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Dal regionalismo siciliano al macroregionalismo europeo

Una veduta di Palermo

Una veduta di Palermo

Non c’é dubbio che tra le istituzioni territoriali che, secondo l’art. 114 della Costituzione, formano la Repubblica quelle che negli ultimi tempi hanno fatto discutere di più sono le Regioni. Di Regioni nel nostro Paese se ne dibatte, infatti, fin dai tempi dell’unificazione dell’Italia, come alternativa sia al modello di ‘Stato accentrato’ che al modello di ‘Stato federale’. Come è noto, però, con il prevalere della Destra storica il Paese fu indirizzato verso la forma di stato accentrato sul modello ‘napoleonico’ francese. Ne conseguì che, per quasi mezzo secolo, di regionalismo in Italia non si parlò quasi più. Tranne, naturalmente, in ristretti circoli culturali che con i loro dibattiti ne mantenevano viva la memoria. Fu con l’avvento sul proscenio della politica nazionale di don Luigi Sturzo che il tema delle Regioni ritornò ad interessare l’opinione pubblica fino al punto di far dichiarare al sacerdote di Caltagirone che il Partito Popolare che egli stesso aveva fondato nel 1919 era nato proprio per trasformare lo Stato italiano accentrato in uno Stato regionale. Da allora, la prospettiva regionale fu all’odg dell’agenda politica del Paese: prima, per essere ferocemente combattuta dal fascismo e, poi, per essere adottata e realizzata dalla democrazia introdotta a seguito della lotta di liberazione nazionale. In questa storia regionalista, all’inizio, ci fu la Sicilia. Che consapevole della propria identità e dell’autonomia goduta nei secoli per autogovernarsi, all’indomani dello sbarco degli Americani a Gela, il 9 luglio 1943, insorse con un moto popolare per rivendicare l’indipendenza dallo Stato italiano e l’autodeterminazione dei propri Popoli. Il risultato fu: la concessione il 15 maggio 1946, con Regio Decreto Legislativo n. 455, dello Statuto che ne riconosceva l’identità regionale e ne sanciva l’autonomia di governo all’interno della “nuova Costituzione dello Stato” con la quale il primo avrebbe dovuto essere coordinato. Successivamente, l’approvazione della Costituzione Repubblicana, entrata in vigore il 1° gennaio 1948, disegna una inedita “forma di Stato” che non consiste più in un unico ed accentrato soggetto di governo: lo Stato, appunto, ma come dice l’art. 114 la Repubblica che, oltre che nello Stato, è organizzata in Comuni, Province e Regioni. Queste ultime costituiscono 20 enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione medesima. Nello specifico, 5 di esse (la Sicilia, la Sardegna, il Friuli Venezia Giulia, il Trentino/Alto Adige e la Valle D’Aosta) disponendo di forme e condizioni particolari di autonomia, secondo i rispettivi statuti speciali adottati con legge costituzionale. Mentre le altre 15 Regioni, a statuto ordinario, invece, essendo organizzate ed esercitando le funzioni secondo quanto stabilisce il titolo V° della Costituzione. Insomma, una vera e propria ‘rivoluzione’ che purtroppo, però, fu costretta a segnare il passo (tranne per le Regioni a statuto speciale) per ben 22 anni. Fin quando, cioè, il 7 giugno 1970 si tennero le elezioni dei consigli regionali. Con l’insediamento degli organi politici e l’organizzazione dell’apparato amministrativo, finalmente, le Regioni ordinarie si affiancarono a quelle speciali e cominciarono a funzionare rendendo completo l’ordinamento regionale della nostra Repubblica. Dopo un inizio indubbiamente pieno di fervore innovativo e voglia di cimentarsi con gli importanti problemi della grande legislazione del Paese, però, anche a causa della pervicace volontà dello Stato di mantenere intatte le sue prerogative di indirizzo politico e di comando regolativo della società, l’assestamento istituzionale delle Regioni si indirizzò verso una configurazione più da ente di amministrazione e gestione (delle decisioni assunte dallo Stato) che da soggetto di indirizzo politico e programmazione. Mancando così completamente di esercitare quella spinta innovativa non solo dell’apparato dei pubblici poteri ma anche della società civile che era stata alla base prima del loro riconoscimento in Costituzione e poi della loro concreta attuazione nell’ordinamento italiano. Fortunatamente, a questa situazione sempre più inadeguata e deludente, reagì prima la cultura politico-istituzionale e poi la stessa politica, riscoprendo negli anni ‘90 del secolo scorso il principio di sussidiarietà che, ribaltando la logica di attribuzione e distribuzione del potere, sottolineava che quello amministrativo potesse essere esercitato dalle Regioni soltanto qualora le Istituzioni locali (Comuni, Province, Città metropolitane) non si fossero dimostrate adeguate. Fu la spinta per riprendere il cammino innovativo dell’organizzazione dei pubblici poteri nel nostro Paese che si concretizzò nella famosa riforma del Titolo V° della Costituzione operata con la legge costituzionale n. 3 del 2001 e nella modifica dei vari Statuti speciali. Con questi interventi le Regioni (assieme agli altri Enti locali) ritornarono al centro del sistema ma, come vedremo subito, facendo registrare un altro clamoroso flop. Ancora una volta, però, per responsabilità