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La vertenza
27 Dicembre 2025 - 06:59
Un francobollo celebrativo, un annullo filatelico per i 125 anni di presenza in Italia, nuovi progetti industriali e investimenti annunciati. Sullo sfondo, però, 49 lettere di licenziamento recapitate a lavoratori della divisione Pharma. È il doppio binario su cui si muove oggi Bayer Italia, al centro di una riorganizzazione che, al di là delle comunicazioni ufficiali, appare sostanzialmente già compiuta nei suoi esiti occupazionali.
La procedura di licenziamento collettivo, avviata ai sensi della legge 223/1991, viene motivata dall’azienda con la chiusura della linea cardiovascolare e con la perdita di sostenibilità economica di alcune attività. In particolare, Bayer indica il ridimensionamento del fatturato legato al prodotto Xarelto, colpito dall’ingresso anticipato dei farmaci generici, come uno dei principali fattori di squilibrio. Nel solo 2025, secondo i dati aziendali, la perdita stimata supera i 100 milioni di euro, con ulteriori riduzioni previste anche nel 2026.
Numeri che, nella ricostruzione aziendale, renderebbero incompatibile il mantenimento dell’attuale struttura organizzativa e che hanno portato alla soppressione della linea cardiovascolare, con l’esubero di 45 informatori scientifici del farmaco e 4 addetti alle funzioni di supporto amministrativo e regolatorio. Tutti lavoratori con elevata anzianità aziendale, spesso con mutui in corso, carichi familiari e condizioni di monoreddito.
È proprio su questo punto che i comunicati delle RSU e delle organizzazioni sindacali introducono un elemento decisivo: i licenziamenti non colpiscono personale prossimo alla pensione, ma lavoratori nel pieno della vita professionale, difficilmente ricollocabili in tempi brevi in un mercato del lavoro sempre più selettivo per i profili altamente specializzati.
Ma il dato più rilevante, anche sul piano mediatico e sociale, è un altro. Dai documenti sindacali emerge come l’operazione di riduzione dell’organico non sia un evento improvviso, ma l’esito di un percorso già avviato. Negli anni precedenti, infatti, Bayer aveva già accompagnato circa 200 lavoratori all’esodo, attraverso piani incentivati che hanno progressivamente ridotto il perimetro occupazionale. I 49 licenziamenti attuali appaiono così come l’ultimo tassello di una strategia già delineata, più che l’effetto di una crisi contingente.
A rafforzare questa lettura contribuisce il comunicato RSU del 24 luglio, relativo al piano di incentivazione all’esodo nella divisione Consumer Health. Un piano che la RSU definisce unilaterale, non frutto di accordo sindacale, e che, in assenza di esuberi dichiarati, rischia comunque di tradursi in una ulteriore riduzione dei posti di lavoro, senza reali politiche di ricambio generazionale.
Il quadro si complica ulteriormente se si osservano le scelte parallele dell’azienda. Contemporaneamente ai licenziamenti, Bayer ha infatti attivato nuove assunzioni, in particolare tramite lavoro somministrato, e ha creato nuovi ruoli in altre aree terapeutiche. Una dinamica che, secondo i sindacati, aumenta la precarietà e comporta una perdita di competenze scientifiche consolidate, maturate in anni di relazione strutturata con il mondo medico.
Ed è qui che la vicenda supera il perimetro occupazionale per toccare un nodo più profondo. Ridurre la professionalità di chi dialoga quotidianamente con i medici significa incidere direttamente sulla qualità dell’informazione scientifica. Gli informatori scientifici del farmaco non sono semplici veicoli commerciali, ma figure che contribuiscono alla corretta conoscenza dei prodotti, al loro utilizzo appropriato e, di conseguenza, alla performance stessa dei farmaci. Un impoverimento di queste competenze rischia di tradursi in una platea di utilizzatori meno adeguata e in una minore efficacia complessiva delle terapie.
Sul piano sindacale, la procedura è entrata nella fase di confronto prevista dalla normativa, con incontri avviati presso Assolombarda. L’azienda ha escluso il ricorso ad ammortizzatori sociali o contratti di solidarietà, definendo la ristrutturazione irreversibile e strutturale. Restano invece ancora indefiniti strumenti condivisi di accompagnamento all’uscita, alimentando un clima di incertezza e tensione.
Nel comunicato RSU del 30 giugno, i rappresentanti dei lavoratori avevano già segnalato un contesto di riorganizzazioni continue, cambiamenti organizzativi e nuovi assetti interni che, pur accompagnati da buone performance aziendali, stavano producendo preoccupazione diffusa tra i dipendenti, soprattutto per l’assenza di una visione chiara sul futuro occupazionale.
Dopo 125 anni di storia, Bayer Italia si trova così al centro di una trasformazione che intreccia strategie globali, pressioni di mercato e scelte industriali. Una trasformazione che, però, non può essere letta solo attraverso i dati di fatturato o le celebrazioni, perché incide in modo diretto sulla vita di decine di lavoratori e sulla qualità di un settore – quello farmaceutico – che ha ricadute immediate sulla salute dei cittadini.
In questo intreccio tra numeri, competenze e responsabilità sociale d’impresa, i 49 licenziamenti non appaiono come un episodio isolato, ma come il segnale di un modello che solleva interrogativi profondi sul valore del lavoro, sulla tutela delle professionalità e sul rapporto tra efficienza economica e interesse collettivo.
Resta però una domanda che, al di là delle procedure e delle giustificazioni economiche, Bayer non può più eludere. Se l’operazione di riduzione dell’organico era di fatto già definita, se negli anni precedenti oltre 200 lavoratori sono stati accompagnati all’esodo e se oggi 49 famiglie si trovano a fare i conti con un futuro improvvisamente azzerato, quali saranno i prossimi passi dell’azienda?
Una domanda che pesa ancora di più perché questa riorganizzazione ha già avuto un impatto umano devastante: per molti dipendenti il Natale è arrivato con mesi di anticipo, ed è stato cancellato, insieme alla serenità economica e familiare. Bayer intende fermarsi qui o questa è solo un’ulteriore tappa di un ridimensionamento progressivo? Quali garanzie concrete possono avere oggi i lavoratori che restano, in un contesto segnato da assunzioni precarie, riorganizzazioni continue e competenze storiche che vengono disperse?
Sono interrogativi che non riguardano solo il destino occupazionale di una multinazionale, ma chiamano in causa la responsabilità sociale d’impresa, la qualità del lavoro e, in ultima analisi, il rapporto tra scelte industriali e tutela della salute pubblica.
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