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Italia mediterranea

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Italia Mediterranea: la nuova visione dell’Europa capovolta

“I l mare nostrum è mille cose in una sola: non è un paesaggio, ma infiniti paesaggi; non è un mare, ma un susseguirsi di mari; non è una civiltà ma civiltà accatastatesi l’una sull’altra”. Il brand del Mediterraneo, in termini di caratteristiche geografiche e geoeconomiche è racchiuso in questa definizione dello storico Fernand Braudel: solo l’1% della superficie dei mari del mondo, accoglie (con i Paesi che fanno parte dell’area geografica allargata il 15,6% della popolazione mondiale e il 14,5% del Prodotto Interno Lordo mondiale. Queste specificità, sono legate proprio a questa sommatoria di attrazioni, a questa sommatoria di potenzialità. Il Mediterraneo è ormai mare interno all’Europa, ai suoi interessi, al suo sviluppo. L’intreccio dell’Europa con il destino dei Paesi Mediterranei, arabi ed africani è imprescindibile. Le interdipendenze legate alla lotta al terrorismo, al governo delle migrazioni, al superamento delle crisi politiche e militari, economiche ed umanitarie, ma soprattutto di civiltà, tracciano la strada della convivenza come unico percorso possibile. Il destino della Unione Europea passa attraverso la rigenerazione delle sue finalità e delle sue politiche. Non basta affermare la continuità e difendere il presente. Nello scontro fra unionisti e sovranisti, la parola di confine è l’utilità dell’Unione Europea rispetto al benessere dei popoli. Gli unionisti la ribadiscono nell’assetto attuale. I sovranisti la negano affermando il primato dello stato nazionale. Le elezioni europee del 2024 affronteranno un tema generale, l’Europa, attraverso la concreta dimensione degli interessi nazionali. Saranno elezioni vere perché direttamente incardinate nella coscienza in formazione nel conflitto in atto, nel quale le questioni interne ai singoli Paesi, di potere ed economiche, ma anche identitarie e sociali, si intrecciano sinergicamente con le evoluzioni del sistema comunitario, le sue difficoltà, problemi, conflitti, interessi contrapposti, debolezze politiche. L’Europa, sta pagando la mancanza di sue strategie autonome compatibili con la crisi politica ed economica e con la globalizzazione della sopravvivenza che stiamo vivendo. Ma soprattutto la mancanza di un progetto europeo di sviluppo, di rifondazione istituzionale e territoriale, monetario e militare, con lo scopo di completare, o almeno portare molto avanti, il progetto politico comunitario. A questo bisogna rispondere con un forte messaggio politico che si identifichi in azioni visibili e capaci di muovere le coscienze. Queste elezioni non dovranno essere affrontate sulla difensiva, ma giocando d’attacco, sulla rigenerazione del progetto europeo, sulla crescita, sul lavoro. Si deve comprendere la debolezza degli appelli generali e generici; si deve puntare su proposte definite ed impegni concreti sui quali raccogliere il consenso e le alleanze. Il Mediterraneo è un mare interno all’Europa e fa parte integralmente delle sue strategie. Nel Mediterraneo l’Italia è gran parte dell’Unione Europea. Da questo si deve partire per spiegare ai cittadini italiani, in primo luogo, cosa è l’Italia Mediterranea. Farlo capire, con forza, ai concittadini europei. L’Europa politicamente unita e riformata è il nuovo soggetto politico Euro Mediterraneo fondato su città e territori e con la mediazione leggera degli Stati nazionali. Il Mezzogiorno è l’Italia Mediterranea; ha tutte le caratteristiche per essere quel riferimento identitario forte ed aperto verso l’esterno. La nuova unificazione e coesione del Paese, nell’alleanza di blocco occidentale, è la ricostruzione di un’Italia fondata sul civismo federativo, pragmatico, insieme con un assetto istituzionale adatto alle funzioni globali e locali del terzo millennio. Ma ciascuno di questi grandi temi di riforma, si intreccia con le vicende politiche ed istituzionali delle crisi in corso; con le adesioni valoriali necessarie; con il conflitto degli interessi; con le trasformazioni dell’economia; con le scelte strategiche inevitabili. Nel Mezzogiorno la riforma della politica si realizza partendo dal territorio, dagli interessi della comunità, dalla coscienza delle persone. Il territorio non è soltanto uno spazio fisico, esso è una risorsa economica, una opportunità politica. Ma soprattutto assume identità come un insieme di caratteristiche ambientali, storiche, linguistiche, quasi di tonalità, che lo fanno sentire inconfondibile. Il nostro futuro è legato al futuro del nostro territorio dove crescita economica, sviluppo delle risorse esistenti e nuove iniziative imprenditoriali e culturali significano maggiore benessere per i cittadini, fine delle disuguaglianze, recupero delle troppe energie materiali e morali lasciate ai margini della vita sociale e politica. La costruzione di una società più giusta e solidale è garanzia di libertà e di diritti per tutti, nella piena consapevolezza che la vita del territorio sta nella cura costante della sua natura, dei suoi beni, della sua capacità produttiva. Riprendersi il proprio territorio significa riprendersi la propria vita, ritrovare slancio esistenziale e identità di cittadini, nella consapevolezza che è necessario aprire un dialogo virtuoso oltre i confini del Comune di appartenenza e di tessere una rete solidale con gli altri vicini, ma anche distanti chilometri e chilometri l’uno dall’altro al Sud, nelle Isole, al Centro, al Nord. Come ai tempi lontani delle società di mutuo soccorso con le quali è iniziato nei secoli passati il processo di integrazione di un popolo nella nazione, è possibile tessere di nuovo la tela di una piena e condivisa partecipazione alla vita nazionale, a partire da chi siamo, in quali contesti operiamo e in quali valori ci riconosciamo. Oggi di fronte alla crisi della politica e dei partiti che sembrano ormai incapaci di ascoltare i cittadini, di aprire un confronto e insieme a loro progettare risposte, si deve ritrovare la strada per connettersi individualmente e collettivamente con la società dove troppi sono gli esclusi, gli indifferenti, i sfiduciati. I loro umori antipolitici sono stati e sono ancora il terreno privilegiato per i predicatori del populismo e dell’antipolitica che esorcizzano con una pioggia di no le emergenze del riscaldamento globale, della siccità, delle pandemie, delle guerre, della carenza energetica, dell’inflazione, delle povertà, delle diseguaglianze, come se bastasse la negazione per farle scomparire dal nostro orizzonte quotidiano. Noi crediamo nei diritti e nelle libertà, ma crediamo anche nei doveri del cittadino che solo con un faticoso e costante impegno costruisce il suo destino, quello dei suoi concittadini e dei territori in cui vive.

La sicurezza strategica del Mediterraneo “Fianco Sud” dell’Alleanza Atlantica e dell’UE

Abbiamo pensato a una pace comoda e infinita. Purtroppo non è così. Se nell’era della globalizzazione spinta è sembrato che tutto ruotasse intorno all’economia, alle convenienze degli scambi e delle produzioni nei paesi più competitivi, alle specializzazioni guidate dai vantaggi naturali e comparati, prescindendo da ogni altra questione, l’era che ci sta dinanzi sarà probabilmente un’era dominata dalle esigenze di sicurezza e strategiche. L’Italia, che si protende al centro del Mediterraneo con circa 8.000 km di coste, è da sempre legata al mare per molteplici aspetti economici e di sicurezza. Il mar Mediterraneo, rappresenta l’1% dei mari del mondo, è tuttavia attraversato dal 20% del traffico marittimo mondiale. La nostra Penisola è un ponte gettato verso l’Africa, ma anche una posizione dalla quale si controllano i passaggi tra i due bacini principali del Mediterraneo. Lo Stretto di Sicilia è lo snodo delle principali rotte marittime che connettono le due aree oceaniche orientali e occidentali: ciò ne fa un choke point, un punto di passaggio obbligato, dall’elevato valore strategico. I mari e il posizionamento strategico intorno ad essi hanno ridisegnato i rapporti tra le superpotenze mondiali, che si sono ritagliate la propria collocazione in questo nuovo ordine globale. L’Italia, con la sua economia di trasformazione, che importa materie prime e semilavorati per esportare prodotti finiti, è fortemente dipendente dai trasporti e dai traffici marittimi. Il Mediterraneo Allargato, su cui convergono anche le attenzioni delle grandi potenze globali, di altri attori emergenti ma anche di soggetti non statuali transnazionali con sufficiente peso geopolitico, è il principale teatro in cui le nostre Forze Armate sono chiamate, a tutela degli interessi nazionali, a proiettarsi e condurre, in varie forme e modalità sulla base delle decisioni del Parlamento, attività di cooperazione bilaterale o multilaterale, anche nell’ambito di missioni ed operazioni di stabilizzazione e di pacificazione sviluppate in sinergia con l’Alleanza Atlantica, partner ed Organizzazioni Internazionali. La regione Mediterranea costituisce il “Fianco Sud” sia dell’Alleanza Atlantica che dell’Unione Europea, è pertanto fondamentale per il nostro Paese riuscire efficacemente ad ottenere che il Mediterraneo Allargato trovi la desiderata giusta attenzione negli orientamenti strategici in divenire delle due Organizzazioni Internazionali: il nuovo Concetto Strategico della NATO e la Strategic Compass dell’Unione. L’Italia importa la quasi totalità del fabbisogno di combustibili fossili. Questa situazione, pur in previsione di una progressiva transizione verso fonti rinnovabili, determina la necessità di una riflessione in merito alla sicurezza e stabilità dei Paesi fornitori, delle aree di transito dei gasdotti-oleodotti, nonché delle vie di comunicazione, soprattutto marittime. Infatti il petrolio, così come il gas, arriva quasi interamente con petroliere e gasiere dal Golfo Persico, dai due versanti oceanici africani, dal Mediterraneo orientale e dal mar Nero attraverso i passaggi nevralgici di Suez, Hormuz e Bab El Mandeb, snodo ad alto rischio ed epicentro di insicurezza e conflitti. Episodi come quello dell’incagliamento della nave portacontainer Ever Given nel Canale di Suez ne hanno mostrato con chiarezza la vulnerabilità e le conseguenze critiche sull’intero sistema di logistica e approvvigionamenti mondiale. Una rilevanza sempre più centrale per l’attuale conformazione economica, finanziaria e sociale, le dorsali di comunicazione subacquee che giacendo sui fondali del Mediterraneo connettono l’Europa all’Asia ed all’Africa. Nell’area mediterranea, nella sua dimensione allargata, in un contesto caratterizzato da continui e rilevanti mutamenti e da perduranti crisi, insistono i principali interessi nazionali, che vanno difesi, in profondità così come nelle acque internazionali più prossime. Per questo motivo lo Stretto di Sicilia è punto di connessione con Paesi che, ancorché afflitti da precarietà istituzionale, sono irrinunciabili terminali di dialogo e cooperazione a complemento della nostra vocazione atlantista e di integrazione europeista. Mentre l’Europa, nel quadro del Patto Atlantico, sta facendo di tutto per sganciarsi gradualmente ma definitivamente dalla Russia e con uno sguardo sempre attento alla propria dipendenza dalla Cina, l’Africa rimane terreno di scontro e competizione energetica, tecnologica e politica tra la visione europea e quella sino-russa. La crisi del grano, risultato dell’attuale invasione russa dell’Ucraina, sta rappresentando una seria minaccia per la stabilità sociale ed economica del continente africano. Un tema chiave che con la guerra russa in Ucraina rischia di rimanere in penombra è quello della cooperazione UE-Africa, che vede proprio nel Mediterraneo un luogo chiave della propria implementazione e successo o insuccesso. L’Italia mediterranea è la proposta alternativa che viene avanzata nel culmine delle tensioni e delle contrapposizioni. Impegnarsi per costruire le condizioni che interrompano il processo di sradicamento rappresentato dalle migrazioni in corso ed avviare quel “rimbalzo di sviluppo” che deve coinvolgere altri Paesi europei del Mediterraneo ed i Paesi della sponda araba ed africana. E’ il rovesciamento della politica colonialista vecchia e nuova. Non si va in quei Paesi per sfruttare le materie prime ed il basso costo del lavoro, ma per favorire la produzione di ricchezza nel territorio, ottenute con le risorse umane, con l’organizzazione e lo sviluppo, con la solidarietà e la formazione, con il trasferimento delle tecnologie. Parallelamente a una strategia marittima che abbia carattere di continuità è anche indispensabile garantire che le forze armate, Marina Militare e Aereonautica abbiano gli strumenti più moderni per poter efficacemente tutelare gli interessi nazionali sul mare, assicurando un significativo ritorno di immagine internazionale e contribuendo ad accrescere il prestigio del paese. Una forma di relazione con l’estero che non ha perso la sua tradizionale importanza, anche grazie a quanto messo a disposizione dal progresso tecnologico. Senza una credibile deterrenza contro minacce di qualunque tipo, senza poter assicurare il rispetto del Diritto internazionale, senza l’agibilità delle rotte percorse dal nostro traffico marittimo commerciale, senza i collegamenti telefonici o internet (garantiti dalle linee subacquee), senza la continuità nell’approvvigionamento energetico (condotte subacquee), il nostro sistema economico si blocca. Un approccio geopolitico cieco che preferisce esaltare i 1.200 km delle Alpi piuttosto che valorizzare i circa 8.000 km delle nostre coste, dimenticando che il mare ha avuto un ruolo fondamentale e insostituibile nella crescita della nostra plurimillenaria storia e progresso. L’Italia, essendo una media potenza regionale con interessi globali, non può permettersi di sottovalutare le implicazioni geopolitiche dell’attuale situazione, estremamente fluida e frammentata, caratterizzata da una minaccia latente, multiforme, asimmetrica e da diffuso disequilibrio e insicurezza, da una crescente competizione e da sempre più numerose tensioni di bassissima intensità, ma di elevato potere invalidante. In particolare, ai fini della sicurezza marittima, sono rilevanti le peculiarità della Marina, non solo in relazione alla multidimensionalità di operare sul mare, ma soprattutto dalla capacità di operare normalmente in proiezione (expeditionary) e in permanenza sul mare (sea based). In tale quadro, oggi più che mai diventa di assoluta importanza garantire la protezione del complesso sistema produttivo e di trasporto marittimo, delle linee di comunicazione marittima, degli oleodotti e gasdotti sottomarini, dei cavi per telecomunicazioni, dei porti, interporti, delle navi e delle piattaforme petrolifere. Sfide che devono diventare prioritarie per la nostra politica, al fine di permettere la continuità dei necessari rifornimenti, indispensabili per un armonioso sviluppo del paese, e senza i quali verrebbero penalizzate la produzione industriale, la ripresa, il nostro prestigio internazionale e il benessere sociale.  

