Nel 1987 Giorgio Ruffolo, un ministro socialista, per la prima volta guida un ministero per l’ambiente con proprie competenze di spesa e con un programma di grandi investimenti che darà luogo al piano triennale 1989-’91. Per Giorgio le parole socialismo e riformismo non erano etichette vuote. Si è sempre sforzato di riempirle con idee e progetti, per assicurare all’umanità condizioni di vita meno crudeli e sperequate. Senza indulgere all’utopia, non si era mai rassegnato all’accettazione dell’esistente. Per questo si era impegnato direttamente in politica nel Psi, ricoprendo cariche importanti, anche se la sua vocazione più autentica lo indirizzava piuttosto verso la riflessione intellettuale ed economica. Ruffolo ebbe con Federico Caffè un rapporto di amicizia vera, ma riguardosa: “mi ha precluso la confidenza, la familiarità e anche la conflittualità. Credo che ci unisse più la solidarietà culturale e civile che la politica economica. Caffè era un riformista estremista. In lui, l’etica della convinzione coincideva con l’ etica della responsabilità”. Le frustrazioni che l’ampliarsi del varco tra utopia e realtà provocano in un riformista, Caffè le ha cristianamente sofferte e vissute personalmente, fino al sacrificio di sé, consumato nell’ orgoglioso mistero del silenzio e della solitudine. Laureato in Giurisprudenza, un passato nella consulenza politica (a fianco di Enrico Mattei all’Eni fino alla morte di questi nel 1962, poi, Ugo La Malfa, lo nominò Segretario generale della Programmazione economica negli anni Settanta, incarico che lasciò per presiedere la Fime a cui è seguita una lunga stagione nella politica attiva deputato, senatore, ministro dell’Ambiente. Fu in quella veste che. accompagnato da Claudio Signorile, lo invitai a Taranto a presiedere la presentazione del primo piano programma del verde urbano dell’amministrazione guidata da Mario Guadagnolo. Socialista da giovanissimo, insieme a Riccardo Lombardi, Antonio Giolitti e Pasquale Saraceno è stato uno dei principali promotori di una politica di programmazione economica volta al superamento degli squilibri territoriali e alla riduzione delle diseguaglianze sociali, Sviluppò ampie competenze presso l’Istituto di Studi per la Programmazione Economica con “Il Rapporto sulla Programmazione Economica” che presentò al Parlamento in qualità di segretario generale della Programmazione Economica, patrocinato dall’allora ministro del Bilancio Giolitti. Occhi azzurri sempre gentilmente ironici, Ruffolo è stato, prima di tutto, un maître à penser: “Non sono uno storico, ma un appassionato di storia” precisava. Un paese troppo lungo “furono gli arabi a chiamare così l’Italia. Quando rinunciarono a conquistarla tutta, o meglio non ci riuscirono. Proprio per la sua particolarità territoriale, più di mille chilometri in lunghezza. Una difficoltà di cui solo i Romani ebbero ragione ma che, successivamente, si è ripresentata puntuale. Fino all’unità d’Italia e ai giorni nostri”. Oggi, questa unità è a rischio «Io distinguo tre momenti, che chiamo: l’unità mancata, l’unità incompiuta e l’unità minacciata. La prima, quella mancata, occorse nel Medioevo. Un’Italia sempre divisa tra Nord e Sud, caratteristica strutturale della nostra storia. C’era stata la possibilità che il Sud, all’epoca molto potente militarmente, e il Nord, frazionato in tanti statarelli e comuni ma molto ricco, si fondessero. Federico II, straordinariamente moderno sia in politica interna sia in politica estera, un po’ meno in quella economica, sarebbe stato il re ideale, il federatore di un Paese che, in quel momento, sarebbe stato il primo Stato europeo, unendo il Sud del Regno normanno e il Nord delle repubbliche, naturalmente con Roma capitale. Si sarebbe potuto fare nel 1200 quello che si realizzò solo nel 1861. Fantasia pura, lo so. Ma, spesso, interrogarsi sui “se” aiuta a comprendere la Storia». L’unità incompiuta «Nasce dai tre secoli successivi. Passati in servitù sotto l’invasione dei grandi stati europei, Francia e Spagna soprattutto. Una servitù dalla quale mentalmente non ci siamo ancora