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COMICO

Pavo real para la cena?

di Katia Chini da Predaia - TN

Bovindo

Bovindo – racconti da leggere, autori da scoprire è la rubrica dedicata a chi desidera far conoscere la propria voce letteraria e condividere il piacere del racconto breve.
Ogni giorno, dal lunedì al venerdì, Bovindo propone un nuovo racconto, scelto tra autori esordienti e scrittori già affermati, offrendo ai lettori uno sguardo privilegiato sulla narrativa italiana contemporanea: una finestra luminosa da cui osservare il mondo attraverso tante piccole grandi storie.
Gli autori interessati possono inviare all’indirizzo bovindo2025@gmail.com il proprio racconto indicando nome, cognome, luogo di residenza e contatto telefonico. I testi, in lingua italiana e a tema libero, non dovranno superare le quattro pagine (formato A4, file Word). Sono ammessi racconti editi o inediti, senza limiti di genere. Per ulteriori informazioni: cellulare 327 1371380. Bovindo è uno spazio aperto e inclusivo, dove la scrittura respira, il talento si riconosce e ogni voce trova il suo lettore.


Pavo real para la cena?

di Katia Chini

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Quando ho visto le immagini di questo posto sulla brochure in agenzia, quasi non credevo potesse esistere veramente: sembrava un angolo di paradiso. Dall’antico casale, un tempo residenza rurale di una nobile famiglia, sono state ricavate cinque stanze, ognuna delle quali porta il nome di un pittore e sono tutte finemente arredate con mobili e oggetti d’epoca. Il rigoglioso Albero della vita affrescato alla parete toglie ogni dubbio sul nome dell’eccelso artista cui è stata dedicata la mia stanza.
È invece solo un caso che Klimt fosse anche il mio preferito.
Mi lascio cadere nella morbida poltrona rivestita in broccato bianco. È posizionata in un angolo della stanza, di fronte alla porta-finestra che si apre sul giardino più curato e colorato che abbia mai visto. La primavera si è stabilita qui e ha rilasciato tutto il suo splendore fatto di tenere gemme pronte a sbocciare, di ogni varietà di fiori e piante che spuntano da un tappeto d’erba così perfetto che sembra tagliato con le forbici.
Ogni rumore prodotto dalla città, relativamente vicina, viene filtrato dalle colline coltivate a olivi e viti che lasciano passare solo il canto degli uccelli e il frinire dei grilli, lasciando nell’immobilità dell’aria che si respira qui sensazioni di pace sospese.
Ho davanti agli occhi un’immagine che da sola è capace di toccare ogni corda dello spirito e stuzzicare ogni senso. Il cielo si è saputo dipingere con una grande quantità di sfumature. Il sole è appena tramontato e avvolge le colline a ovest in un bagliore ovattato: il chiarore si dissolve piano piano fino a perdersi nel rosa, nell’indaco e infine nell’azzurro intenso. Nessuno riuscirebbe a riprodurre su tela una tale meraviglia. La natura è, e ne resterà, l’unica autrice.
Chiudo gli occhi e respiro profondamente. Sento il profumo dell’erba appena tagliata che mi riporta indietro a quando ero bambina. Ricordo il grosso sacco di iuta caricato sulle spalle curve di mio nonno e il mio lanciarmi a volo d’angelo su quel mucchio d’erba messo in soffitta a essiccare. Il nonno non voleva che l’erba si schiacciasse così: aspettavo che affrontasse il viaggio con il carico successivo e, una volta al sicuro dal suo già debole udito, mi ci lasciavo cadere a faccia in giù. Respiravo a fondo, qualche filo mi entrava nel naso e iniziavo a starnutire e a lacrimare.
Tra un po’ sarà servita la cena: mi troverò seduta tra gli altri commensali all’unico e antico tavolo in legno scuro e pesante, costellato di buchi di tarlo, qualche piccola bruciatura e macchia lasciata nel corso degli innumerevoli pasti serviti durante gli anni. Si mangia tutti insieme, come fossimo una famiglia; in realtà, delle sei persone presenti conosco molto poco, quasi nulla della loro vita privata, e spesso mi chiedo come abbiano fatto alcuni di questi personaggi a scegliere una dimora come questa, che mi appare lontana dal loro stile di vita.
Ogni cosa qui ha custodito il sapore antico delle cose tramandate da generazioni. Passando la mano sulla delicata tovaglia bianca, immagino le mani sapienti delle donne del casato ricamare finemente, con punti piccolissimi, questi preziosi intarsi.
Scendo la scala reggendomi alla ringhiera in ferro battuto: la gamba mi fa ancora male, questa sera in modo particolare. Presentimento? Presagio? Perturbazione? O semplicemente ho forzato troppo camminando per buona parte del pomeriggio? Cammino lenta raggiungendo il tinello, sento che alcuni ospiti sono già nella stanza e stanno chiacchierando sommessamente.
Sono i coniugi De Carolis, già seduti ai loro posti proprio di fronte a me. Mi salutano sorridendo: scambio due battute senza riuscire a staccare gli occhi dal cappello che porta oggi la signora. Ogni sera ne indossa uno diverso, abbinato al vestito o a una parure di gioielli, come fosse a una prima a teatro o all’opera.