Riforma del regionalismo e del sistema delle autonomie locali Garanzia e rispetto del principio perequativo e solidaristico

L’art. 116, terzo comma, della Costituzione ha introdotto la c.d. “autonomia differenziata” delle Regioni. Il governo della destra si appresta ad assestare al Mezzogiorno il colpo finale, che ne determinerà la perpetua impossibilità di un civile sviluppo per colmare il divario che lo divide dal resto del Paese e dall’Europa. Una strategia antimeridionalista, elaborata e seguita dai ministri leghisti, si svilupperà in tre mosse: 1) - attuare l’Autonomia differenziata, che per le competenze maggiorate attribuite alle Regioni in settori strategici (con il conseguente trasferimento delle risorse anch’esse maggiorate), metterà in serio pericolo la sostanza dell’Unità d’Italia; 2) - affidare la ricognizione della spesa storica nell’ultimo triennio e la definizione dei Lep (livelli essenziali delle prestazioni) ad una Cabina di Regia presieduta dal Presidente del Consiglio e composta dal Ministro delle Regioni, insieme ad altri ministri competenti per materia, e dai presidenti della conferenza Stato Regioni, dell’UPI e dell’ANCI. Il Presidente del Consiglio può delegare il Ministro delle Regioni a presiedere ai lavori della Cabina di Regia. Le operazioni di ricognizione delle materie attribuite alle Regioni e della conseguente spesa storica nel triennio debbono essere concluse entro 180 giorni dall’entrata in vigore della Legge di Bilancio, mentre nei successivi 180 giorni e, dunque entro un anno, la Cabina di Regia deve determinare i Lep, che hanno lo scopo del “pieno superamento dei divari territoriali nel godimento delle prestazioni” (art. 143); 3) - destinare le risorse non spese entro l’anno del PNRR alle emergenze energetiche ed inflattive, con grave pregiudizio per il Mezzogiorno, dove, peraltro, alle endemiche difficoltà operative si aggiunge la permissività governativa nel consentire interventi che nulla hanno di straordinario, nonostante goffi tentativi di mascheramento. A riguardo del PNRR, giova ricordare che, nella distribuzione delle risorse, avranno un peso anche i Lep, perché così è previsto nella manovra, depotenziando, in tal modo, l’intervento ordinario dello Stato, necessario per mantenere nel tempo i livelli stabiliti per i Lep stessi. I Lep, dovranno essere definiti entro un anno e, per come si diceva, scandalosamente, c’è la chiara intenzione del Governo di ancorarsi alla spesa storica degli ultimi tre anni, che renderebbe eterni i ritardi del Mezzogiorno nei servizi e nel sociale. I Lep, infatti, debbono assicurare livelli essenziali di esercizio dei diritti civili e sociali e non possono essere legati alla spesa storica perché si continuerebbe a dare di più a chi di più ha già avuto e di meno a chi già ha ricevuto molto poco, a partire dalla nascita dello stato unitario sino ad oggi. I Lep, tanto più oggi, avendo il Governo esigue disponibilità, impongono una re-distribuzione delle poche risorse disponibili favorevole a chi è rimasto indietro. I cittadini del Mezzogiorno e tutte le istituzioni meridionali si devono svegliare, per impedire lo svolgimento di questo processo che, non osservando i principi basilari della giustizia sociale nella impostazione dei Lep e procrastinando ogni decisione, in realtà vuole arrivare rapidamente all’Autonomia Differenziata. La bozza Calderoli di attuazione del regionalismo differenziato Rifiutare aprioristicamente l’opportunità del ricorso facoltativo delle Regioni a conseguire una maggiore autonomia legislativa - di quella attribuita loro dall’art. 117 della carta costituzionale e di una parte di quella riconosciuta come esclusiva dello Stato - assume un duplice significato. Il primo, di doversi esprimersi acriticamente in senso negativo su un importante precetto della Costituzione (art. 116, c. 3), revisionata per iniziativa di un governo allora di centrosinistra (2001) e condivisa da un referendum confermativo, uno dei pochi ad avere raggiunto il quorum. Il secondo - che è insieme causa e conseguenza del primo - è quello di non prendere coscienza delle reali ricadute conseguenti al perfezionamento dell’iter parlamentare che assegni le materie rivendicate dalle Regioni istanti alla propria competenza legislativa esclusiva. Il testo della bozza Calderoli e la complementarità con la legge di bilancio 2023 Tra un groviglio di considerazioni, molte delle quali non propriamente corrette in tema di distribuzione alle autonomie regionali delle risorse statali - confondendo in ciò le pretese di alcune Regioni del nord con le regole costituzionali e della legislazione attuativa delle stesse -, si trascura nel dibattito lo stato dell’essere, oramai “antico”, dell’impalcatura regolativa della materia. A proposito di questa, è bene sottolineare che, nel 2009 è stata approvata, alla quasi unanimità, la legge delega n. 42 attuativa dell’art. 119 della Costituzione. Una legge alla quale hanno fatto seguito ben otto decreti delegati approvati nel biennio 2010-2011, dei quali alcuni regolatori dell’attuale disciplina contabile (d.lgs. 118/2011) e altri - specie quelli introduttivi dei criteri dei fabbisogni standard per gli enti locali (d.lgs. 216/2010) e dell’importante binomio costi/fabbisogni standard afferenti al sociosanitario (d.lgs. 68/2011) – lasciati dormire nel cassetto da oltre dodici anni. Una tale nutrita esistenza di regole, costituzionali e ordinarie, avrebbe dovuto consigliare, da subito, un più accorto approccio sia alla legge attuativa dell’art. 116, c. 3, sia all’applicazione del cosiddetto federalismo fiscale, lasciato “impagato” sul banco della colposa inerzia legislativa, regolamentare e amministrativa. Lo scorso 29 dicembre 2022 è stato definito il testo della bozza di DDL c.d. “Calderoli” trasmessa oggetto di una minuziosa ricerca del consenso dei Presidenti delle Regioni, attraverso un itinerario che il Ministro per gli affari regionali e le autonomie della Repubblica ha ritenuto ripercorrere programmando di incontrarli direttamente nelle loro sedi istituzionali regionali. Un Ddl che, nella sua lettera definitiva, si complementarizza con la legge coeva del 29 dicembre 2022 n. 197, esattamente con i commi 792-798, che ne scandiscono sia i tempi sia gli adempimenti amministrativi propedeutici a definire i livelli essenziali delle prestazioni, di cui all’art. 117 comma 2, lett. m) della Costituzione, e a determinare le risorse occorrenti attraverso il criterio introdotto dalla anzidetta legge n. 42/2009. Al di là delle giuste decisioni di volere giuridicamente condizionare l’avvio a regime del regionalismo differenziato alla corretta e capillare individuazione dei Lep e al finanziamento dei medesimi ricorrendo ad un generico criterio di determinazione dei costi e fabbisogni standard, l’argomento impone, sul punto, qualche utile considerazione. Specie sulle affermazioni “promozionali” del testo-proposta legislativa, nella parte in cui fa esplicito rinvio alla disciplina individuata nella suddetta legge di bilancio 2023. Complessivamente si afferma infatti che, sino a quando non saranno determinati i Lep e, dunque, individuati e definiti i costi e i fabbisogni standard, ad assistere il finanziamento delle funzioni fondamentali e delle prestazioni essenziali continuerà a presiedere il criterio della spesa storica. Un assunto che ha prodotto, nei decenni, danni inenarrabili alla esigibilità dei diritti civili e sociali in diversi ambiti regionali. Il sistema di finanziamento basato sui costi e fabbisogni standard Di conseguenza, la lettera del Ddl Calderoli suscita una grande preoccupazione relativamente all’applicazione del previsto regime del finanziamento delle autonomie territoriali. Infatti, appare non affatto corretta la previsione riguardante un approccio generico all’auspicato sistema di finanziamento basato sui costi e fabbisogni standard. Ciò senza fare alcuna distinzione tra quello di tipo qualitativo, previsto per esempio nella sanità e nel sociale (d.lgs. 68/2011), e quello quantitativo individuato per l’esercizio delle funzioni fondamentali dei Comuni, Province e Città metropolitane (d.lgs. 216/2010). Il tutto con il conseguente rischio di registrare un verosimile esordio zoppo del regionalismo differenziato a causa della mancanza delle risorse sufficienti ad assicurare servizi e prestazioni essenziali appropriate perché inadeguatamente garanti da quella spesa storica che ha determinato il collasso finanziario delle Regioni del Mezzogiorno e l’inesigibilità dei diritti fondamentale da parte delle rispettive nazioni regionali. Costituiscono, pertanto, errori irrimediabili sia i rinvii temporali che gli adempimenti assegnati alle solite commissioni, collaborate da una burocrazia dimostratasi incapace, in undici anni dai suddetti decreti delegati della legge 42/2009, di concretizzare: la definizione dei Lep; la valorizzazione dei costi standard, propedeutici a definire i fabbisogni standard regionali; la individuazione dei fabbisogni standard valorizzati degli enti locali. I fabbisogni standard della legge 42/2009 sono differenziati Un’altra osservazione riguarda la confusione che si evidenzia nel testo Calderoli - allo stesso modo di come si registrava anche nei due precedenti tentativi esperiti da Boccia e Gelmini, però meglio curati sulle scansioni delle priorità da conseguire - tra fabbisogni standard, garanti delle funzioni del sistema autonomistico locale, e tra il sistema costi/ fabbisogni standard, garante della salute dei cittadini e dell’assistenza sociale. In proposito, non si comprende, infatti, la commistione che si fa tra la determinazione dei fabbisogni standard degli enti locali, da determinarsi con le procedure (sino ad oggi fallimentari) di cui al d. lgs. 216/2010, con i fabbisogni standard riferibili alla determinazione delle risorse regionalisticamente differenziate, attraverso gli individuati costi standard riferiti, per esempio, ai macro-livelli assistenziali dei LEA. Infatti, le procedure individuate nel comma 793, lett. d), dell’art. 1 della richiamata legge 197/2022 - cui il testo Calderoli fa esplicito riferimento e rinvio - sono esclusivamente basate sul fabbisogno standard (quantitativo perché valorizzato economicamente per funzioni) che, proprio perché individuabili attraverso la SOSE, l’Istat e il CINSEDO - sono riferibili esclusivamente ad una (auto)determinazione quantitativa cui si perviene mediante questionari. Una metodologia, questa, che ha fallito sino ad oggi (per dodici anni dalla previsione normativa, d.lgs. 216/2010) la corretta individuazione delle risorse necessarie perché gli enti locali potessero assicurare le loro undici funzioni fondamentali. A questo punto, è dato rilevare che il sistema costi/fabbisogni standard (quali-quantitativi) afferenti, invece, alla sanità e all’assistenza sociale, garantiti da una perequazione al 100%, comporterebbe: a) la valorizzazione governativa dei costi standard riguardanti le singole prestazioni sociosanitarie; b) la successiva determinazione dei fabbisogni regionali calcolati sulla base del reale bisogno epidemiologico delle singole regioni, dell’età media dell’utenza (più risorse a quella più vecchia) e degli indici di deprivazione socio-economica e culturale che le stesse esprimono. Un percorso ricognitivo difficile, quest’ultimo, da rimettere ai Sindaci e a Regioni finalizzato alla rilevazione delle urgenze epidemiologiche sulle quali determinare il fabbisogno standard necessario ad assicurare, ovunque, il necessario soccorso. La salvaguardia primaria della uniformità delle prestazioni Al riguardo, è da sottolineare negativamente l’assenza nel testo Calderoli della costituzione e del funzionamento del fondo perequativo destinato alle spese correnti, senza vincolo di destinazione, imposto dalla Costituzione (art. 119, c. 3). Quello strumento indispensabile per garantire, per l’appunto, il buon esito dei LEP ovunque e in favore di chiunque. Un siffatto suo consapevole mancato insediamento a regime da subito – sino a quando non saranno definiti i lavori