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DISTOPICO
06 Novembre 2025 - 06:00
Bovindo – racconti da leggere, autori da scoprire è la rubrica dedicata a chi desidera far conoscere la propria voce letteraria e condividere il piacere del racconto breve.
Ogni giorno, dal lunedì al venerdì, Bovindo propone un nuovo racconto, scelto tra autori esordienti e scrittori già affermati, offrendo ai lettori uno sguardo privilegiato sulla narrativa italiana contemporanea: una finestra luminosa da cui osservare il mondo attraverso tante piccole grandi storie.
Gli autori interessati possono inviare all’indirizzo bovindo2025@gmail.com il proprio racconto indicando nome, cognome, luogo di residenza e contatto telefonico. I testi, in lingua italiana e a tema libero, non dovranno superare le quattro pagine (formato A4, file Word). Sono ammessi racconti editi o inediti, senza limiti di genere. Per ulteriori informazioni: cellulare 327 1371380. Bovindo è uno spazio aperto e inclusivo, dove la scrittura respira, il talento si riconosce e ogni voce trova il suo lettore.
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Guardò quello che era rimasto del suo abito. Così aveva sempre chiamato la divisa: abito.
Forse perché da ragazzo, prima di arruolarsi, non aveva mai avuto un abito vero, solo stracci trovati nei cassonetti, nelle discariche. Quelli migliori, i più nuovi e puliti, era riuscito a «graffisgnarli», come diceva all’epoca. Che poi era quello di cui campava: «graffisgnando», appunto.
«Graffisgnare è il mio mestiere! Qui a marcire non ci resto», disse agli unici due amici che aveva prima di lasciare il riformatorio. Dopo i primi furti era stato preso e chiuso lì dentro più e più volte, ma riusciva sempre a «fare buchi», come si usava dire tra quelle mura.
L’ultima volta che aveva «fatto buchi» aveva trovato, durante la fuga, una specie di esercito. Un manipolo di paramilitari al soldo di potenti, il cui compito era tenere sotto assedio e nel terrore la popolazione. Li vide da lontano, nell’accampamento. Si avvicinò: voleva osservarli per valutare se poteva chiedere qualcosa da mangiare, o al limite «graffisgnarlo».
Rimase invece affascinato dalla divisa. Mai aveva visto un abito così ordinato, pulito e regolare. Si inoltrò nell’accampamento, resistette ai maltrattamenti, alle percosse, agli insulti; riuscì a farsi intendere e infine a farsi arruolare, senza porre domande su che cosa dovesse fare e come. Indossare l’abito e mangiare regolarmente fu tutto ciò che chiese.
Da quel momento il ragazzo non esisteva più. Al suo posto, adesso, c’era un soldato. Un soldato che avrebbe incendiato il mondo intorno a sé. Capì subito che tornare indietro non sarebbe stato più possibile. E non tornò indietro. Anzi, si distinse subito dal resto della truppa: l’abito aveva fatto il monaco. Era spietato, crudele, astuto, non chiedeva nulla se non di portare a termine le missioni che gli venivano affidate, senza porsi domande sul perché venissero richieste carneficine di gente inerme, pacifica, sottomessa. Era normale e giusto che venisse scelto, vista la sua completa adesione alle missioni e la sua fedeltà incondizionata. Fu scelto per una missione segreta, pericolosa, importante. Quando, per approdare sull’isola, fu calato in mare dentro una piccola barca, la vide nella sua interezza. Gli scogli, le spiagge, i profili delle piccole montagne e la vegetazione formavano una lunga, sinuosa figura. Gli sembrò di vedere una donna distesa sul mare. Mentre si avvicinava, solo, vide la testa della donna girarsi verso di lui, quasi a sincerarsi che arrivasse incolume. Fu un attimo di smarrimento, ma subito si riprese: «Sono i vapori dell’acqua assieme ai raggi del sole a creare questa distorsione dell’immagine. È normale!»
L’isola nascondeva l’unico vero pericolo per il governo: l’unico vero sovversivo in grado di abbattere corruzione e delitti, il solo tarlo che potesse insinuarsi all’interno del sistema e distruggerlo.
La missione consisteva nel prevenire questa possibilità annientando il nemico. Semplice e lineare – esattamente come piaceva a lui.
