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DRAMMATICO

Storie di mare

di Maurizio Rosi da Torino

Bovindo

Bovindo – racconti da leggere, autori da scoprire è la rubrica dedicata a chi desidera far conoscere la propria voce letteraria e condividere il piacere del racconto breve.
Ogni giorno, dal lunedì al venerdì, Bovindo propone un nuovo racconto, scelto tra autori esordienti e scrittori già affermati, offrendo ai lettori uno sguardo privilegiato sulla narrativa italiana contemporanea: una finestra luminosa da cui osservare il mondo attraverso tante piccole grandi storie.
Gli autori interessati possono inviare all’indirizzo bovindo2025@gmail.com il proprio racconto indicando nome, cognome, luogo di residenza e contatto telefonico. I testi, in lingua italiana e a tema libero, non dovranno superare le quattro pagine (formato A4, file Word). Sono ammessi racconti editi o inediti, senza limiti di genere. Per ulteriori informazioni: 327 1371380. Bovindo è uno spazio aperto e inclusivo, dove la scrittura respira, il talento si riconosce e ogni voce trova il suo lettore.


Storie di mare di Maurizio Rosi

Il braccio sinistro si sollevò ancora una volta. Ne caddero gocce salate che scintillarono al sole come gioielli. Ismail non vi prestò attenzione, forse non le notò neppure. Stancamente lo rituffò nel blu. Le bracciate andavano perdendo forza: questo lo poteva sentire chiaramente. Da quanto tempo stava nuotando? Forse da quindici o venti minuti, con una piccola, breve sosta per tirare il fiato. Invece gli sembrava che lo stesse facendo da ore. Eppure era allenato. Maledizione! Sì, allenato a gareggiare negli 800 e nei 400 metri dorso, in piscina. Ma ora, in mare, con le onde che pure increspavano appena la superficie delle acque, era tutta un’altra storia.
Il braccio destro seguì il sinistro compiendo un nuovo, faticoso movimento. Le gambe tornarono a battere flebilmente l’acqua appena in superficie. Socchiuse gli occhi, che la salsedine e l’accecante sole pomeridiano forzavano invece a tenere ben chiusi, e girò il capo cercando di vedere dietro di sé. Sebbene la vista fosse offuscata, era certo che il lembo di terra verso il quale stava cercando di dirigersi si era, seppure impercettibilmente, avvicinato. Il suo senso dell’orientamento non l’aveva tradito.
I trafficanti d’uomini avevano commesso due errori fatali. Avevano calcolato male la velocità di sgonfiamento del gommone sul quale i migranti erano stipati in quarantasette, cosicché quello aveva iniziato a colare a picco troppo presto. Loro si erano allontanati con la nave madre senza accorgersene o senza curarsi delle grida dei migranti. Neppure avevano previsto che il telefono satellitare, lasciato in mano a uno di quei disgraziati, si rifiutasse di funzionare. Nessun appello era giunto alla Guardia Costiera.
In pochi minuti, consapevoli della situazione, il panico era dilagato a bordo dell’imbarcazione. Ciascuno aveva cercato, se non di evitare, almeno di procrastinare la propria fine o quella dei suoi cari. Le madri avevano stretto al seno i propri bambini, lottando come furie. I primi a cedere erano stati gli anziani, gettati fuori bordo senza riguardo. Ma ogni sforzo era inutile: erano tutti destinati ad annegare a pochi chilometri dalla terra promessa. Non vi erano a bordo giubbotti salvagente per tutti e comunque nessuno sarebbe intervenuto a soccorrerli, perché nessuno sapeva che loro erano lì e stavano affogando. Anche coloro che avessero trovato qualcosa alla quale aggrapparsi sarebbero ben presto morti, uccisi dal sole, dal mare e magari dagli squali. Quasi nessuno era in grado di nuotare per cercare di raggiungere la terra, che si intravvedeva appena all’orizzonte.
Ma Ismail era un atleta, un nuotatore di vaglia, che aveva partecipato per la propria nazione ai Giochi del Mediterraneo. Aveva ceduto il proprio giubbotto arancione a una donna, la quale neanche lo aveva ringraziato. Si era sfilato sandali e pantaloni e aveva preso a dirigersi a nuoto verso la costa lontana. Non era in grado di salvare nessuno, ma poteva provare a farcela lui.
