei loro occhi leggevo sostegno, e allora mi rincuoravo: c’era qualcuno che mi voleva ancora bene.
Tra le femmine mi era rimasta solo una compagna di classe, emarginata da sempre. I momenti con lei non mi davano gioia, ma non avevo nessun altro, se non volevo restare chiusa in camera o a riempire le pagine del diario segreto sotto un albero, fra i campi sopra casa. Passavamo i pomeriggi sedute al freddo del giardino pubblico, noi due sole. E io mi sentivo vuota.
Il paese era troppo piccolo, e subivo la condanna di ritrovarmi le orche ovunque: ogni mattina mi aspettavano sulle scale di scuola per farmi cadere e si avventavano contro; poi in classe, a ricreazione, sul pullmino che ci riportava a casa, dove mi assordavano, e in ogni luogo di ritrovo.
Non ho mai reagito, tranne una mattina: non ne potevo più e sono scattata dalla sedia, ho preso per il collo B. che si era avvicinata gridandomi in faccia “Buzzona!”, con i suoi occhietti strabici iniettati di cattiveria pura. E poi non ero nemmeno grassa. La professoressa di matematica rientrò in classe tutta trafelata e ci rimproverò entrambe, cosa che mi fece sentire ancora più indifesa.
Intanto la mia rabbia saliva ogni giorno. Covavo l’urgenza di sfracellare di botte F., la bulla che sul pullmino, alla fine del giro, rimaneva da sola con me. La volevo pestare a sangue. Appena il resto del gruppo spariva, si tramutava in un agnellino: non mi vedeva neanche più e restava zitta in un angolo in fondo. Ma non mi sono mai azzardata, avevo troppa paura del branco, e l’indomani me le sarei ritrovate tutte addosso. Mio padre invece mi fomentava perché mi tramutassi in una pugilessa e sferrassi ganci e montanti a destra e a manca, in quanto secondo lui era l’unico rimedio per porre fine a quell’agonia. Ma io ero terrorizzata, e alle sue insistenze scoppiavo a piangere.
Nella mia testa viveva il branco: se chiudevo gli occhi, le vedevo tutt’e nove e mi paralizzavo.
Quando tornavo da scuola cercavo conforto immediato tra le braccia di mamma, sapevo che lì avrei trovato calore e comprensione. Respiravo il suo odore buono e mi lasciavo andare alle lacrime in piena. Quando staccava prima dal lavoro mi veniva a prendere in macchina per evitarmi il calvario del pullmino. Vederla fuori da scuola, mentre attraversavo lo sciame di bulle, mi faceva sentire al sicuro: potevo di nuovo respirare. Con lei nei paraggi il branco taceva.
Finivo spesso anche tra le braccia di nonna Bruna. “Quelle zinghere!” inveiva, mentre mi stringeva forte e le inzuppavo il maglione di lacrime. Il suo grande seno era un rifugio in cui mi lasciavo cullare e ritrovavo la quiete.
Ma quanto sarebbe durata? Oggi ho quarantatré anni, e le cicatrici addosso. Per tutto questo tempo ho odiato il mio paese e sono scappata appena ho potuto, fin dalla seconda superiore, tornandovi solo di rado per salutare la mia famiglia. Ho vissuto con un’angoscia ancestrale incollata addosso, con la sensazione costante di non essere in diritto di camminare per strada; perché chissà chi avrei incontrato e cosa avrebbe pensato di me.
Poi, a giugno di quest’estate, è successo l’impensabile. Credo che la vita ci ponga davanti, anche a distanza di tempo, proprio quegli ostacoli che servono a farci superare limiti e paure irrisolte; e infatti, non a caso, sono stata costretta a trasferirmi lì per tre mesi. All’inizio ero disperata, mi mancava l’aria soltanto all’idea di dover restare così a lungo lontano dal mare e dai legami che mi sono costruita con tanta fatica nella città in cui vivo da quasi vent’anni, ma appena ho rimesso piede nella casa dove sono nata, è scattato qualcosa.
All’improvviso ho percepito con forza che non volevo più sentirmi una vittima. Ho avvertito come un’onda in tutto il corpo, e ho riconosciuto con chiarezza che lì sono le mie radici. È bastato uscire nella natura, immergermi nella lentezza, in mezzo alle colline placide e rigogliose, macinare chilometri e assaporare i profumi inattesi delle piante selvatiche, per riappropriarmi di una parte importante di me e vibrare di energia nuova. Sono potuta entrare in connessione con qualcosa che da troppo tempo restava sopito, e una nuova consapevolezza ha iniziato a farsi largo: il diritto di sentirmi finalmente libera e a mio agio.
Mi sono allora imposta di guarire dal passato, e ho solcato proprio quei luoghi di ritrovo che mi atterrivano, perché ancora intrisi di offese e torture. Con questa rinnovata e straripante determinazione ho stretto inaspettate amicizie e partecipato alla vita di paese, piena di curiosità e senza maschere: mi sono data il permesso di stare bene lì dove mi trovavo.
Ho lasciato andare via le orche, e le reti in cui eravamo impigliate. Le ringrazio, anzi: sembra assurdo, ma da tutto il dolore che mi hanno causato sono potuta diventare quella donna meravigliosa che sono oggi. Quando mi guardo indietro, abbraccio la ragazzina spaurita di tredici anni e non piango più.
Sorrido al branco. Sento tutta la debolezza di cui erano fatte le bulle, quanto soffrivano e si consumavano nell’astio. Chissà se qualcuna di loro oggi sa che l’inverno si trasforma sempre in primavera.
E quanto sia importante, come donne, essere unite; anziché nemiche e in eterna competizione. Resta una domanda: perché nessun professore o genitore ha mosso un dito, nonostante sapesse benissimo quello che stava succedendo?

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