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VIRGOLE GOLOSE

Gastronomia di Natale

La tavola, protagonista delle Feste. Riflettori puntati sulle vigilie

Pettole

A Taranto si entra nel periodo natalizio con Santa Cecilia, è il giorno anche delle saporite pettole

Il “clima” natalizio a Taranto incomincia in anticipo: liturgicamente, l’Avvento inizia ai vespri dell’ultima domenica di novembre, ma nella città bimare si entra nel periodo natalizio (il più lungo del mondo, dice qualcuno con un po’ di gusto dell’esagerazione) con Santa Cecilia, il 22 novembre, all’insegna di una sinestesia che coinvolge tutti i cinque sensi, fra le pastorali suonate in piena notte dalle bande in giro per la città (memoria sonora dei tempi in fondo nemmeno tanto remoti della transumanza, quando con le greggi passavano in città pastori e zampognari), gli addobbi luminosi più o meno sobri o kitsch, l’intensissimo odore di olio fritto ed il piacere tattile di arpionare con le mani, facendo attenzione a non scottarsi, le saporite pettole calde di padella... Sono semplicissime frittelle di pasta lievitata, dolci, salate o con ripieni, che si consumano anche per il resto del periodo natalizio, e sono comuni a molte aree meridionali; quelle dolci possono essere spolverate di zucchero o intinte nel vincotto (che poi è un mosto cotto, dolcificante di antica tradizione ereditato dai Greci e dai Romani, in Puglia sostituito anche da un cosiddetto “cotto di fichi”, meno pregiato) Interessanti anche le versioni salate, semplici o con ripieni di magro (cavolfiore, baccalà, acciughe), tipiche dei venerdì e delle vigilie. E a proposito di “magro”: sostanzialmente, con due grandi eccezioni (il pranzo di Natale ed il cenone di Capodanno) la gastronomia del periodo natalizio è una gastronomia di magro. Eredità di tradizioni alimentari che il mondo cristiano, anche se non conosce tabù alimentari in senso stretto, a differenza dell’Ebraismo, dell’Islam, dell’Induismo e di altre religioni meno praticate in Europa e nel bacino mediterraneo, adottò molto presto, codificando per alcuni giorni e periodi dell’anno (il venerdì, le vigilie e la Quaresima; per un certo periodo anche il mercoledì) un regime dietetico penitenziale, “di magro”, come si diceva, che nel Medio Evo arrivò a riguardare un terzo dei giorni dell’anno. Ma che provocò anche, esempio classico di eterogenesi dei fini, la nascita di una grande cucina di pesce, più sontuosa e ricca di quella a base di carne. L’astensione dai cibi di origine animale, anche se praticamente nessuno la osserva più il venerdì, e neppure in Quaresima, è rimasta come  tradizione (non obbligo) di mangiare “di magro” nella vigilia delle grandi festività religiose. Come il Natale. “Di magro” ma non penitenziale, anche se l’usanza delle vigilie prevede di saltare il pasto di mezzodì. La vigilia di Natale a cena si usa anche in Puglia consumare il capitone, che poi è l’anguilla femmina di grandi dimensioni, e il baccalà. Non mancano, specie a Taranto, cozze ed altri frutti di mare, crudi e cotti; e poi spazio al pesce ed ai vegetali. Si chiude con frutta secca (considerata apportatrice di ricchezza) e mandarini (spesso oggi soppiantati dalle clementine), che sono da novembre al top. “Di magro” ma non penitenziale, dicevamo: e difatti non mancano i dolci della tradizione: le cartellate al miele o al vincotto, i sannacchiudere o, ormai meno diffusi (più elaborati, ed anche più costosi) ma sempre tradizionali, i calzoncelli, piccoli calzoni la cui sfoglia è fatta con lo stesso impasto delle cartellate e che sono ripieni di pasta di mandorle o cotognata o varie confetture o composte di frutta amalgamate con gherigli di noce; vengono fritti o cotti in forno e ripassati nel vincotto. E non mancano i croccanti di mandorle: “torroni” artigianali, spesso di fattura casalinga, a base di mandorle legate con zucchero. Va da sé che ormai ai dolci della tradizione si aggiungono panettone e pandoro, da decenni non più appannaggio di milanesi (e lombardi) e veronesi.  Nel pranzo di Natale trionfano invece, come vedremo, le carni e la cucina di grasso (brodi di carne inclusi, con i tortellini in brodo che insidiano ormai le orecchiette al ragù quanto a popolarità).

Le cartellate

Ogni famiglia ha la “sua” ricetta per le cartellate. Questa è quella di mia madre (ereditata da nonna Isa, massafrese). Le preparava in quantità industriali, ed ha continuato a farlo fino al suo penutlimo Natale. Non so se l’aggiunta di spremuta d’arancia sia massafrese o sia della nonna (il nonno, agricoltore, produceva tra l’altro buonissime arance, oltre a mandarini, olive e vino). La riporto come l’aveva appuntata mia sorella Rosanna. 1 Kg di farina; 200 g d’olio extravergine d’oliva; il succo di 3 arance; 4 cucchiai di zucchero; ½ cucchiaino di sale; vino bianco a temperatura ambiente q.b. Impastare il tutto sulla spianatoia fino ad ottenere una palla di pasta abbastanza elastica. Tirare la sfoglia molto sottile e tagliare con la rondella dentellata lunghe strisce. Arrotolarle fino a formare delle rosette a spirale. Friggere in abbondante olio d’oliva extravergine, scolare e far asciugare bene su carta da cucina. Farle riposare e ripassarle nel miele fluido bollente o, meglio ancora, nel vincotto bollente. Spolverare di cannella. Rispetto alla nonna, mamma aggiungeva nell’impasto un bicchierino del suo forte rosolio di limone. Arancia e limoncello aggiungevano una leggera e piacevole sfumatura agrumata. Nella mia famiglia si è sempre adoperato il “vero” vincotto: mosto d’uva concentrato per ebollizione.

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