liberati; ed è uno dei nostri vizi, assieme alla teatralità, al provincialismo e, soprattutto, alla mancanza di senso dello Stato. In nessun altro Paese, per dirne una, il fisco viene visto solo come un mettere le mani nelle tasche della gente, quando invece, anche se a nessuno piace pagare le tasse, nelle altre nazioni avanzate è vissuto per quello che realmente è: la massima espressione di solidarietà collettiva e di unità tra cittadini. Quei tre secoli, poi, sono stati deleteri anche perché hanno approfondito il divario tra Nord e Sud. In questo periodo si è consolidata e incancrenita la tara storica italiana: l’incapacità di fondersi da parte di due realtà politiche importanti, una per ricchezza, l’altra per potenza, compattezza territoriale e militare». Si sarebbe potuta realizzare l’unità che invece è rimasta incompiuta «Napoleone Bonaparte, invase l’Italia alla testa di un esercito straccione ma potente. La liberò dal controllo degli austriaci, risvegliando gli spiriti nazionali e determinando un grande movimento popolare, il Risorgimento che prese vita propria. Si rifaceva alla perduta grandezza italiana del passato ma nasceva da eventi attuali per l’epoca e di grande contenuto patriottico: la Repubblica partenopea, le due Repubbliche romane successive, le Cinque giornate di Milano, le dieci giornate di Brescia, la disperata resistenza di Venezia». Pochi sanno che i patrioti meridionali affluirono in più di ventimila nel piccolo regno piemontese, attirati proprio dal progetto cavouriano «Non riuscirono a venire a capo di una vera e propria guerra interna, paragonabile a quella che in America è stata la Guerra di secessione: il Sud contro il Nord. Quella che nei sussidiari scolastici passa ancora come la lotta contro i briganti meridionali fu, in realtà, una guerra contro i contadini, cioè contro la struttura portante del Meridione agricolo e agrario. In Francia il movimento contadino venne catturato e aggregato dalla borghesia che ne fece una sua grande forza. In Italia questo non avvenne. Come disse Gramsci, le cui tesi in questo caso condivido, la cosiddetta guerra al brigantaggio fu una sciagura. Non causò il divario, ma lo approfondì in modo irreparabile». Poi vennero il nazionalismo e il fascismo… «Quando nasce la Repubblica si presenta come un fatto nuovo, fondato su basi serie e persino consapevole dei propri limiti. E subito realizza due miracoli. Quello economico: in pochi anni l’Italia passa dagli ultimi posti fino ai vertici della classifica delle potenze economiche. E quello politico-strategico: in piena guerra fredda si dota di una delle Costituzioni democratiche più avanzate, frutto dell’incontro e confronto tra i vari partiti anti-fascisti. C’era così la possibilità di realizzare quell’unità fallita dal Risorgimento. E così sembrò all’inizio. La politica meridionalista messa in piedi attraverso strumenti come la Cassa per il Mezzogiorno voleva dare una risposta al divario tra Nord e Sud. Poi le cose sono andate come sono andate. Non c’è stata l’industrializzazione del Sud che doveva essere il passo obbligato». I problemi sono cominciati con l’istituzione delle Regioni «Avrebbero dovuto rappresentare il passo in avanti della politica italiana, invece hanno aumentato la corruzione. E ha dato vita a una classe dirigente locale basata sul peggiore clientelismo e affarismo». Realizzare quello che il Risorgimento non è riuscito a fare «Uno Stato federale vero, che superi quell’accentramento di poteri che fu uno degli aspetti risorgimentali negativi e portò anziché all’unità del consenso all’unità imposta. Il federalismo a cui penso, però, si basa sulle macroregioni: non quindi un federalismo tra le 21 regioni, alcune piccolissime, in cui è frazionato il potere amministrativo italiano. Ma, sostanzialmente, un’intesa tra Nord e Sud, con anche il Centro. E che abbia Roma come capitale federale, alla stregua di ciò che Washington è per gli Stati Uniti. Un’utopia? Forse, non me lo nascondo. Ma la Storia che cos’è se non una serie di utopie realizzate?».
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