Non si chiese perché, per abbattere un solo uomo in un’isola deserta, non venissero mandati molti uomini, con risultati più sicuri e veloci. Non gli interessava: ci sarebbero stati buoni motivi. Lui era stato inviato per una missione, e quello era il suo unico pensiero. Il killer sarebbe stato ucciso. Quello era il nome che gli apparati governativi avevano scelto per indicare il nemico del governo. Una forma di propaganda denigratoria che faceva presa sull’opinione pubblica. Un nome, un simbolo, un nemico: «IL KILLER». Sceso sull’isola iniziò la perlustrazione. Non gli erano state fornite cartine, mappe o indicazioni generiche – sembrava non ci fosse nessuna informazione sul luogo. La cosa, anziché preoccuparlo, lo eccitava: «Rende la caccia più interessante», si disse.
Salì sul punto più alto: l’isola era di pochi chilometri quadrati. Vide un’unica costruzione, di un giallo sabbia, quadrata come una scatola. Si diresse lì. Era una cella in muratura, con la sola porta d’ingresso e nessuna finestra. Entrò per controllare. Nonostante fosse una giornata luminosa, dalla porta non filtrava luce. Sentì un rumore, guardò fuori: l’ombra della cella si proiettava sul terreno e sopra vi era l’ombra di un uomo. Il killer era sul tetto. Senza pensarci si lanciò oltre la porta, avvitandosi su se stesso, e scaricò una raffica di mitra verso la sommità. Cadde sulla schiena, rotolò su se stesso, si portò a ridosso del muro e attese.
Nessun rumore. Il killer doveva essere stato colpito. Ma sul tetto non trovò nessuno: né il killer, né sangue, né tracce di alcun tipo. Osservò intorno. Il killer doveva essere nelle vicinanze. Più in basso c’era un gruppo di piante, una specie di piccolo bosco da cui usciva un ruscello; sulla riva, poco distante, una capanna in legno. Prima non l’aveva notata – forse le colline avevano coperto la vista. «La prospettiva mi ha fregato», pensò.
Senza pensare oltre andò a controllare. Si acquattò tra le fronde degli alberi. Da lì poteva osservare senza essere visto. Sentiva delle voci provenire dal ruscello, ma dei massi impedivano la vista. La voce era femminile – strano, l’unica informazione certa che aveva era che il killer fosse l’unico abitante dell’isola.
«Qualcosa deve essere cambiato. Ma questo non cambia la mia missione. Sarà ancora più divertente.»
Si mosse cauto fra i massi, arrivò fino all’ultimo e piano si affacciò: era pronto a far fuoco. Vide una donna: si era tirata su la gonna e con i piedi era dentro il ruscello. Davanti a lei un ragazzo di cinque o sei anni: stavano giocando, costruivano una diga con le pietre. Per un po’ continuarono, poi la donna alzò lo sguardo e lo vide. Smise di ridere e si bloccò. Il ragazzo continuava a parlarle; quando capì che non rispondeva, si voltò a guardare là dove sua madre guardava e lo vide.
Lei prese il ragazzo per mano e corse verso la capanna. Lui intimò di fermarsi, ma non sparò. Corse anche lui verso di loro, li aveva davanti, ma non sparò. Entrarono di corsa nella capanna, chiusero la fragile porta, ma neanche questa volta sparò. Non era il suo modo di comportarsi. Non voleva fare prigionieri né estorcere confessioni. Normalmente avrebbe sparato subito, senza esitare. Invece, senza rendersene conto, non l’aveva fatto.
Dentro la capanna donna e ragazzo erano rannicchiati dietro l’unico mobile che c’era. Stavano abbracciati, lo sguardo rivolto verso la parete. «Struzzi!» pensò il soldato, mentre puntava il mitra sui due. La donna si girò verso di lui: lo sguardo terrorizzato, la mano protesa mentre con l’altra cercava di proteggere il ragazzo. Urlò: «No! Olindo, no!»
Il soldato ristette. Quel nome… Olindo. Cos’era? La sua volontà vacillò e ricordò: era il nome di suo padre. Nome che veniva detto solo quando rientrava furioso per scaricare la rabbia su sua madre e su di lui. Altrimenti la madre lo chiamava con un abbreviativo: «Lindo!»
Il soldato era confuso. L’arma calò verso il basso. Vide la donna e il ragazzo che imploravano di fermarsi. Vide sua madre, vide se stesso bambino tra le sue braccia.
