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ALLEGORICO
14 Novembre 2025 - 06:00
Bovindo – racconti da leggere, autori da scoprire è la rubrica dedicata a chi desidera far conoscere la propria voce letteraria e condividere il piacere del racconto breve.
Ogni giorno, dal lunedì al venerdì, Bovindo propone un nuovo racconto, scelto tra autori esordienti e scrittori già affermati, offrendo ai lettori uno sguardo privilegiato sulla narrativa italiana contemporanea: una finestra luminosa da cui osservare il mondo attraverso tante piccole grandi storie.
Gli autori interessati possono inviare all’indirizzo bovindo2025@gmail.com il proprio racconto indicando nome, cognome, luogo di residenza e contatto telefonico. I testi, in lingua italiana e a tema libero, non dovranno superare le quattro pagine (formato A4, file Word). Sono ammessi racconti editi o inediti, senza limiti di genere. Per ulteriori informazioni: cellulare 327 1371380. Bovindo è uno spazio aperto e inclusivo, dove la scrittura respira, il talento si riconosce e ogni voce trova il suo lettore.
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Lascia l’auto su una piazzola d’erba rada e gialliccia che costeggia la Provinciale, poi scavalca il guardrail e si incammina per i campi, fino a dove comincia il bosco. Si mette lì ad aspettare; rivolge le spalle agli alberi, come se ce l’avesse con loro, come se gli avessero fatto qualche sgarbo. Sa che se si gira e si mette a guardare nel folto e nell’ombra, vedrà la macchia pallida, scorticata e terribilmente familiare di quella vecchia casa. E la casa, adesso, è l’ultima cosa che vuole vedere.
Per anni quella casa era stata la protagonista dei suoi sogni tormentati che lo facevano svegliare ansimando in preda al panico; poi restava lì per molti minuti, con lo sguardo sbarrato e fisso nel vuoto, con la bocca amara e la gola secca.
Ora era lì nell’ammaliante solitudine del Parco dell’alta Murgia e quella casa era solo poche centinaia di metri lontana da lui, ma non era più così sicuro di volerla rivedere, come se qualcosa dentro di lui esitasse ancora una volta.
Quando sua sorella Anna lo aveva chiamato per dirgli che il loro padre stava morendo in quella RSA di Bari nella quale da circa due anni spendeva gli ultimi spiccioli della sua vita, era stato come se qualcuno lo avesse stordito con un colpo inatteso e si fosse risvegliato in un mondo che credeva di aver sepolto per sempre nei meandri più reconditi della sua mente.
Anna, la sorella maggiore, che aveva quasi quindici anni più di lui, era stata la sua fata turchina che gli aveva aperto la porta di una nuova vita.
Quando la mamma era morta, lei aveva poco più di sedici anni.
Bella e brillante, come era sempre stata, aveva partecipato, quasi per gioco, alle selezioni per la costituzione dello staff di animazione di un rinomato villaggio turistico sulla costa salentina e, quell’anno, durante la stagione estiva, aveva conosciuto un giovane imprenditore del quale, circa due anni dopo, era diventata la moglie.
Così, quando era stato necessario, aveva preso il fratello minore a casa sua come un figlio aggiunto ai due figli naturali nati nel suo matrimonio e gli aveva consentito di studiare e di diventare quello che era adesso.Dopo alcuni secondi di silenzio, era riuscito a dirle: «Anna, perché mi hai chiamato? Sai che per me è come se lui non fosse mai esistito; è l’unica condizione che da anni mi ha consentito di riprendermi la mia vita».
«Lo so, Marcello,» gli aveva risposto Anna «ma ho pensato che magari per questa circostanza saresti riuscito a venire … lui … ha chiesto di te!».
Si era domandato perché suo padre volesse vederlo e anche cosa mai lui avrebbe potuto dirgli dopo tutti quegli anni nei quali l’aveva cancellato dalla sua vita, cosa potesse ancora significare quel richiamo dopo anni di silenzio.
A Milano aveva ritrovato sé stesso, aveva studiato ed era diventato un affermato chirurgo; era stata dura, aveva dovuto anche fare tanti piccoli lavori per mantenersi agli studi, non poteva chiedere di più a sua sorella.
Poi aveva conosciuto e sposato Clara, si era fatto una vita.