di cui ai commi 792/798 della legge di bilancio 2023 - determinerà, con il verosimile perdurare ad libitum della spessa storica a sovrintendere il sistema, il periodo delle maggiori diseguaglianze. Di fatto, istituzionalizzerà una sorta di “fondo di sperequazione”, che avrà una presumibile durata di anni, vista l’esperienza maturata dal 2011 ad oggi. Il tutto con il prolungamento del notevole disagio per le regioni a minor gettito fiscale, bisognose invece di iniziare a credere in un regionalismo differenziato che possa essere la loro carta vincente, di stimolo alla politica ad impegnare per il ruolo dei decisori regionali che valgano qualcosa in più dei precedenti omologhi. Il punto di forza dell’elaborato Calderoli Nella stesura definitiva (29 dicembre) della bozza del Ddl è dato però rinvenire, rispetto alle versioni precedenti, un esempio di abile e raffinata tecnica redazionale legislativa, che metterebbe a riparo da consolidati ritardi registrati dal 2011 ad oggi nel rendere operativo il federalismo fiscale. Esso è da individuare nel rinvio alla legge di bilancio per il 2023, cui il testo Calderoli si vincola in regime di complementarità assoluta. Una pregevole invenzione, questa, che differenzia - nella sostanza - l’elaborato del ministro degli affari regionali e delle autonomie rispetto a quelle elaborate dagli omologhi Boccia e Gelmini. La novità assume la caratteristica dell’essenzialità per un buon esordio del federalismo fiscale. Come tutte le cose essenziali, la sua ricaduta pratica, tutta da venire, è fino ad oggi passata inosservata, meglio non valutata positivamente come invece merita. Negli anzidetti due tentativi antecedenti il Ddl, così come nei primi elaborati di Calderoli, si condizionava la percorrenza da parte delle Regioni all’ottenimento di una maggiore autonomia legislativa, alla preventiva definizione dei Lep e, quindi, alla determinazione dei fabbisogni standard. Lo si faceva tuttavia senza offrire uno strumento di concreta accelerazione dell’evento. Così non è invece nel testo presentato da Calderoli al Governo lo stesso giorno di pubblicazione della richiamata legge di bilancio 2023. In esso, infatti, con il rinvio enunciato all’art. 3 ai commi 791-801 della legge 197/2022 - e nello specifico ai commi 792-797 - si scansionano tempi (7 mesi più sei mesi), competenze (cabina di regia e commissione tecnica per i fabbisogni standard) e step (ricognizione delle normative e delle funzioni esercitate da Stato e Regioni, della spesa storica dell’ultimo triennio, della individuazione delle materie riferibili ai Lep) utili a perfezionare i suddetti adempimenti. Con questo viene offerta l’opportunità di perfezionare gli anzidetti nel corso dell’anno dall’entrata in vigore della legge di bilancio, ovverosia entro il 31 dicembre. Un risultato che, se non interamente conseguito da parte degli organismi incaricati, viene preteso da un apposito nominato commissario ad acta che dovrà adempiere nei 30 giorni successivi al compimento delle eventuali attività non perfezionate. Un percorso legislativo, questo, che dà modo - nel tempo necessario a mettere tutti d’accordo sulla legge attuativa dell’art. 116, c. 3, Cost - di completare i lavori di definizione dei Lep e di determinazione dei fabbisogni standard, con la favorevole conseguenza di approvare la stessa con l’avvenuta definizione degli strumenti di finanza pubblica necessari ad assicurare, comunque, i Lep su tutto il territorio nazionale. Le modalità di finanziamento delle competenze differenziate non possono costituire un espediente per consentire alle Regioni “ricche” di sottrarsi al dovere costituzionale di solidarietà verso le aree economicamente più deboli del Paese. La questione meridionale va affrontata esaltando le occasioni offerte dalla condizione contemporanea. Il meridione, trascurato da anni dalle scelte politiche, deve essere considerato, territorio idoneo a creare opportunità di sviluppo, per la sua centralità nel Mediterraneo. Le comunità meridionali devono diventare protagoniste di un concreto programma di sviluppo, attraverso una profonda modifica del ruolo e dei metodi di azione delle Regioni e degli enti territoriali del Mezzogiorno. Il regionalismo italiano è in crisi profonda. Le Regioni sono diventate centri di “amministrazione minuta” protagoniste di un progressivo accentramento amministrativo pertanto hanno perso il ruolo di decisori politici, e di enti titolari di poteri di programmazione e sviluppo dei territori. Nelle regioni è venuta meno la centralità della politica. Né è derivata l’attenzione al localismo e il superamento del regionalismo cooperativo. Analogamente si è diffuso, tra le Regioni settentrionali, un regionalismo competitivo tra Stato e Regioni e Regioni tra loro. La cultura politica riformista è obbligata a contrastare scelte che esasperano il “particulare” e creano fratture nella tenuta della coesione sociale del Paese. La logica della competizione non può che agevolare situazioni economiche e sociali distinte dalla prevalenza dei più ricchi. È necessario pretendere efficienza da tutti gli enti rappresentativi delle comunità territoriali, eliminando appesantimenti burocratici che li privano della capacità di garantire lo sviluppo delle collettività e di attuare concretamente le scelte politiche. Tuttavia le Regioni devono rispettare il principio di interdipendenza istituzionale, che vincola l’intera comunità nazionale, pur nelle diversità storiche, geografiche, economiche. La rilevanza nazionale del divario Nord – Sud impone una rinnovata modulazione dell’azione delle Regioni meridionali. La dimensione nazionale della questione meridionale e la necessità di nuovi interventi non può essere affrontata dalle singole regioni in assenza di programmi di vasto respiro, che postulano scelte condivise dalle regioni titolate ad assicurare organicità e adeguatezza degli interventi oggetto della programmazione “condivisa”. È pertanto improcrastinabile a Costituzione invariata, la scelta di procedere a intese delle singole Regioni con le altre Regioni del Mezzogiorno, dirette a disciplinare e realizzare interventi di vasta dimensione distinti da organicità e adeguatezza nelle previsioni ed efficacia nell’attuazione. Le Regioni devono superare le scelte di gestione, rispettando il principio dell’ampio decentramento. L’idea di un rilancio delle Regioni meridionali attraverso la definizione di progetti strategici di sviluppo comune e sistemico, è il percorso giusto da seguire, valorizzando tutte le potenzialità applicative dell’art. 117 della Costituzione La Città metropolitana può essere l’occasione per riorganizzare gli stessi poteri regionali, con un effettivo spostamento di competenze, con l’obiettivo di una Regione policentrica e polivalente che abbandoni scelte ispirate all’accentramento. Ciò comporta, per i Comuni capoluogo, valorizzare al massimo le funzioni di indirizzo su scala metropolitana, diventando il coordinatore delle funzioni e dei poteri decentrati. Il disegno deve completarsi con l’effettivo trasferimento di competenze gestionali e di poteri reali ad organi come le Municipalità e dotarle di strutture e risorse adeguate. È questo il percorso da seguire perché il Mezzogiorno abbia un ruolo essenziale nello sviluppo delle comunità, e del Paese. È pertanto indifferibile la scelta federativa tra le regioni meridionali e tra enti locali. È necessario che il foedus regionale sia supportato dall’azione di un movimento che accomuni i cittadini, associazioni all’insegna di un federalismo civico, e che riattivi l’attenzione allo sviluppo della partecipazione, elemento essenziale del confronto democratico. Il ruolo dell’amministrazione è primario e impone una seria riflessione sui modi nei quali le attività amministrative incidono sulla spesa pubblica e sugli investimenti privati: l’efficacia dell’amministrazione è un attrattore, se concreta, dissuasore se carente. È necessario approfondire le ragioni delle criticità che distinguono in negativo l’esercizio dell’azione amministrativa del nostro Paese. In primo luogo, la “selva selvaggia” dello stratificarsi di un numero enorme di leggi statali e regionali, distinte spesso da insanabili contraddizioni e da imprecisione terminologica delle disposizioni. Consegue inevitabile la difficoltà di applicazione, aggravata dal concorso di norme regolamentari. È doveroso prendere spunto dai principi costituzionali. L’esperienza insegna che l’amministrazione e la stessa giurisdizione, hanno relegato il principio di buon andamento dell’azione amministrativa tra le norme programmatiche della Carta; l’effettiva vigenza di un canone destinato a incidere in maniera profonda e sull’attività dell’amministrazione sul rapporto tra quest’ultima e i cittadini, ha svalutato l’obbligo di efficienza di quest’ultima. Occorre riconoscere attualità del principio, e applicarlo nelle scelte legislative e nell’azione amministrativa rafforzando l’obbligo di efficienza e di adeguatezza dell’attività. L’attenzione della politica e dell’amministrazione al rispetto di tali principi è la premessa necessaria di una rinnovata e più efficace riforma dell’attività amministrativa. La progressiva crisi del principio di autorità e la diffusa applicazione di principi generali del diritto civile e dell’ordinamento comunitario modificano il ruolo e il potere dell’Amministrazione. Si impone la necessità di garantire equilibrio nel rapporto tra potere e cittadini per stimolare la competitività al Paese e alla sua economia nel rispetto della legalità. È diffusa l’opinione che, alla riforma urgente del sistema amministrativo si affianchino altre e non secondarie modifiche: a) - il potenziamento degli organici della pubblica amministrazione con l’ingresso di risorse giovani, ben preparate e dotate non solo di formazione giuridica, ma di idonea preparazione economica, che le renda capaci di realizzare il dovere di efficientare il funzionamento dell’amministrazione; b) - progressiva, rapida e diffusa digitalizzazione della pubblica amministrazione; c) - fissazione di termini precisi di conclusione dei procedimenti, e diffusione più ampia di attività subordinate a SCIA e CIA. In tale contesto, le conferenze di servizi devono avere natura decisoria, essere concentrate in sedute limitatissime nel numero, confermando la possibilità di scelte adottate a maggioranza semplice dei partecipanti, con applicazione diffusa delle forme e dei termini introdotti dal disposto del Decreto Legge sulla semplificazione e la innovazione digitale. d) - necessità di una modifica nella cultura e nella mission dei dirigenti amministrativi oggi insensibile alle esigenze contemporanee che dovrà valutarsi rispetto alla concreta ed effettiva realizzazione dei risultati e degli obiettivi di produttività dei settori ai quali sono preposti, definiti dagli organi politici. Senza manager pubblici parametrati sugli obiettivi si rischia di mancare la grande occasione, soprattutto per il meridione, dei fondi del Pnrr. È una ulteriore conferma del ruolo e della funzione amministrativa, che deve divenire servizio reso alla comunità nella gestione dell’interesse pubblico. C’è un obiettivo nel PNRR che viene citato forse meno di altri più facili da descrivere, come trasformazione digitale o rivoluzione verde o infrastrutture di mobilità sostenibile, ma che ha un’importanza capitale e il cui raggiungimento o meno può determinare il successo dell’intera operazione di ripresa del paese. Stiamo parlando della semplificazione amministrativa e legislativa. Troviamo questo impegno inserito tra le cosiddette “riforme abilitanti”, ma anche alla lettera B come “Buona Amministrazione” all’interno dell’intervento “Modernizzazione della PA” e ancora nel contesto della “riforma orizzontale dell’amministrazione pubblica”. Tre diverse collocazioni nel Piano ma un solo obiettivo: arrivare finalmente a disboscare la giungla normativa e a ridurre drasticamente gli oneri e i tempi della burocrazia che pesano sui cittadini e sulle imprese. Questo è il compito ambizioso che ci attende.  

