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Il commento
11 Gennaio 2024 - 06:00
Mons. Ciro Miniero - foto di Francesco Manfuso
Monsignor Ciro Miniero ha pagato lo scotto di non essere un politico e di non conoscere ancora bene la realtà tarantina.
Oggi il ceto politico, nel suo vivere nell’eterno presente, annegando fra like e sondaggi, preferisce non esprimere concetti impopolari, si guarda bene dall’assumersi la responsabilità di indicare percorsi impegnativi e di sbattere in faccia la realtà, soprattutto se questa va a cozzare con le aspettative e gli umori di pancia del cittadino-elettore. No, oggi l’esercizio più praticato è quello di dire ciò che i cittadini vogliono sentirsi dire. È una modalità populista e qualunquista che si è affermata soprattutto nell’era dei social e non è un caso che proprio nell’ultimo decennio l’Italia abbia visto l’affermazione di forze politiche con queste caratteristiche. Non dimentichiamo il trionfo elettorale di chi prometteva di chiudere l’Ilva in quindici giorni e di fare al suo posto un grande parco giochi, illudendo gli operai di poter campare fino alla pensione con i lavori per le bonifiche. Chiacchiere, semplicemente chiacchiere che si sono sciolte come neve al sole alla prova di governo.
Nell’intervista rilasciata a Radio Vaticana – se letta nella sua interezza, anche la contestatissima frase finale assume una luce completamente diversa - l’arcivescovo non ha fatto il politico, ma ha detto verità sacrosante, peraltro sottolineando la necessità di un intervento nazionale ed europeo per risolvere il caso Taranto, città lasciata sola in questa tremenda crisi, «come se il problema di Taranto appartenesse solo a Taranto». E ha pure specificato, in modo chiarissimo, il bisogno di una «transizione verso un mondo sostenibile».
Ma veniamo alle parti più contestate e largamente diffuse sui social: non è forse vero che oggi non c’è una alternativa al siderurgico? Non è forse vero che, nonostante siano trascorsi quasi dodici anni dall’esplosione della vertenza, non è stata costruita una alternativa adeguata a sostituire o almeno ad affiancare il peso economico che la grande industria ha sul territorio? Non è forse vero che, al di là delle vuote narrazioni autocelebrative, ci vorranno anni e anni per sviluppare quell’economia turistica (e poi quale forma di turismo?) della quale in troppi si riempiono a sproposito la bocca, trascurando che Taranto è purtroppo ancora molto molto indietro su questo piano?
E quindi non è forse vero che la chiusura della fabbrica, in assenza di una alternativa credibile, sarebbe «una catastrofe» economica e sociale per una città già in grave sofferenza? Non dice nulla, ad esempio, la protesta delle imprese dell’indotto ormai con l’acqua alla gola per gli effetti della crisi del siderurgico? E che dire dei negozi che già oggi chiudono e dei ragazzi che giustamente preferiscono andare via?
E non è forse vero, allora, che la chiusura di una siffatta fabbrica per un territorio che ha una economia largamente costruita intorno alla grande industria «significherebbe non pensare al bene di una comunità formata per questo», cioè cresciuta per sessant’anni all’ombra del siderurgico?
Monsignor Miniero ha peccato di ingenuità nell’esprimersi in modo così diretto con parole che, stralciate e date in pasto ad una platea obiettivamente colpita dagli effetti “collaterali” del ciclo produttivo, hanno finito per suscitare tanta indignazione.
Liberarsi dalla dipendenza esclusiva dalla grande industria è un dovere, ma pensare che spegnendo l’acciaieria per Taranto possa d’incanto accendersi la luce è una verità purtroppo ingannevole. E Taranto di tutto ha bisogno, ma non di essere ancora ingannata.
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