Non aveva voluto diventare padre, non se l’era sentita, ma, per il resto, era sereno, aveva un suo posto nel mondo e questo gli bastava.
A sua sorella Anna non aveva promesso nulla, ma poi - non sapeva perché – aveva deciso di partire per Bari.
A Clara aveva detto il minimo indispensabile: non era necessario riportare a galla quel pezzo ormai morto e sepolto della sua vita.
Nel viaggio verso Bari, aveva improvvisamente deciso di lasciare l’autostrada a Foggia, per dirigersi in quel luogo della memoria o forse sarebbe meglio dire del suo incubo.
«Mi vuoi spiegare che succede?» è la voce di Clara che lo scuote d’un tratto dai suoi faticosi pensieri, cercando i suoi occhi che continuano a sfuggirla.
Non trova ancora le parole o forse la forza per rispondere.
Lei torna alla carica.
«Quando ti ho chiesto perché avessi deciso di lasciare l’autostrada per Bari e dove volessi andare, mi hai detto che mi avresti spiegato quando ci fossimo arrivati e ora sei qui, seduto su questo muretto a secco, che sembra che ti sia caduto il mondo addosso. Non pensi che sia giunto il momento di parlarmene?» lo sollecita ancora lei con insistente dolcezza.
Lui giocherella con alcuni piccoli sassi raccolti da terra, poi, ad uno ad uno, li lancia lontani.
«Non è facile per me, perché si tratta di far rivivere un passato che pensavo ormai cancellato dalla mia vita e che invece mi è ripiombato addosso all’improvviso. Credevo di essere pronto a farlo, quando ho deciso di fare quella deviazione e tornare ancora qui, dove ho vissuto certi momenti della mia fanciullezza, ma, ora che ci sono, non sono più così sicuro di volerlo fare, nonostante mi fossi ripromesso di riuscirci».
Clara chiede ancora: «E questi tuoi brutti ricordi sono legati a questo posto?»; si guarda attorno: «Non c’è nulla qui, a parte queste grandi distese e questi muri a secco», quasi temendo la risposta.
Le rivolge uno sguardo comprensivo e un mezzo sorriso: «Questi sono i cosiddetti ‘jazzi’; è facile vederli da queste parti…».
Clara lo segue a distanza, rispettando quel fragile spazio che lui non riesce ancora a difendere da solo.
Marcello cammina a testa bassa, trascinando con sé il peso di ciò che non aveva mai raccontato a nessuno.
Marcello cammina a testa bassa, nella distesa verso il bosco…
Eccola!
Si avvicina piano…
Dentro una luce fioca illumina le poche cose rimaste.
La voce di Clara alle sue spalle lo scuote: «Marcello, che succede? Guardi quel vecchio giaciglio come se avessi visto un serpente a sonagli».
Le fa segno che ha bisogno di aria; escono all’aperto.
È giusto che sappia, pensa Marcello, perché quel dolore, finché resta nascosto, continua a vivere.
«Avevo poco più di sette anni…»
«Poi, un pomeriggio d’estate… è successo…» le parole gli si incastrano in gola, come se uscissero da una ferita rimasta aperta.
«…sono stato abusato…» lo dice in un soffio, come se nominare quell’orrore lo rendesse di nuovo reale.
Clara resta in silenzio, incapace per un attimo di respirare.
«Ma è orribile! Chi è stato?»
Silenzio.
«No! Non è possibile! Tuo padre?»
«…»
Clara resta pietrificata, la voce incrinata dall’incredulità.
Riprendono il viaggio verso Bari.
Anna lo aspetta all’ingresso della RSA, con un’espressione che sembra chiedere perdono per quello che sta per accadere.
Entrano nella stanza.
Marcello si avvicina al letto, sentendo le gambe irrigidirsi come se volessero impedirgli di andare avanti.
La mano del padre compie un leggero movimento, un gesto minuscolo ma disperato.
Poi chiude gli occhi.
Fuori, Onofrio lo saluta: «Come mai da queste parti? Hai qualcuno qui?»
l’infermiera gli fa un cenno.
Onofrio si fa scuro in volto, come se in un attimo avesse compreso più di quanto Marcello avesse detto.
«Chi era?»
«Era mio padre», con una calma che non gli appartiene, come se quelle tre parole lo separassero definitivamente dal passato.

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