Un vortice lo prese facendolo indietreggiare. Inciampò, cadde. I due approfittarono della caduta e uscirono correndo. Il soldato esitò, poi li inseguì. Ma arrivato al ruscello non trovò nessuno. Entrò nel bosco: anche lì, nulla. Il bosco era piccolo – in pochi passi lo attraversò. Nessuna traccia. Tornò indietro, deciso a rientrare nella capanna. Ma non trovò più i massi che lo avevano nascosto, né la capanna. Davanti a lui si stendeva una pianura. Era immensa, troppo per un’isola. Non ebbe tempo di pensare. In lontananza vide una figura che correva: il killer! Doveva essere lui. Cominciò a correre. Un’alta costruzione prese forma all’orizzonte – sembrava un tempio greco. Il killer vi entrò dentro. Il soldato rallentò, confuso, poi lo seguì. Tra le colonne sentì delle voci. Una voce femminile implorava aiuto; altre risate, insulti, bestemmie. Si affacciò cautamente: un gruppo di ragazzi stava picchiando una ragazza. Lei piangeva, cercando di coprirsi con gli stracci dei vestiti strappati. Quando i ragazzi lo videro, invece di fuggire lo incitarono: «Dai, comincia tu! Forza, facci vedere che sai fare!»
Il soldato era confuso. Quelle facce gli sembravano conosciute. Le vide ruotare in un vortice, poi cadde a terra. Riconobbe quei volti: erano i ragazzi del riformatorio.
«Vi conosco!» gridò.
Loro, senza rispondere, lo picchiarono, gli lacerarono l’abito, poi lentamente si dissolsero. La ragazza si contorse, mutando forma: divenne un’Arpia. Aprì le ali, si posò sul petto del soldato e disse guardandolo negli occhi: «I love you.»
Poi con gli artigli afferrò il mitra e volò via verso il tetto del tempio. Le colonne si aprirono lasciando posto a un cielo luminoso. Il soldato si ritrovò sdraiato in un luogo roccioso, l’abito stracciato e sporco. Era disarmato.
«È cambiata la situazione, ti pare?» sentì domandare da dietro una pietra. Era il killer.
Raccolse le forze e si lanciò nella fuga. I proiettili gli sibilarono accanto. Ora era lui la preda. Si gettò fra i pruni, pieni di spine. L’abito si lacerava, le mani e le gambe sanguinavano, ma almeno era nascosto.
La selva finì. Davanti a sé, a poche decine di metri, c’era di nuovo la prigione. Si tuffò dentro, chiuse la porta e tirò il chiavistello. Per il momento era salvo. Poco dopo qualcuno tentò di forzare la porta – tre scossoni, poi la serratura girò. Il killer lo aveva chiuso dentro.
Sentì la voce beffarda: «Ci marcirai qui dentro. Verrò a vedere le tue ossa!»
Voleva vedere la faccia di chi lo condannava. Si affacciò alla finestrella della porta e vide il killer, distante qualche metro, che rideva. Rimase paralizzato: era lui. Stessa voce, stessi gesti, stesso abito – solo che quello del killer era pulito, mentre il suo era lacerato e sporco di sangue. Adesso era lì, guardando il suo abito, come si era ridotto. Dopo giorni di prigionia era disorientato e confuso. Sognava battaglie di masse, clangore di spade, uomini contro uomini. Le spade si muovevano da sole nell’aria, fino a quando una spezzava l’altra e andava a conficcarsi nel cuore del nemico. Quello cadeva a terra e si trasformava in una donna.
Una notte sognò di nuovo: stavolta era lui al centro della battaglia. Rimasti in due, disarmò l’avversario e stava per ucciderlo, ma si fermò. Entrò nel sogno con la volontà, si inginocchiò e consegnò la spada. L’altro alzò la celata: era la donna. Piantò la spada in terra. Aprì la bocca come per parlare, ma non uscì suono: solo immagini, colori, luce. Una nuova lingua senza parole, fatta di pensieri. Aprì gli occhi. Una luce bianca si fece strada nella sua coscienza.
«Eccolo che ritorna al mondo», sentì dire. Si guardò intorno: figure sfocate prendevano forma.
«Buongiorno! Tranquillo, tutto bene. Sei in buone mani adesso.»
«Dove sono? Chi siete?» «Te l’ho detto, sei in buone mani. Meglio di quei militari a cui sei andato a rubare alla mensa. Ti hanno sistemato. Sei di nuovo dentro, in infermeria. Riposati adesso.»
Chiuse gli occhi e sentì appena una voce: «Questo, quando si riprende, forse prima di tornare a graffisgnare ci penserà due volte.»
Poi una risata. E infine, il sonno.

Testata: Buonasera
ISSN: 2531-4661 (Sito web)
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