Cosa hanno in comune la crisi economica del 2008, la pandemia da Covid del 2019 e la guerra in ucraina del 2022? Sicuramente il fatto di essere tre fenomeni non ancora esauriti, ma soprattutto di essere il tripode su cui si poggia la cosiddetta finedella globalizzazione. A memoria dei lettori più giovani andrebbe descrittacosa è stata la globalizzazione iniziata attorno agli anni ottanta del secolo scorso, che ha prodotto, attraverso la fittarete di interdipendenze tra le nazioni e i continenti il mutamento della società in cui abbiamo vissuto. Un mondo interconesso, con beni tecnologici o di consumo, chefinalmente a buon mercato, ci hanno fatto assaporare la ricchezza di essere possessori, oltre che utilizzatori, di smartphone, TV, elettrodomestici, automobili, motociclette e computer. Un mondo ad uso e consumo di croceristi, diportisti, turisti, studenti, manager d’ azienda come anche sportivi e pensionati, dove i poveri globali sono diminuiti ( si calcola che in India e Cina vi siano un miliardo di persone liberate dalla povertà estrema), per quanto però, siano anche aumentate le diseguaglianze sociali soprattutto nei paesi occidentali. Una società fluida e dalle grandi possibilità,contrassegnata dalla circolazione di tanti beni di consumo, ma anche gravata da cortocircuiti importanti come la delocalizzazione delle imprese, che di fatto allungando le filiere della produzione le ha rese troppo fragili e incapaci di reagire alle improvvise modificazioni del mercato, come nel caso della pandemia e oggi della guerra. Sappiamo oggi con certezza che questo periodo di mondializzazione è terminato. Il recente conflitto oltre a provocare un aumento dei costi energetici, che si traduce in un aumento dei costi di produzione, si affianca anche alla penuria dei metalli preziosi, come il palladio per esempio, essenziale per le marmitte catalitiche e di cui la Russia è il principale produttore mentre ipaesi industrializzati ne sono attivi acquirenti. Sempre il conflitto russo-ucraino, per mezzodella crisi dei cereali, sta già colpendo la società africana aumentandone l’ instabilità politica, economica e sociale, anche perchè il continente neroè fortemente dipendente da quanto prodotto dall’ Ucraina e dalla Russia. Sullo scenario mondiale pesa anche la nuova divisione in blocchi politico militari, con i paesi europei e gli USAda un lato ela Cina e la Russia, ma aggiungerei anche l’ India dall’ altro. Questi cambiamenti stanno accentuando un fenomeno, già iniziato nel 2020 e poi continuato nel 2021 in piena pandemia, ossia il reshoring, cioè il rientro in sede delle imprese che avevano delocalizzato le loro produzioni. Per quanto riguarda l’ Italia, irisultati di un’indagine condotta dal centro studidi Confindustria tra le aziende che avevano acquistato parzialmente o totalmente forniture all’estero, ci dice che il 23% ha realizzato il rimpatrio delle proprie forniture negli ultimi anni. E il 10% ha scelto di riconfigurarla completamente in Italia. Una scelta diffusa in diversi settori, compreso quello dei macchinari e delle loro riparazioni, che pure in precedenza aveva fatto fortissimo ricorso alla delocalizzazione. Per esempio l’ industria Bianchi a Treviglio, storico produttore di biciclette,ha deciso di riportare la produzione in Italia nel 2021 dopo un lungo periodo di delocalizzazione. Ma anche colossi della moda come Ferragamo, Tod’s e Prada hanno deciso di far le valigie e tornare a produrre in Italia, accompagnate anche da altre realtà industriali quali Asdomar, Artsana, Beghelli, Vimec, Diadora, Safilo, Zegna eGeox. Da segnalare il caso dell’ industria di lavatrici Candy, in cui la proprietà cinese Haier ha scelto di riportare in Italia la produzione, delocalizzata in Cina dai precedenti titolari. Questo fenomeno apre a considerazioni importanti e a opportunità che il territorio jonico deve saper cogliere. In tal sensova riportato che il fenomeno del reshoring ha già interessato la provincia di Bari dove Natuzzi ma anche OVS e Pirelli hanno deciso di stabilire alcune produzioni, sfruttando le leggi regionali esistenti , gli sgravi fiscali e gli incentivi oltre che i buoni contatti con gli enti locali. Taranto, già compresa nella ZES jonica e interessata da un completo rinnovamento del suo tessuto infrastrutturale, saggiamente portato avanti dall’ amministrazione Melucci,è dotata di ungrande porto ( ancora per lo più movimentato dall’ ex Ilva), ma anche di un aeroporto praticamente inutilizzato e può candidarsi ad essere il volano di questo processo di rientro delle imprese che, preme ricordare, hanno necessità di un retroterra logistico considerevole proprio come lo è il nostro. Tuttavia occorrerà muoversi molto rapidamente, anche per evitare che i competitor balcanici o iberici intercettino questi corridoi commerciali di rientro,estromettendoci da questa grande opportunità di crescita.Alessandro De Stefano *segretarioPartito Repubblicano Italiano -Taranto
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