Pensare per sistemi governare per progetti

Lo strumento federativo dei poteri delle regioni meridionali diviene fondamentale e necessario per un sistema di scelte che siano collegate fra loro. Il percorso non deve partire da mediocri compromessi al ribasso, ma da convergenze delle coscienze e degli interessi in una scelta consortile e pattizia. Queste convergenze avvengono nella definizione dei progetti, nella loro elaborazione e nella loro realizzazione; si manifestano nella unità di contenuti e di metodo e nella loro interregionalità. Questo percorso contribuisce a determinare la formazione di una classe dirigente che assume coscienza di sé attraverso la costante continuità con il fare e può legittimamente proporsi come tramite politico-istituzionale, costituito mediante il perfezionamento di un apposito patto, rispettoso quindi della Costituzione vigente, capace di mettere insieme le istanze delle regioni meridionali per ricondurle ad istanza unica. La costruzione del Mezzogiorno Federato ed il riconoscimento degli interessi attivi, avviene attraverso il disegno strategico del quale i progetti sono la materia. Essi devono avere contenuti, finalità e tempistica che siano compatibili con il linguaggio tecnico e gli obiettivi progettuali del contraente UE, che sarà l’interlocutore permanente per l’uso di tutte le risorse disponibili sui diversi fondi comunitari monitorati attraverso il nuovo strumento di controllo sull’avanzamento degli investimenti del Ministero dell’Economia, il sistema ReGiS rivolto alla rilevazione e diffusione dei dati di monitoraggio del PNRR che mira a supportare gli adempimenti di rendicontazione e controllo previsti dalla normativa vigente.

La funzione delle banche locali: Il credito potrà salvare il Sud con il rating umano