Quello di questa sera ha dell’incredibile: è blu elettrico, adornato con tre piume di pavone, lunghe, lunghissime. Mi chiedo come abbia fatto a portarlo fino a qui. Trattengo a stento una risata, mascherandola con un colpo di tosse. Il marito si sta facendo compagnia – e forse anche coraggio – con un calice del suo vino preferito.
Ci raggiunge l’altra coppia più giovane che occupa la stanza Renoir: ci salutano e si siedono accanto a me. Lui parla sempre molto volentieri con tutti, lei invece rimane spesso rinchiusa nel suo mondo. Ha occhi e capelli neri, l’aspetto ben curato che stona con il ventre prominente e l’abbigliamento di recupero del marito. È la coppia peggio assortita che abbia mai conosciuto.
Fischiettando arriva anche Pablo, un ragazzo spagnolo di ventotto anni. Lui siede a capotavola fin dal primo giorno. Jeans strappati, maglietta nera, fascia borchiata al polso, orecchino pendente a teschio, poca affinità con i saponi ma molta con i profumi: un mix esplosivo. Dalla Spagna ha portato la sua simpatia e la ricetta per preparare un’ottima sangria, che dal giorno del suo arrivo non è mai mancata.
I suoi racconti, le sue avventure e le sue battute – a volte spinte e incuranti dell’eterogeneità del pubblico – sono il sottofondo delle nostre cene; talvolta proseguono anche nel dopocena, in veranda, bevendo l’ennesimo sorso di quel dolce nettare.
Pablo saluta tutti con un inchino tanto ironico quanto ben fatto, sorride mostrando i suoi denti perfetti e si siede. Seguo il suo sguardo che si posa inevitabilmente sul cappello della signora De Carolis. Ora sì che dovrò fare uno sforzo per trattenere quella risata. Tra poco verrà scagliata, prevista e prevedibile, la prima freccia. Pablo mi guarda e dice: «Pavo real para la cena?».
Sorrisi e risate appaiono sul viso di tutti, tranne su quello della signora piumata che, indispettita, si alza facendo rovesciare la sedia all’indietro con un tonfo, appallottola il tovagliolo e lo lancia centrando il mio bicchiere quasi pieno di vino rosso. Non faccio in tempo né ad alzarmi né a spostarmi: la macchia bordeaux si allarga sulla mia camicia bianca, cola sui pantaloni e inzuppa la tovaglia. Rimango impietrita.
Allargo le braccia, colta alla sprovvista e incapace di fare altro. Con la mano destra colpisco involontariamente la donna dai capelli neri: devo averla presa tra la guancia e l’orecchio, sento un rumore metallico tintinnare sul pavimento. Credo sia il suo orecchino.
Lei si tiene la guancia con la mano, ma si sbilancia sulla sedia, forse per lo stupore causato dall’episodio. La sedia traballa e lei tenta di aggrapparsi al tavolo, lo manca, afferra invece la candida tovaglia e la tira verso di sé. Pablo, che probabilmente sarebbe accorso in suo aiuto anche se le si fosse appoggiata una mosca sulla spalla, scatta verso di lei e la sostiene da dietro, le appoggia le mani sulla schiena e non le leva nemmeno quando l’equilibrio è stato ristabilito.
Il marito, più che della moglie che stava per dar luogo al gioco di magia della tovaglia, si preoccupa di recuperare l’orecchino evidentemente costoso e si lancia inseguendo il tintinnio del prezioso monile. Questo, dopo aver ruotato su se stesso un paio di volte, ha finito la sua corsa sotto il tavolo tra gambe di sedie e piedi in subbuglio.
Il recupero fu faticoso, perché per raggiungerlo dovette distendersi prono sotto il tavolo, ma poi tentò di alzarsi indietreggiando. Si alzò troppo rapidamente e indietreggiò troppo poco. Il rumore sordo della testa che sbatteva sotto il tavolo fu accompagnato dal cozzare delle stoviglie e dal grido di dolore dell’uomo. Un piatto cadde, rompendosi e aggiungendo altro rumore a quel concerto cacofonico.
La signora piumata, intanto, aveva raggiunto a grandi passi la porta: proprio in quel momento stava arrivando la settima ospite, una ragazza magrissima dall’aspetto emaciato, che veste sempre in lino per non inquinare il suo corpo con sostanze artificiali. La spallata della De Carolis le arrivò inaspettata quanto crudele, proprio sotto il mento, e, se fino ad allora le linee guida della sua vita erano la tolleranza e la pace, ora sono imprecazioni di ogni tipo lanciate come fendenti.
L’unico che in tutto questo marasma è rimasto fermo e impassibile è il signor De Carolis. Ha un sorriso sardonico ed è ormai al terzo bicchiere di vino bianco che regge nella mano destra. Sta seduto sul bordo della sedia, con le gambe distese e incrociate come le braccia. Sembra stia assistendo a una commedia paradossale, cercando di capire come tre piume avessero potuto creare tutto quello scompiglio; come quella calma che aleggia in quel luogo fosse in realtà solo apparente; e come, con un niente, ogni situazione – anche la più stabile – possa cambiare.
Ma sarà davvero successo tutto questo? Ruota la bottiglia di vino: l’etichetta gli svela il grado alcolico, decisamente alto, e forse – insieme a questo – anche la risposta più ovvia.

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