anche dello Stato e della politica nazionale che, approfittando di alcune incongruenze della stessa riforma costituzionale del Titolo V°, cominciarono subito a remare contro, riproponendo (con la l. 131/2003) un modello di governance accentrato, limitativo dei poteri legislativi delle Regioni, e soprattutto, dimentico dell’autonomia finanziaria, affidata ad una legge di delegazione (n. 42 del 2009) rimasta per buona parte inattuata. Questo indirizzo sfociava inoltre in due tentativi di nuova riforma costituzionale sostenuti con forza e decisione da due maggioranze opposte che, però, fortunatamente venivano entrambi respinti dalla saggezza del Corpo elettorale con i referenda del 2006 e del 2016. Le vicende ora ricordate scuotevano finalmente la politica regionale ed in particolare le Regioni del Veneto, della Lombardia e dell’Emilia Romagna che, facendo riferimento alla dimenticata norma del terzo comma dell’art. 116 della Costituzione che prevede la possibilità di attribuire alle Regioni “ulteriori forme e condizioni particolati di autonomia” in svariate materie elencate nel secondo e terzo comma dell’art. 117 Cost., avviavano, sentiti i loro enti locali, la procedura per questo maggiore riconoscimento di poteri con legge dello Stato. Solo che l’iniziativa: un pò per le incertezze procedurali palesate dal Governo nazionale e molto per l’impostazione sbagliata impressa alle richieste dalle Regioni che, inizialmente, ne avrebbero voluto fare (il Veneto e la Lombardia, in particolare) uno strumento per negare il di più di gettito finanziario che versavano alle casse dello Stato a motivo di una tassazione proporzionale al loro reddito interno, ha sollevato una vera e propria rivolta da parte di moltissime altre Regioni, in specie, quelle del Mezzogiorno che hanno visto in questa azione delle Regioni del Centro-Nord una mancanza di solidarietà nei loro confronti ed una volontà di chiusura alle necessità di rinascita del Sud e con essa dell’intero Paese. In definitiva, un boomerang che si è abbattuto sullo stesso Movimento regionalista che, poi, dall’azione di contrasto alla pandemia del Covid 19 e dal decisionismo indiscutibile dei Governi che si sono succeduti dal suo manifestarsi, è stato ampiamente ridimensionato ed oggi sembra placato accontentandosi della semplice partecipazione alla Cabina di Regìa e all’attuazione delle missioni e dei progetti stabiliti dal Piano Nazionale di Resilienza e Ripresa (PNRR). Purtroppo, però, senza abbandonare mai, da parte delle Regioni del Centro-Nord, il proposito di negoziare con lo Stato una “autonomia differenziata”. Ignorando, invece, che ciò che necessita è una nuova concezione del Regionalismo! Che non può incentrarsi esclusivamente e, neppure, prioritariamente sul profilo dei poteri di governance ma deve concernere innanzi tutto gli altri due ‘elementi’ fondamentali delle istituzioni regionali e cioè l’organizzazione dei territori e la condizione delle comunità che li abitano. Come dimostra anche la normazione europea con il suo sostegno alle strategie macroregionali, infatti, il regionalismo storico ha ormai esaurito la sua iniziale spinta innovativa dell’organizzazione dello Stato e una sua nuova fase propulsiva non può che essere data da Macroregioni funzionali poiché gli attuali perimetri amministrativi delle Regioni non consentono di risolvere alcun problema e, soprattutto, di gestire al meglio i servizi pubblici a favore della cittadinanza. In poche parole, perché le attuali istituzioni regionali sono troppe ed è necessario un intervento per accorparle in entità più adeguate alle funzioni che sono chiamate a svolgere. In sostanza, è assolutamente necessaria una correzione delle delimitazioni territoriali definite dall’art. 131 Cost. perché le loro perimetrazioni sono errate sia sotto il profilo storico-geografico che cultural-funzionale. E ciò al fine di realizzare un’articolazione repubblicana che tenga conto anche dell’ormai irrinunciabile proiezione di queste Macroregioni nella dinamica europea. E qui voglio finire con un riferimento alla mia Sicilia, che di tutta questa storia ‘regionalista’, è stata per un certo tempo protagonista mentre oggi sembra semplice spettatrice. Basti ricordare che in più di settantacinque anni dall’ottenimento dello Statuto di autonomia, la classe politica siciliana non ha mai provveduto ad aggiornarlo, a modernizzarlo ritrovandosi oggi con uno strumento giuridico quasi del tutto superato per confrontarsi e collegarsi alle altre Regioni ed allo stesso Stato (oltre, evidentemente, all’Unione Europea). Come si può dunque dedurre: quasi un abbandono! Un marcato disinteresse per i valori più importanti che costituiscono l’identità del Popolo siciliano da cui poi sono derivate le politiche sbagliate che hanno determinato la disoccupazione dilagante, i ritardi nei processi di sviluppo ormai intollerabili, la falcidia dei nostri redditi (che non arrivano né meno alla metà di quelli dei cittadini delle Regioni del Nord), la fuga dei nostri giovani ed, in ultimo, la mancanza di speranza che spesso si percepisce nella nostra gente. Una situazione dalla quale, però, è ormai arrivato il momento di venirne fuori!
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