La relazione tra credito e finanza, l’allocazione territoriale del credito e i tassi di interesse non sono più temi di politica creditizia ma sono divenuti l’effetto naturale delle dinamiche economiche fondate sulle decisioni delle banche universali miste, i mostri che hanno divorato la biodiversità bancaria. Pur con questa consapevolezza sono ancora possibili “scelte” capaci di mitigare la dinamica in atto in senso favorevole all’economia reale ed ai territori del Mezzogiorno. Mezzogiorno Federato ha nei suoi principi fondanti la questione centrale di, “come incidere, e quali percorsi attuare per lo sviluppo complessivo del Mezzogiorno, sul piano sociale, ed economico, a partire dalla crescita dell’occupazione. La questione economica appare pertanto centrale e preminente, in quanto da essa consegue la possibilità di affermare più concretamente e risolvere, tutte le emergenze del mezzogiorno. Il meridione esprime solo il 15% delle imprese di piccole e medie dimensioni, rispetto al centro nord che ne detiene l’85%. Il divario sempre crescente tra le due realtà economiche con tutto quanto ne consegue, non trova soluzione, se non nella crescita delle P.M.I. L’attuale momento storico ci vede potenziali protagonisti di uno sviluppo possibile e di nuove opportunità per il mezzogiorno: 1. L’Africa rimane l’ultimo continente che usufruirà di una forte crescita economica, per cui il mercato più prossimo è nel Mediterraneo con il meridione in prima fila a coglierne le opportunità; 2. Il già più volte ribadito programma di Ripresa e Resilienza che recepisce il Piano Next Generation UE; 3. Gli investimenti che la Cina effettua sui mercati occidentali, disponendo di una immensa liquidità derivante da un saldo attivo delle esportazioni a cui si sommeranno l’aumento dei consumi interni; 4. L’evoluzione dell’Europa verso una unità politica dimostrata dal fatto che la BCE è impegnata ad emettere Titoli di Debito Pubblico UE con arco temporale trentennale, che non farebbe se in prospettiva non vi fosse una sempre maggiore unificazione anche politica; 5. Il cambio di politica internazionale degli USA, anche come conseguenza dell’aggressione russa in Ucraina, con una più attenta politica di coinvolgimento e collaborazione con l’Europa per riequilibrare il peso del blocco orientale (China, India, Indonesia, Corea del Sud). 6. La Sostenibilità Sociale su cui la Commissione Europea ha fondato il Recovery Fund, i fattori dell’ESG (Environmental, Social and Governance) che determinano un’attenzione maggiore verso l’individuo piuttosto che verso il patrimonio, consapevole che nella società moderna i cittadini non sono più portatori di diritti ma semplicemente consumatori e come tali spersonalizzati. Un gruppo bancario, che abbia dimensioni sistemiche, cioè che possa incidere sullo sviluppo di un territorio regionale con un’attitudine rivolta al finanziamento delle PMI è una necessità esiziale. La ripresa non si otterrà per effetto della rincorsa delle grandi industrie, spesso straniere, giustificando quindi, ulteriori e generosi sostegni, grazie ai quali, poi, a ruota, verrebbe trainato il resto della popolazione. Sarà, invece il complesso, sempre meno silenzioso, delle piccole e piccolissime imprese, degli artigiani, dei commercianti, dei coltivatori diretti, degli start-up, delle famiglie, a sostenere il ritmo ed a guidare i tempi della ripresa alimentando l’occupazione, risvegliando i consumi, grazie ai quali le grandi imprese potranno riprendere a camminare. Quindi è ai piccoli, all’economia reale dei territori, al Mezzogiorno che il credito deve guardare con rinnovato e adeguato interesse per essere al servizio dell’uomo che rimane, e deve restare, unico protagonista della scena economica e quindi umana. Gli strumenti di finanziamento privato Ci sono ormai diverse Direttive Comunitarie e Leggi Nazionali, che a partire dal 2012, hanno introdotto nuovi strumenti di finanziamento. Strumenti che sono del tutto sconosciuti al sistema delle imprese; vuoi per volontà delle banche, vuoi per inconsapevolezza dei beneficiari: Mercato Alternativo dei Capitali, la cui piattaforma è denominata A.I.M. (Alternative Investment Market) per le PMI attiva sin dal 01.03.2012 sul mercato non regolamentato; i P.I.R. (Piani d’Investimento del Risparmio ordinari ed alternativi), sono attivi dal 2017, strumenti finanziari per la raccolta del risparmio retail da destinare in buona parte alle PMI; la possibilità per le PMI di emettere Minibond (durata 5-7 anni), per finanziarsi sul mercato; Venture Capital, sistema di derivazione USA, sottoinsieme del Private Equity, come forma di finanziamento mediante la raccolta di capitali per la costituzione di nuove aziende; le Cambiali Finanziarie che sono di facile intuizione; il CROWDFUNDING, un finanziamento collettivo tramite la rete Internet; le SPAC (Special Porpuse Acquisition Company), formata da una raccolta di capitale attraverso una Offerta Pubblica Iniziale, la successiva quotazione in Borsa e la realizzazione del progetto d’impresa; I.C.O.s. (Initial Coin Offering), offerta pubblica iniziale nel settore delle Criptovalute, il nuovo mercato della moneta e della finanza che sconvolgerà gli assetti non solo finanziari ma anche economici e politici attuali, infine ci sono gli ELTIF (European Long Term Investment Fund), che sono fondi chiusi di origine europea destinati alle PMI. Tali strumenti di finanziamento privato, non sono assolutamente attenzionati dal sistema economico e produttivo del meridione. È fondamentale la diffusione e conoscenza di tutti gli strumenti giuridici ed economicofinanziari riguardanti l’approvvigionamento di capitali come motore di sviluppo per le imprese per parlare il linguaggio della chiarezza, della propositività e del pragmatismo. L’imprenditoria bancaria A sostegno di qualsiasi strategia di rilancio, o meglio di ricostruzione, lo specifico ed indispensabile ruolo che, in tale sistema, “l’imprenditoria bancaria” deve ricoprire e sviluppare, appare inseparabile dall’affrancamento da regole sempre più stringenti e vincolanti per le nostre banche. Bisogna che le banche possano essere ispirate da un rinnovato obbiettivo di miglioramento del territorio che, per il tramite di un nuovo modello di servizio, sia presente nelle comunità quale strumento di sostegno, di sviluppo, di energia attraverso una “finanza per lo sviluppo” piuttosto che una “finanza per la finanza”. Bisogna che tornino a dialogare con le realtà meridionale, finalizzata a creare omogeneità con il resto del paese, ma soprattutto ispirata ad un concetto di “uguaglianza di opportunità”, che ad onta della Costituzione, in Italia è solo un’illusione. Bisognerà farsi guidare da una politica economica finanziata da una “fiscalità sostenibile” per investire nella scuola, nella cultura, nella sanità, nell’edilizia primaria e secondaria, nello sviluppo di un “welfare responsabile”. Solo così si potrà sconfiggere la criminalità organizzata, che della “disorganizzazione statale” si nutre, sottraendo “manodopera” all’illegalità e restituendo dignità a territori trasudanti di storia, volenterosi, ansiosi di poter dare un futuro, finalmente, degno di questo nome ai propri figli. I quali, sicuramente, dovranno formarsi al tempio dell’innovazione, in giro per il mondo ma che, in presenza di opportunità reali potranno tornare ad arricchire i rispettivi territori del proprio ingegno, della loro cultura d’impresa, del loro amore. Solo così avremo un’Italia competitiva, pronta ad affrontare il terzo millennio e finalmente unita, ponendo le persone al centro del processo e non ai margini, valorizzando i progetti piuttosto che le garanzie, seguendo le caratteristiche dei territori piuttosto che i “rating” ostaggio di improbabili algoritmi. Il fenomeno del south working Il ritorno dei “cervelli in fuga” potrebbe portare una prospettiva promettente per il Sud Italia, se però saremo in grado di rispondere a questo genere di bisogni. Per farlo è necessario intervenire sui ritardi che caratterizzano da tempo il Mezzogiorno: trasporto pubblico poco strutturato, servizi sanitari meno capillari, carenza di servizi per le famiglie e insufficienza di infrastrutture digitali diffuse in grado di colmare il gap Nord/Sud. Il fenomeno del south working può essere uno stimolo per spingerci a creare terreno fertile per le innovazioni e la crescita del Sud, a migliorare e a portare in pari con il resto d’Italia e d’Europa i settori dell’economia e del vivere civile su cui siamo storicamente in ritardo. La modalità da remoto consente ai lavoratori di stabilire o ristabilire la propria residenza al Sud Italia lavorando per aziende del Nord o addirittura oltreconfine. A dimostrarci che il lavoro a distanza è possibile e funziona è stata la pandemia che ha messo a lavorare da casa 6,58 milioni di lavatori. Non è stato facile gestire questo cambiamento, per aziende e lavoratori, ma i risultati positivi sono stati talmente dirompenti che tornare indietro è chiaro non esser più possibile. Migliore equilibrio tra lavoro e vita privata con una conseguente rinnovata spinta verso la produttività, più ampia possibilità d’azione verso l’inclusione e la lotta al gender gap, decongestione dei centri urbani, ridotte immissioni nell’aria di CO2, rivitalizzazione dei centri minori e di aree del Paese storicamente più marginali nel circuito economico, sono alcuni dei più importanti benefici apportati dallo Smart Working. Naturalmente, ciò che ha permesso questo piccolo miracolo, è stata un’accelerazione digitale senza precedenti attraverso la quale lo spazio di lavoro ha perso i suoi connotati fisici assumendo una dimensione virtuale e, per tale ragione, collocabile ovunque esista una connessione sufficiente allo scambio di dati.   La “biodiversità bancaria” Non può essere una soluzione l’omologazione ad un modello che vuole centri decisionali lontani dai territori, filosofie che inneggino alla “massimizzazione del profitto” grazie alla presenza di azionisti, più sempre stranieri, che nulla hanno a cuore se non il rendimento del proprio capitale investito. È necessario, invece, che le banche sostengano la ripresa attraverso un modello operativo che riscopra “arti antiche” quali l’ascolto, la disponibilità, la centralità della persona, la fiducia, che affatto sono antitetiche all’efficienza, alla redditività alla qualità degli attivi. Occorre quindi lo sviluppo e l’indispensabile sostegno anticiclico che le “banche di territorio” possono continuare a dare, nella consapevolezza che il credito è una forma di “democrazia economica” che si alimenta attraverso un vero e proprio “rating umano” che nel tempo ha dimostrato di essere “resiliente” alle crisi e più aderente ad un modello eterogeneo di economia nazionale. Utilizzare, quindi, “capitali pazienti” che hanno come obiettivo la rinascita dei territori, del Mezzogiorno, da sempre abbandonati a politiche di sviluppo superficiali e mai sistemiche, nell’illusione che l’Italia possa essere centrale all’Europa anche senza l’indispensabile ruolo che i giovani del Sud possano ricoprire nei propri territori, illudendoli che ai giorni d’oggi la “globalizzazione” sia cosa diversa dall’antica pratica dell’emigrazione. Il nostro Paese, e il Mezzogiorno in particolare, è composto per il 99% da piccolissime, piccole e medie imprese che chiedono di potersi emancipare da un sistema creditizio condizionato da una Vigilanza Europea che applica regole omologanti e rispondenti a requisiti che valorizzano la capacità creditizia soltanto delle grandi imprese. Non è certo possibile continuare ad usare un unico “rating” per imprese che hanno bilanci certificati e per piccoli artigiani che naturalmente hanno numeri e bilanci di ben altro contenuto.   Il Credito Cooperativo al Sud per una nuova stagione di sviluppo Le banche locali hanno dimostrato di rappresentare un presidio concreto dei territori in cui operano dando un fattivo contributo all’economia reale, attraverso la profonda conoscenza delle comunità a cui si rivolgono e la relazione quasi personale con soci e clienti. Esprime 70 “Banche di Comunità” che, grazie a circa 700 sportelli, assieme sviluppano numeri importanti a favore dei propri territori, 14 miliardi di euro di finanziamenti, 22 miliardi di raccolta e circa 3 miliardi di Patrimonio. Banche locali “sostenibili”, efficienti e performanti, che ascoltano la gente, raccolgono ed investono sullo stesso territorio, applicando il modello del “credito a Km zero” di cui tanto l’Italia ha bisogno, stritolata dalle formule e dagli algoritmi. Una vera e propria rete di resilienza che ha confermato la funzione anticiclica e la vocazione mutualistica, soprattutto durante l’emergenza sanitaria in cui le Bcc hanno potenziato il ruolo di ascolto di famiglie e imprese. In questo ci sono due temi importanti: la Governance e il Presidio del Mezzogiorno. È auspicabile che i gruppi bancari cooperativi, nati con la riforma del credito cooperativo nel 2019 che ha reso obbligatoria per legge l’adesione delle Bcc ad un sistema nazionale, abbiano un’adeguata rappresentatività delle aree territoriali in cui sono presenti e che la governance sia pienamente espressione di un’articolazione equilibrata che faccia leva sulle competenze e sulle professionalità maturate quotidianamente nei vari territori, esprimendo a pieno la ricchezza delle varie comunità e dimostrando di essere nazionali anche nell’attività di direzione e coordinamento. Tutto ciò è ancora più decisivo per il rafforzamento delle capacità finanziarie del Mezzogiorno. Senza sviluppo, soprattutto delle aree che hanno più margine di crescita, difficilmente sarà possibile recuperare il gap complessivo dell’Italia rispetto alle principali regioni dell’Europa continentale. La vera sfida oggi è proprio quella di garantire il carattere localistico e i principi mutualistici che rappresentano il vero vantaggio competitivo delle banche di credito cooperativo, ma soprattutto il ruolo di sostegno alle famiglie e alle piccole e medie imprese, cuore pulsante della nostra economia, specie al Sud. Ed è proprio con il PNRR che si apre una nuova fase, in cui le BCC devono fare la propria parte, per essere, insieme ai territori che rappresentano, protagoniste della ripresa, non solo attraverso il finanziamento degli investimenti ma anche dando un importante contributo consulenziale. Le banche di credito cooperativo sono espressione dei territori, raccolgono ed erogano prestiti nelle stesse comunità, possiamo dire che sono un tutt’uno con soci, clienti e territori. Il ruolo degli istituti di prossimità è dunque indispensabile per sostenere una nuova stagione di sviluppo nel Sud Italia, perché il problema del Mezzogiorno non può essere considerato soltanto un problema di quelle regioni: deve essere considerato un problema nazionale se lo si vuole risolvere. Per nulla risulta utile alla comunità meridionale il numero di filiali presenti al sud di banche i cui interessi reali sono dappertutto tranne che al Mezzogiorno. La politica di sviluppo di regioni come la Campania, la Calabria, la Puglia o la Sicilia senza dimenticare la Basilicata e l’Abruzzo sono state, per opinione diffusa, fortemente condizionate da questa “limitazione creditizia”. La vera Banca del Mezzogiorno al Sud già c’è ed è rappresentata dalle BCC nel Mezzogiorno, che sono banche espressione dei territori, appartenenti agli stessi, che raccolgono depositi e erogano prestiti nelle stesse comunità avendone a cuore le sorti economiche e sociali. Le BCC sono praticamente le uniche banche locali rimaste al Sud (55 BCC, 83% delle banche con sede nelle regioni meridionali). Sono anche banche che non hanno ridotto la presenza territoriale, anzi hanno incrementato i punti di servizio ai soci e ai clienti (489 sportelli; erano 471 nel 2010) mentre il resto dell’industria bancaria nello stesso periodo ha ridotto gli sportelli di circa 1.400 unità (-30%). La quota di sportelli delle BCC è passata dal 10% al 15%; le BCC sono presenti in 381 Comuni e in 135 rappresentano l’unica presenza bancaria). Le Bcc meridionali raccolgono depositi per circa 23 miliardi di euro che reinvestono, negli stessi territori, con circa 14 miliardi di euro di prestiti alle famiglie per l’acquisto e ristrutturazione della casa nonché per il sostegno e lo sviluppo alle piccolissime, piccole e medie imprese. È puerile continuare a declamare le possibilità che ci sono a Milano senza mettere Napoli o Reggio Calabria nelle stesse condizioni di partenza. È convinzione comune che la “democrazia di opportunità”, soprattutto se arricchito dal “rating umano”, definitivamente considerato una filosofia creditizia che di romanticismo ha poco ma che ascolta le persone e non consente certamente di erogare credito a tutti bensì a chi merita.   Accordo tra Bcc Napoli ed Enm Il nuovo protocollo di intesa siglato tra Banca di Credito Cooperativo ed Ente Nazionale per il Microcredito. L’accordo è finalizzato alla promozione sul territorio di progetti di microcredito destinati a Pmi e liberi professionisti nonché di progetti di microcredito sociale, ha lo scopo è quello di favorire il lavoro al Mezzogiorno e la creazione di piccole aziende. Contrastando i motivi per cui non nascono o falliscono: mancanza di liquidità, garanzie, assistenza. L’iniziativa mira a rafforzare il settore creditizio in un momento di particolare criticità per il sistema economico, offrendo un sostegno ai soggetti più colpiti dalla mancanza di liquidità attraverso la copertura del Fondo di Garanzia e opportunità di finanziamento fino a 75mila euro. Le start up e le piccole imprese, con un finanziamento garantito dal Fondo di garanzia per le piccole imprese L. 662/96, saranno affiancate da un tutor. Un patto che va nella direzione del rating umano per consentire lo sviluppo imprenditoriale e di idee fondato sull’analisi delle proposte e dei soggetti e non solo in base a meri calcoli aritmetici. Un modello di crescita che veda sempre il valore e la forza dell’uomo al centro dell’attenzione e non solo il peso degli algoritmi per sostenere quella miriade di piccole e piccolissime iniziative imprenditoriali che costituiscono un importante tessuto produttivo e occupazionale di ogni sana società.  

