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La storia

Palazzo degli Uffici, ecco come ripartiranno i lavori

Nel 2003 il primo cantiere, nel 2013 la chiusura definitiva. Ora un nuovo progetto

L’ultima bandiera è stata ammainata dieci anni fa. Luglio 2013. Certo, la guarnigione era già stata svuotata nel corso del decennio precedente. Rimaneva solo l’ultimo baluardo, qualche stanza; una testimonianza o poco più. Dal vociare caciarone degli studenti al silenzio: centoventi mesi fa Palazzo degli Uffici chiudeva del tutto i battenti. Avrebbe dovuto essere per poco. Avrebbe.

La tela di Penelope

Fare, disfare, ricominciare. E osservare il passare del tempo. Per le generazioni di studenti del liceo Archita che in quelle stanze vagamente tetre si sono alternate dalla fine dell’800 la “tela di Penelope” non è stato solo un modo di dire, ma anche un oggetto di studio. Per chi da dieci anni guarda l’imponente edificio che troneggia, gigante malandato, al centro del Borgo, “tela di Penelope” rende l’idea di come è passata questa decade scalcagnata per il fu Archita. Progetti scritti, riscritti e abortiti. Contenziosi legali, ricorsi e controricorsi, tribunali amministrativi e consigli di Stato andata e ritorno. Una bulimia burocratica mentre quel Palazzo lì si rinsecchiva sempre più. Da antico a vecchio: non è mica questione di sfumature.

Al 2003 - vent’anni fa - risale la prima parziale cantierizzazione con l’obiettivo di realizzare una sorta di centro direzionale; poi, una serie di inciampi a catena. Nel settembre 2019 il taglio del nastro del nuovo cantiere. C’è stato anche modo di cambiare nome: ve lo ricordate come Palazzo degli Uffici, ora è Palazzo Archita. Così è se vi pare.

Il sole entra dalle finestre rotte

E ora? A che punto è la notte? In realtà, un pallido sole tra le finestre mezze rotte forse riesce a filtrare. I tetti sono stati rifatti, e se sembra poco così non è, visto che nel Palazzo (degli Uffici o Archita, fate vobis) ad un certo punto pioveva dentro e menomale che non ci sono stati danni strutturali. Magari c’ha ragione Sorrentino ed è stata la mano di Dio ad evitare il peggio.

Metterci la faccia

Adesso si attendono a stretto giro novità sostanziali, che si traducono principalmente nel bando di gara per gli interventi di riqualificazione delle facciate, cioè l’esterno del Palazzo, oggi in condizioni tristissime e coperto da un velo poco pietoso. All’inizio di quest’anno si è sbloccata la complicata partita relativa alla progettazione, assegnata in via definitiva ad un raggruppamento di imprese il cui lavoro dovrà e potrà essere la pietra angolare delle operazioni di restauro. Si tornerà a lavorare.

La diaspora, aspettando il ritorno

Ovviamente, il nodo è cosa farci, del Palazzo, una volta che l’esterno sarà pronto. In questi anni, ed anche prima, se ne sono sentite tante. Troppe, in realtà. Chi ci voleva un teatro, chi un centro commerciale, chi un “contenitore” per chissà cos’altro.

Per fortuna c’è chi, come gli ex studenti dell’Archita e la loro associazione, ha fatto (e fa) presente che non si può prescindere dal destinare una parte degli spazi ad un utilizzo - funzionale - scolastico. Lì ci deve tornare quantomeno l’indirizzo classico del liceo che vide diplomarsi Aldo Moro.

Il liceo Archita, inteso come istituzione scolastica e culturale della città, oggi è una scuola in salute. Ha trovato sistemazione nelle due sedi di corso Umberto e dell’ex Mazzini dopo una diaspora che aveva portato studenti, professori e personale, nel passato, anche nelle aule della scuola elementare Consiglio in Città Vecchia. Ma un posto da chiamare casa - per il liceo, i suoi ragazzi, i prof e tutte le persone che ci sono dietro la parola “scuola” - non potrà che essere il vecchio/nuovo Palazzo Archita. Su questo c’è unanimità di vedute; e a Taranto, città divisa per eccellenza, non è mai scontato.

IL SEPOLCRETO EBRAICO

Nel 2006 nel corso di un sondaggio nel cantiere aperto nel Palazzo degli Uffici che doveva essere ristrutturato, sotto il pavimento di un’aula scolastica situata al primo piano, sono stati rintracciati i resti di un sepolcreto ebraico: tre tombe scavate nel banco calcarenitico, con scheletri ancora in situ.

Come segnalato anche dall’Associazione culturale Aldo Moro fra ex alunni ex docenti e docenti dell’Archita, dalla preservazione di quei resti umani, secondo le norme religiose ebraiche, e dalla salvaguardia di quel lembo di sepolcreto, magari da valorizzare rendendolo visitabile pur all’interno di un ambiente più vasto cestinato ad altro scopo, potrebbe derivare un’operazione dalla “forte valenza culturale e persino turistica, previa azione di preservazione dei resti scheletrici, secondo le norme religiose ebraiche, e loro risepoltura”.

Gli Ebrei infatti non praticano la traslazione, e distruggere quegli scheletri o asportarli e depositarli nei depositi della Soprintendenza, come si faceva nel secolo scorso, “costituirebbe una profanazione ed un atto sacrilego nei confronti di una delle confessioni religiose che hanno sottoscritto intese con la Repubblica Italiana”.

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