Dopo alcuni minuti, un’onda anomala l’aveva schiaffeggiato e costretto a ingoiare l’acqua salata. Era riuscito a sputarla fuori, tossendo e ansimando. Poi aveva ripreso la sua fatica con la bocca e la gola in fiamme.
Il braccio destro compì una nuova faticosa bracciata, poi toccò al sinistro. Steso sul dorso Ismail cercava di pensare ad altro lasciando che il proprio corpo, meccanicamente, continuasse a trasportarlo verso la salvezza.
Il mondo considerava la Tunisia una nazione fortunata, nell’ambito del ribollente Nord Africa. Eppure anche il suo Paese poteva divenire invivibile per chi avesse gli occhi e la mente aperti e il coraggio di indagare. Lui era stato un cocco del regime che, seppure in maniera poco appariscente, governava con pugno di ferro la nazione. Aveva vinto molte competizioni in patria e si era guadagnato il diritto e l’onore di gareggiare all’estero per la Tunisia. E lì aveva conosciuto cos’erano, in realtà, democrazia e libertà.
Non fosse stato per la sua anziana madre, avrebbe approfittato di una di quelle occasioni per rifiutare il rientro in patria e cercare di rimanere in Europa per sempre. Invece ogni volta era rimpatriato. Poi, sei mesi prima, lei se n’era andata per sempre e non gli erano rimasti altri vincoli affettivi a trattenerlo in patria.
In Tunisia era facile ricevere i canali TV italiani, dove spesso si dava notizia dei migranti che attraversavano il mare. Ismail si era mosso con cautela e alla fine era riuscito sia a entrare in contatto con i trafficanti d’esseri umani, sia a raccogliere il denaro sufficiente a pagarsi la traversata clandestina. Le trasmissioni televisive a volte raccontavano di naufragi, di stragi, ma i trafficanti lo rassicurarono: solo il cinque per cento dei tentativi andava a male. Aveva quindi deciso di rischiare.
Una parte della sua mente gli ricordava i momenti felici, le cose buone e belle che aveva provato in patria, nei suoi ventisei anni. Una parte di sé gli diceva allora: «Che stronzo sei stato a cacciarti in questa situazione! Potevi startene tranquillo a Sidi Boussaid. A te non avrebbero fatto mancare nulla».
Forse quei pensieri erano corretti. Forse. Ma non importava più. Tutto quello che contava, adesso, era riuscire a fare un’altra bracciata e poi un’altra ancora.
Sentì un rumore e tornò ad aprire gli occhi, spaventato. C’era forse un pescecane che gli dava la caccia? No, per fortuna. Vide un branco di pesci volanti sorpassarlo e ricadere in mare per poi spiccare un nuovo balzo nell’aria. «Potessi volare come voi!» pensò, pervaso da un’improvvisa tristezza. Cancellò anche quel desiderio inutile dalla sua mente e si concentrò nuovamente sull’estenuante impegno di nuotare.
Anche se la stanchezza cresceva in lui senza sosta, non si arrese e continuò il suo sforzo immane. Era da un bel pezzo che Ismail non si era girato più a controllare quanto si fosse avvicinato alla terraferma. Le palpebre erano ormai incollate e lo sguardo incapace di mettersi a fuoco.
Però sentì il rumore della risacca, che spingeva verso terra le onde divenute nel frattempo più alte e impetuose, e si rincuorò. Raccolse quel poco di forza residua che aveva dentro di sé e la concentrò nelle gambe e nelle braccia per un ultimo sforzo.
La risacca prese quel corpo esausto e lo trascinò velocemente. Ismail batté con forza il capo contro uno scoglio a cinquanta metri dalla riva. Svenne e annegò. Morì a pochi metri dal bagnasciuga che infine il suo cadavere raggiunse.
Gli isolani lo trovarono più tardi e non poterono fare altro che constatarne il decesso. Nessuno sapeva spiegarsi da dove fosse arrivato quell’unico, singolare migrante. Lo seppellirono nel cimitero, accanto a quegli altri che non ce l’avevano fatta, il suo corpo alla fine tornò nella terra a cui voleva unirsi.
Molti di quei tumuli erano senza nome, contrassegnati solo da una stele con la mezzaluna. Sulla sua tomba era scritto invece: Ismail Ghoulami, il nome inciso sul retro della medaglia d’argento che aveva avuto al collo e ora penzolava sulla pietra.

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