La politica e la formazione di una nuova classe dirigente

La scuola di alta specializzazione del pensiero sistemico dell’Italia Mediterranea In questi ultimi anni, con la proliferazione del populismo, è emersa in forma accentuata, la carenza di classe dirigente. La corsa alla “rottamazione” di una generazione ha di fatto impedito il naturale ricambio, lasciando il Paese nelle mani di molte persone prive di qualsiasi qualifica e di una visione complessiva del “bene comune”, oltre che di una pochezza culturale disarmante. La Politica, quella alta, non si può improvvisare ma necessita di adeguata formazione che ne agevoli la visione, la rappresentatività, e l’autorevolezza. Il tema della formazione assume in questo momento storico ancora più valore strategico del passato per le sfide epocali che la pandemia e il nuovo assetto geopolitico, come conseguenza della guerra, hanno accentuato e reso non più procrastinabili, per la rivoluzione tecnologica e transizione ecologica. La gestione funzionale dei progetti, la tempistica della cantierizzazione a cui è inevitabilmente connessa la loro finanziabilità e i conseguenti ritardi del Pnrr, hanno reso evidente un deficit di classe dirigente all’altezza dei numerosi e complessi obiettivi da raggiungere. Una classe dirigente anch’essa opportunamente formata, in possesso di competenze manageriali, amministrative e gestionali, che sia capace di rispondere alla storica opportunità offerta al nostro Paese per una concreta e sostenibile ricostruzione economica, sociale e ambientale. In particolare, la tragica crisi provocata dal Covid ci ha dimostrato che non può esserci più spazio per l’improvvisazione e la mancanza di professionalità né a livello politico, né in nessun altro ambito, perché il sacrificio, l’impegno, lo studio, l’esperienza sul campo, la competenza sono le uniche armi che abbiamo per esprimere il nostro valore, per far crescere il nostro paese sia nel prestigio, che in termini economici. Ma occorre possedere moderne competenze, frutto di un necessario mix tra sapere teorico ed esperienza pratica, tra quanto appreso sui libri e quanto acquisito on the job. Serve una classe dirigente che, attraverso un’alleanza tra pubblico e privato (scegliendo i migliori e più entusiasti esperti nel mondo del lavoro, delle imprese e soprattutto nelle università, possa accompagnare ognuna delle opere previste nel Pnrr con opportuni interventi formativi.   Generazione 2.0 la crisi dei giovani La disaffezione delle giovani generazioni rispetto alla politica rappresenta senza dubbio un dato allarmante per il nostro Paese. Le più accreditate indagini condotte a livello nazionale rivelano un clima di assoluta sfiducia dei cd. millennials rispetto alla politica. L’incapacità dei politici di stimolare l’interesse delle nuove generazioni rispetto a temi che dovrebbero, al contrario, smuoverne le coscienze, rappresenta la principale causa di distacco dalle istituzioni politiche e dai partiti generando al contempo una classe politica incapace di intravedere il cambiamento, di intercettare i bisogni dei più giovani e, dunque, fornirgli risposte concrete. Lo scenario che si presenta è quello di una generazione cui si è tolto molto più di quanto si sia offerto. La difficoltà di conciliare studio e occupazione, l’assenza di politiche di sostegno per l’inserimento nel mondo del lavoro, la sottoccupazione, la bassa retribuzione, l’impossibilità di costruire un progetto di vita e, dunque, in generale la precarietà di vita e lavoro, disegnano il profilo di una generazione estremamente fragile, disillusa, disorientata, che non riesce a farsi parte attiva nello scenario politico nazionale, rappresentando il vero anello debole della società. Occorre ripartire da una riflessione sul mondo giovanile. Se si vuole davvero allargare il campo, non si può non avere un pensiero rivolto verso le nuove generazioni. Questo conta assai di più di ogni alleanza tattica. In gioco c’è qualcosa di più ampio e di più radicale insieme. Perché le nostre parole non fanno più presa emotiva sul mondo giovanile? Forse perché la politica è stata canalizzata solo nell’opposizione vuota dell’anti-politica o nell’apatia dell’assenteismo e dell’indifferenza? Per molti giovani l’iniziazione alla vita politica attraverso l’esperienza del primo voto è vissuta senza alcun entusiasmo e interesse. Astenersi è quasi sempre una reazione di tipo infantile ad una situazione di frustrazione vissuta come insopportabile. Anziché provare a cambiare una condizione di difficoltà si preferisce uscire dal gioco. Senza ovviamente registrare che questa autoesclusione non solo non può interrompere il gioco che proseguirà anche senza di noi, ma rischia di avvantaggiare i nostri avversari. Anche in questo caso lo sguardo dell’astensionismo resta sempre narcisisticamente rivolto al proprio ombelico. Ed è proprio l’incapacità di sentirsi parte di una comunità, il venir meno di questo senso di appartenenza, il non avvertire più il dovere civico di esercitare attivamente la politica a determinare l’apatia elettorale. Possiamo ancora sperare con fiducia in un risveglio delle coscienze sulle questioni sociali che affliggono il nostro Paese ma il cambiamento deve partire proprio dai più giovani che sono chiamati a prendere consapevolezza della grave crisi in cui versa la politica nazionale, a dismettere le vesti di meri spettatori delle proprie vite e assumere il ruolo di protagonisti attivi nel dibattito politico. Imprescindibile, quindi, avvicinare alla riflessione su questi temi così complessi anche quei giovani che saranno le nuove classi dirigenti, in modo che possano prepararsi e formarsi per costruire l’Italia del futuro con competenza, capacità, determinazione, impegno e tanta passione. In tal senso, l’istituzione del corso di laurea interateneo in Medicina e Tecnologie Digitali proposta dall’Università della Calabria e dall’Università Magna Grecia costituisce un’iniziativa realmente innovativa. Una svolta da tempo attesa quella che l’Unical e la sua governance da parte sua si è saputa intestare capitalizzando un progetto da tempo portato avanti al suo interno e che oggi da un cambio di passo epocale all’offerta formativa dell’Ateneo avviando l’inizio di una seconda fase di crescita.   L’attivazione del corso di laurea in Medicina e Tecnologie Digitali segna l’incontro tra due aree di eccellenza presenti nell’Ateneo: quella biomedica e quella ingegneristico-informatico tecnologica. Si tratta di un corso di laurea che implementa nella formazione curriculare del medico competenze tecnologie proprie dell’intelligenza artificiale applicabili oggi sia all’ambito diagnostico-terapeutico che a quello socio-assistenziale anche nelle sue declinazioni tecnico organizzative. Per una nuova classe dirigente colta c’è bisogno di riformare la scuola. Come possiamo rendere credibile il linguaggio della politica, ricucire lo strappo populista dalle istituzioni senza per questo rendere grigio quel linguaggio, senza separarlo asetticamente dalla forza del desiderio? Certamente in gioco dovrebbe esserci innanzitutto il recupero pieno del mondo della scuola al quale non è mai stata data la parola con la necessaria forza. La vulnerabilità del leaderismo, dell’uomo solo al comando che interpreta e rappresenta l’identità e interpreta la visione ha prodotto danni irreversibili e inconfutabili legando la prospettiva e soprattutto il consenso di partiti e movimenti al gradimento momentaneo dei singoli, richiede un cambio di passo, una leadership che sappia incontrare i giovani. E per incontrare i giovani bisogna avere innanzitutto voglia di ascoltarli. Dare spazio alla loro parola, senza dimenticare che talvolta è proprio il sogno giovanile a indicare agli adulti la giusta via. In una società abbagliata dal mito del successo facile, dell’affermazione di sé che prescinde dagli altri, dal misconoscimento dell’importanza della conoscenza, dell’arte malevola della scorciatoia di fronte alla necessità di cammini lunghi, la Scuola ricorda ostinatamente la fatica e la gioia della prova come essenziali in ogni processo di formazione.   Il Presidente Mattarella esorta i giovani a recuperare il deficit di cultura umanistica per arricchire i saperi e la lingua ormai evidentemente degradati con un analfabetismo devastante che ha soffocato la possibilità di esprimere il merito. La responsabilità di noi adulti è invece quella di creare le condizioni perché i giovani abbiano pieno accesso all’istruzione e a un’alta formazione di qualità sia teorica che pratica, una formazione completa che sappia connettere conoscenze e competenze, generando possibilità di sviluppo e crescita per gli individui e i sistemi nei quali agiscono, in una sorta di patto generazionale con un sano ricambio fondato su merito e competenze che possano mettere fine alla povertà educativa finora troppo spesso riscontrata e accettata.   La formazione della classe dirigente nel Mezzogiorno d’Italia La competitività nell’età della sopravvivenza deve essere il nostro faro di riferimento. Vogliamo usare il linguaggio comunitario e far comprendere cosa intende la Comunità europea per competitività regionale. “L’indice di competitività regionale (RCI) si compone di 11 pilastri che descrivono i diversi aspetti della competitività e permettono anche di valutare i punti di forza e le debolezze a livello regionale. Questi sono classificati in tre gruppi: “i pilastri di base”, “pilastri dell’efficienza” e “pilastri dell’innovazione”. I pilastri di base comprendono: 1) istituzioni; 2) stabilità macroeconomica; 3) infrastrutture; 4) salute; 5) istruzione di base. Si tratta dei fattori trainanti essenziali per ogni tipo di economia. Man mano che un’economia regionale di sviluppa e accresce la propria competitività. Entrano in gioco fattori correlati ad una forza di lavoro più qualificata e a un mercato del lavoro più efficiente, che rientrano nel gruppo dei pilastri dell’efficienza. Questi comprendono; 6) istruzione superiore, formazione e apprendimento permanente; 7) efficienza del mercato del lavoro; 8) dimensione del mercato. Allo stadio più avanzato di sviluppo di un’economia regionale, i fattori di miglioramento rientrano tra i pilastri dell’innovazione: 9) maturità tecnologica; 10) sofisticazione delle imprese; 11) innovazione.   Il problema della formazione della classe dirigente nel Mezzogiorno È tema di massima urgenza in un tempo segnato dalla crisi della dirigenza politica, economica, amministrativa. L’Italia necessita di una serie di interventi di profonda riforma che solo una classe dirigente responsabile, preparata, riconosciuta e dotata di senso etico può realizzare. Mezzogiorno Federato ritiene prioritario e pregiudiziale un visibile impegno in questa direzione che ha concretamente affrontato attraverso i numerosi approfondimenti tematici svolti da remoto e/o in presenza, avvalendosi di una autorevole, qualificata rappresentanza del sistema universitario meridionale, analogamente su questo terreno abbiamo espresso un contributo, fortemente apprezzato, attraverso la pubblicazione e la diffusione di Buonasera Sud. Il passo successivo sarà quello di puntare sulla formazione post universitaria dei giovani laureati per la formazione di “elites dirigenziale” al fine di rilanciare la questione meridionale in senso culturale ovvero come questione non solo di mezzi ma soprattutto di idee. La speranza è che si possa far convergere le forze della politica, dell’industria e della cultura verso un obiettivo condiviso, attraverso una visione del futuro del Mezzogiorno che consenta a realtà diverse di porgersi come interlocutori forti in una rete culturale comune, dove la formazione ispiri l’azione alle idee e al progetto. Da più parti arriva la proposta di restituire alla politica quella dimensione da tempo dimenticata di agorà dove cercare e forgiare la classe dirigente del futuro. La nostra idea è quella di valorizzare il pensiero sistemico, che si sta diffondendo come metodologia di ricerca anche nelle Università, attraverso un luogo collettivo di dibattito permanente sulle idee progettuali. Un luogo non direttamente assorbito dalla contingenza della battaglia politica, un luogo “alto” di riflessioni sul nostro passato e sul nostro futuro. Un luogo non effimero, ma destinato a durare nel tempo. Il nostro destinatario privilegiato saranno le nuove generazioni. Perché il compito di ogni Scuola degna di questo nome è innanzitutto quello di far esistere un futuro più giusto e questo non è possibile senza la forza creativa della giovinezza. Un appuntamento periodico, itinerante e tematico per lavorare insieme, per studiare, conoscere, appassionarsi: perché per osare servono strumenti interpretativi dell’oggi e del futuro che si sta generando. Per questo vogliamo formare una nuova classe dirigente, che sia competente, coraggiosa, appassionata; una generazione di leaders non di followers, un incubatore del pensiero riformatore e sistemico dell’Italia Mediterranea.   La nuova cognizione della realtà che ci circonda , l’evoluzione geopolitica del mediterraneo. Oggi parliamo di Mezzogiorno in un contesto internazionale formidabile perché si è spostato a sud est (l’asse del continente euromediterraneo), costantemente connessi al territorio e al capitale umano che esprime.  

Il Ponte sullo Stretto: II progetto chiave del Corridoio Comunitario Helsinki La Valletta

La Legge 29 dicembre 2022, n. 197, “Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2023 e bilancio pluriennale per il triennio 2023-2025”, contiene dei provvedimenti, che testimoniano un convinto e misurabile approccio nuovo alle criticità del Sud, almeno per il comparto delle infrastrutture; in particolare con la Istituzione del Fondo per le Infrastrutture ad Alto Rischio (IFAR), prende corpo non solo un atto pianificatorio delle infrastrutture ma, addirittura, un Piano organico dei servizi. L’inserimento del collegamento stabile stradale e ferroviario tra la Sicilia e il continente ed opere connesse ribadisce che “trattasi di un’opera prioritaria e di preminente interesse nazionale ai sensi dell’articolo 4 della Legge 17.12.1971 n.1150, e ai fini della dichiarazione di pubblica utilità dell’opera sono reiterati, ad ogni fine ed effetto di Legge, i vincoli già imposti con l’approvazione del progetto preliminare dell’opera e successivamente prorogati”. È chiara ed incontrovertibile la rilevanza strategica dell’opera anche a scala comunitaria. Questa volta forse siamo vicini alla scelta definitiva sulla realizzazione del ponte sullo Stretto di Messina. Il Ponte non sarà una cattedrale nel deserto, come hanno sostenuto i critici dell’opera, sarà invece una infrastruttura, unica al mondo, che genererà sviluppo, occupazione e crescita economica e che, a cascata, determinerà la realizzazione di altri interventi infrastrutturali necessari alla Calabria e alla Sicilia. I lavori prevedevano la deviazione dell’esistente linea ferroviaria tirrenica in corrispondenza di Cannitello per risolvere le interferenze con il futuro cantiere della torre del ponte, lato Calabria, ed avevano un valore di circa 26 milioni di euro e rappresentavano, la prima fase del più ampio progetto di spostamento a monte della linea ferroviaria Battipaglia-Reggio Calabria, un’opera che in tal modo rendeva disponibile circa 4 chilometri di water front tra Villa San Giovanni e Santa Trada (questa opera è stata completata e collaudata da diversi anni. La banale critica alla realizzazione del ponte basata sulla opportunità di realizzare prima altre opere infrastrutturali è del tutto inutile e nasconde, invece, la vera motivazione: la infrastruttura ponte è la prima azione dello Stato slegata da ogni logica localistica, è la prima azione dello Stato dal dopoguerra in cui non si creano impianti industriali concordati con gli organi locali mirati alla creazione di posti di lavoro e ricchi di compromessi clientelari, è la prima volta che nel Mezzogiorno si annullano le ridicole logiche portate avanti nella gestione dei Fondi comunitari (Fondo Coesione e Sviluppo, PON, POR, ecc.) e si invocano le risorse previste dal Fondo delle Reti Trans European Network (TEN – T), cioè il ponte diventa non uno dei progetti ma il progetto chiave del Corridoio Comunitario Berlino – Palermo (oggi Helsinki La Valletta). Questa rilevanza strategica preoccupa e dà fastidio a chi come coloro che governano le Regioni Calabria e Sicilia intravedono in un simile intervento un segno forte che modifica non solo l’impianto geografico del Mezzogiorno ma soprattutto quello economico e politico. Le reti transeuropee di trasporto (TEN-T) sono assi di collegamento volti ad interconnettere le reti di trasporto degli Stati membri dell’UE al fine di favorire la creazione di un unico sistema di trasporto a livello comunitario. La realizzazione di queste reti è di fondamentale importanza per il contributo che esse possono dare alla realizzazione del mercato interno e al perseguimento degli obiettivi di Lisbona in termini di crescita economica e rafforzamento della coesione economica, sociale e territoriale. Nel 1984, nei giorni in cui si avviavano i lavori del Piano Generale dei Trasporti, l’intero gruppo degli esperti, decise che uno degli obiettivi chiave del Piano doveva essere il “trasferimento su ferrovia di una quota rilevante di merci che venivano trasportate sulla rete stradale”. Gli esperti preposti alla redazione del Piano erano pienamente convinti di un simile obiettivo e ribadirono subito che tale finalità non poteva essere di un singolo Paese ma doveva, necessariamente, coinvolgere l’intero sistema comunitario e forse anche oltre e decisero di proporre al Parlamento europeo la redazione di un master plan dell’intero sistema trasportistico della Unione Europea e l’allora Ministro dei Trasporti Claudio Signorile, nel semestre di Presidenza italiana dell’Unione Europea, avanzò tale proposta e nel 1986 il master plan, prodotto dagli esperti dal Piano Generale dei Trasporti italiano, fu approvato dal Parlamento europeo. Il Paese oggi continua a vivere nel grave equivoco, nella grave dicotomia tra chi crede e vuole fare le infrastrutture e chi non le vuole realizzare; una dicotomia paradossale perché, nei fatti, sia i sostenitori del fare che quelli del non fare alla fine assistono inermi al blocco della offerta infrastrutturale del Paese. La realizzazione del ponte sullo Stretto può, a mio avviso, diventare una grande occasione non per riaprire un dibattito o riaccendere uno scontro ma per far uscire allo scoperto proprio coloro che hanno per anni ricoperto il ruolo dei sostenitori dell’opera e nei fatti poi hanno preferito il fallimento dell’iniziativa progettuale. È, infatti, un grossolano errore pensare al trasporto come uno dei comparti classici della macchia dello Stato; il trasporto, è il riferimento portante di tutto l’impianto socio - economico del Paese, è, senza dubbio, l’anima dell’intera nostra economia. Lo aveva compreso Claudio Signorile quando nel 1984 volle redigere il primo Piano Generale dei Trasporti. Non a caso volle che: il Piano Generale dei Trasporti fosse approvato con apposita Legge dal Parlamento e fosse aggiornato ogni tre anni; non fosse redatto da un Ministero ma da 9 Dicasteri (Tesoro, Industria, Bilancio, Difesa, Trasporti, Lavori Pubblici, Marina Mercatile, Ambiente, Interni); avesse un continuo e forte riferimento ed una sistematica interazione con la Unione Europea; fosse l’occasione per dare vita ad un misurabile processo di riforme; interagisse concretamente con ogni realtà regionale e nel contempo sprovincializzare la tradizione pianificatoria nazionale coinvolgendo nella redazione del Piano il Premio Nobel per l’economia Vassily Leontief ideatore della teoria input – output e Hellmuth Stefan Seidenfuss Direttore dell’Istituto di economia dei trasporti dell’Università di Munster e Presidente dell’Istituto europeo di scienza dei trasporti Oggi il Ponte sullo Stretto di Messina è una delle poche infrastrutture mancanti per completare in via definitiva il Corridoio Scandinavo Mediterraneo, che tra l’altro vede già la presenza al proprio interno di una linea di trasporto italiana, ossia la galleria di base del Brennero. L’Italia, in proporzione variabile, è presente in 3 dei 9 piani di interconnessione. Nello specifico: Prima ancora delle stesse Reti TEN – T, con l’ingresso della Grecia nell’Unione Europea il I° gennaio 1981 prese corpo il Progetto italo – greco ipotizzando una interazione funzionale tra il “Progetto jonico salentino” prodotto nel 1980 dal nostro Paese da parte del Ministero del Mezzogiorno e l’asse stradale e ferroviario che attraversava la Grecia da Igoumenitsa e Vólos. Un Corridoio intermodale che coinvolgeva i nodi logistici di Bari, Taranto e Brindisi in Puglia e dava funzione strategica al collegamento tra Igoumenitsa e Vólos ed in particolare elevava i due nodi portuali di Igoumenitsa e Vólos a piastre logistiche chiave del Mediterraneo; Vólos in realtà diventava il riferimento logistico più a oriente della Unione Europea e, al tempo stesso, la Puglia assumeva un ruolo chiave come territorio transfrontaliero. Con il Commissario comunitario Clinton Davis la Unione Europea, di intesa con il Ministro dei Trasporti Claudio Signorile, nel 1985, avviò un ulteriore Corridoio infrastrutturale quello caratterizzato dall’asse Taranto – Brindisi – Lecce – Durazzo – Varna. Un Corridoio che, in modo lungimirante, faceva interagire, attraverso un vero canale secco (quello stradale e ferroviario tra Taranto e Brindisi e tra Durazzo e Varna), il Mar Nero, il Mar Adriatico ed il Mar Jonio; un Corridoio che offriva una grande occasione agli scambi commerciali tra la Puglia, l’Albania, la Macedonia e la Bulgaria; prendeva corpo un grande polmone di interessi tra la Puglia ed il Mar Nero.   Nel 1994, in un’apposita Conferenza comunitaria ad Atene, il Commissario Christophersen approvò, nel rispetto di quanto proposto in un Consiglio della Unione Europea dal nostro Paese nel 1986 attraverso il Master Plan della Unione Europea, il Piano Paneuropeo al cui interno comparivano i primi Corridoi comunitari; in Italia erano ubicati tre Corridoi: il Corridoio Baltico Adriatico, che collega i due omonimi mari partendo dalle coste settentrionali della Polonia per giungere fino all’Italia settentrionale, attraverso l’Austria e la Slovenia e arrivando nella zona delle nostre Alpi orientali; il Corridoio Mediterraneo, che collega la Penisola Iberica con il confine orientale tra l’Ungheria e l’Ucraina: anche in questo caso viene attraversata l’Italia settentrionale, così come la Francia, la Croazia e la Slovenia; il Corridoio Scandinavo Mediterraneo, che collega il Mar Baltico con Malta passando attraverso la Finlandia, la Svezia, la Germania e ovviamente tutta la penisola italiana. Nel 2002 quando Van Miert avviò i lavori delle prime Reti Trans European Network (TEN – T) venne riconosciuto il ruolo del Corridoio Taranto – Brindisi – Durazzo – Varna, venne denominato “Corridoio 8” e non venne incluso nelle Reti TEN – T in quanto sia l’Albania che la Macedonia non erano all’interno della Unione Europea. Nell’aggiornamento delle Reti TEN – T, aggiornamento approvato nel 2013, il Corridoio Berlino – Palermo venne ridefinito come Corridoio Helsinki – La Valletta e si aggiunse una antenna che partiva da Napoli e raggiungeva la Puglia dando ruolo strategico ai porti di Bari, Taranto e Brindisi. È utile ricordare che il Corridoio 8 ed il Progetto Italo – Greco in Italia non hanno trovato alcun reale intervento infrastrutturale; invece in Albania, in Macedonia, in Bulgaria i due progetti hanno dato origine a rilevanti infrastrutture e ciò con rilevanti contributi della Unione Europea; esempi concreti sono: la realizzazione dell’asse viario Durazzo – Varna; mentre in Grecia gli interventi del Progetto Italo – Greco, sempre con adeguate risorse dell’Unione Europea, sono stati quelli relativi all’asse stradale e in parte ferroviario Igoumenitsa – Vólos. Se l’offerta infrastrutturale che garantisce la mobilità delle persone e delle merci è il riferimento chiave per la crescita o per la decrescita è appropriato dedurre che i Governi che si sono succeduti dal 2014 ad oggi hanno praticamente scelto come ambito per il Mezzogiorno proprio la decrescita. Un comportamento davvero irresponsabile che non ha messo in crisi un settore ma ha compromesso la crescita dell’intero Mezzogiorno. Se così non fosse avrebbero dato concretamente attuazione ad opere già avviate dalla Legge Obiettivo come la Agrigento – Caltanissetta, come la Palermo –Agrigento, come la Ragusa – Catania, come la rete ferroviaria ad alta velocità Palermo – Messina – Catania, come il sistema ferroviario Circumetnea, come il ponte sullo Stretto di Messina, come l’asse ferroviario ad alta velocità Salerno – Reggio Calabria, come la autostrada Caianello – Benevento (Telesina), come l’autostrada Molisana, come la Strada Statale 106 Ionica, come l’asse stradale Maglie – Santa Maria di Leuca, come il collegamento tra il porto di Napoli e la piastra logistica Nola – Marcianise, come il collegamento tra la autostrada A1 e il porto di Bari, come il completamento della metropolitana di Napoli. Tutto questo non è avvenuto e, alla luce di quanto abbiamo capito dalla esperienza vissuta con la pandemia, questa scelta non ha colpito solo il mondo delle costruzioni, questa scelta irresponsabile ha ulteriormente distrutto le potenzialità del Mezzogiorno d’Italia. In sei anni avremmo potuto investire nel Mezzogiorno oltre 35 miliardi tutti disponibili da Fondi PON e POR e TEN, e non lo abbiamo fatto; oggi avremmo potuto utilizzare il Recovery Fund per nuovi investimenti e invece forse tenteremo di utilizzarne solo una parte. Un lavoro analitico portato avanti dal Nucleo di Valutazione e Verifica degli Investimenti Pubblici (NVVIP) della Regione Siciliana con il supporto dell’Istituto di Ricerca Prometeia, la Sicilia continuerebbe ad avere una perdita secca di oltre 6 (sei) miliardi di euro all’anno nella formazione del Prodotto Interno Lordo. Per la Sicilia il sistema chiuso, tipico di una realtà insulare, la fa sentire davvero autonoma e slegata da sudditanze dall’organo centrale, per la Calabria l’assenza di un collegamento stabile con la Sicilia non la fa sentire territorio di attraversamento. In fondo effettuando una semplice analisi storica scopriamo che la città di Reggio e quella di Messina vivono la stessa esperienza e lo stesso comportamento vissuto dalla città di Buda e dalla città di Pest in Ungheria; per secoli queste due città ungheresi preferirono non collegarsi con un ponte proprio per evitare di perdere le loro autonomie e, soprattutto, perché convinti che il segno geografico caratterizzato dal Danubio rappresentava una intoccabile soluzione naturale; proprio come il mare dello Stretto. Il territorio è adeguatamente infrastrutturato, solo se c’è omogeneità nell’intero sistema trasportistico e ancora una volta ci siamo accorti, proprio in questi ultimi dieci mesi che nel Mezzogiorno le uniche opere infrastrutturali programmate e progettate erano quelle della Legge 443/2001 (Legge Obiettivo) e fortunatamente si sono finite opere essenziali come l’autostrada Salerno – Reggio Calabria, l’autostrada Palermo – Messina, l’autostrada Catania – Siracusa, la metropolitana di Napoli; sono in parte avviate tante altre opere sempre della Legge Obiettivo ma, come più volte denunciato, dal 2014 tutto con un avanzamento “tartaruga” scoraggiante. Circa 25 milioni di tonnellate di merce oggi movimentate sulla rete stradale siciliana non potranno essere trasferite su ferrovia fin quando non si disporrà di un collegamento stabile sullo Stretto di Messina, fin quando non sarà disponibile un collegamento tra l’isola ed il continente, tra l’isola e l’Europa. Lo stesso discorso vale anche per la Regione Calabria in cui l’offerta ferroviaria, almeno per il versante jonico, è praticamente inesistente. In realtà il Mezzogiorno, o meglio due Regioni del Sud, sono praticamente prive di una offerta modale di trasporto come quella ferroviaria. Oggi parliamo di Mezzogiorno in un contesto internazionale formidabile perché si è spostato a sud est l’asse del continente euromediterraneo. Quello che serve è una lettura strategica. Il Mediterraneo è un mare interno ad un sistema economico, sociale, politico, strategico, quindi anche militare che bisogna leggere in un insieme unitario, non aggiuntivo. Il Mezzogiorno deve federare le funzioni i poteri così come previsto dagli articoli 116 e 117 della vigente Costituzione che lo consente. Federarsi significa avere un unico interlocutore che affronta le questioni di sviluppo, risanamento e di crescita in una chiave sistemica e per questo più forte. Noi oggi siamo incomprensibilmente una Paese che tiene una realtà di sei milioni di abitanti, come la Sicilia, separata dall’Europa. Il ponte sullo stretto a questo serve e può essere considerato un atto di perequazione al quale vengono connesse la Reggio Calabria Taranto, il completamento delle autostrade siciliane, il completamento della rete ferroviaria, gli aspetti infrastrutturali che fanno diventare il ponte un momento sistemico della piattaforma economica e logistica mediterranea già costruita per il sessanta per cento e che va completata.  

Le Zes nelle politiche di sviluppo economico del Mezzogiorno

Le Zone Economiche Speciali (ZES), introdotte in Italia nel 2017, attraverso il decreto-legge n° 91 del 20 giugno 2017, possono essere istituite nelle regioni italiane meno sviluppate e in transizione, così come individuate dalla normativa europea: ovvero nelle regioni del Mezzogiorno. Le ZES sono aree destinatarie di specifiche agevolazioni fiscali e semplificazioni burocratiche, da realizzarsi intorno ad aree portuali che presentino le caratteristiche di porti di rilevanza strategica. Si è introdotta la possibilità per le imprese di sospendere l’IVA e i dazi doganali per le merci che saranno stoccate all’interno di suddette aree, e inoltre si è prevista la riduzione di un terzo dei termini per alcuni procedimenti amministrativi: ambientali, autorizzazioni paesaggistiche, in materia edilizia, concessioni demaniali portuali. La dotazione finanziaria dello strumento prevede lo stanziamento di 300 milioni di euro a valere sul Fondo di Sviluppo e Coesione. Al fine di rendere maggiormente attrattivi gli investimenti nelle ZES, è stato previsto un apposito strumento finanziario che favorisce investimenti diretti, in forma di debito o di capitale di rischio, e che consente la sottoscrizione di quote di fondi di investimento, o fondi di fondi, o di altri veicoli previsti dalla normativa europea. Infine il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza destina 630 milioni di euro per investimenti infrastrutturali volti ad assicurare un adeguato sviluppo dei collegamenti delle aree ZES con la rete nazionale dei trasporti. Nell’ambito dei Piani strategici di sviluppo delle ZES sono previste diverse progettualità infrastrutturali finalizzate a realizzare efficaci collegamenti tra le aree portuali e industriali, così da consentire ai distretti produttivi di ridurre tempi e costi nella logistica e a migliorare il livello di digitalizzazione, ed efficienza energetica nelle aree retroportuali e nelle aree industriali. Tuttavia, l’aspetto infrastrutturale è solo uno dei fattori di competitività dei porti del Mezzogiorno. L’evoluzione del settore del trasporto marittimo nel Mediterraneo ha modificato profondamente le “regole del gioco” rendendo indispensabile un cambio di paradigma delle politiche di sviluppo territoriale rendendole sempre più multidimensionali. Quattro livelli interconnessi, che vanno da una prospettiva spaziale a una funzionale, influiscono sulla mobilità merci portuale-hinterland e sull’instradamento delle merci attraverso i sistemi portuali. In un ambiente di mercato guidato dalla domanda, il livello infrastrutturale serve gli strati di trasporto e logistico, e quindi l’analisi non deve partire dal livello infrastrutturale ma dalla domanda di servizi di trasporto, e quindi dalle attività economiche. L’economia portuale vede due principali tipologia di attività che generano domanda: le attività port required, che necessitano una localizzazione all’interno del porto e quelle port related, che invece possono collocarsi nel retroporto ad una distanza che è tanto maggiore quanto forti sono i nessi economico-funzionali. Le attività Port Required richiedono interventi mirati al miglioramento delle condizioni operative del porto per quanto attiene alle funzioni direttamente connesse con l’ambito marittimo. Si tratta di quegli interventi che non potrebbero essere in nessun caso svolti al di fuori del demanio portuale. I fattori di sviluppo per tali attività possono dipendere da due tipi di variabili: Endogene, legate alle caratteristiche strutturali ed infrastrutturali del porto; ed esogene, legate a fattori sui quali il porto ha un controllo limitato o nessun controllo, in quanto dipendono dalle scelte strategiche dei principali attori del trasporto marittimo. Le attività Port Related sono quelle che hanno un forte nesso economico funzionale con il porto di riferimento ma non specificamente legate alle funzioni portuali. Tali attività includono quegli interventi mirati al miglioramento dell’interoperabilità e interconnessione tra la modalità marittima e ferroviaria, alla logistica, alle attività manifatturiere ed industriali, alla diversificazione delle attività del porto e allo sviluppo di attività imprenditoriali legate a queste ultime. Sono queste dunque il motore dello sviluppo territoriale e portuale. È il livello di attività economica e la dimensione economico-territoriale del retroporto, in altri termini il suo mercato di riferimento a determinare nel mercato attuale il successo di un’infrastruttura portuale e della ZES ad esso associata. I porti Italiani, ed in particolare quelli del Mezzogiorno, si trovano in un contesto estremamente competitivo con traffici estremamente volatili e con un livello di complementarità che si è progressivamente ridotta. Di fronte alle dinamiche economiche congiunturali sarebbe invece necessario uno sforzo di revisione e ricomposizione della politica settoriale mirato a sviluppare un approccio sistemico come strumento per rientrare in un modo diverso e più potenzialmente efficace nel mercato del trasporto marittimo Mediterraneo. L’approccio sistemico deve essere solo in parte focalizzato sulla parte marittima ed in modo estremamente e concentrato sulla parte di integrazione tra il porto e il retro-porto, tra il porto ed il territorio nel suo complesso: è lì l’aspetto competitivo, e quindi fattore decisionale delle linee di navigazione, sulla base del quale vengono identificate quali sono gli scali più appetibili. Quindi la competizione non è più tanto su fattori legati alla localizzazione geografica (per anni si è parlato dell’Italia come “piattaforma logistica” nel Mediterraneo): la localizzazione in qualche misura è stata modificata anche dal nuovo sistema di porti hub che si sono stati realizzati nel Mediterraneo stesso, in gran parte dei quali di costi di gestione (in particolare il costo del lavoro) rappresentano un importante elemento competitivo per l’attrazione di operatori e di investimenti. Non potendo competere su questi aspetti il porto deve essere per quanto più possibile un elemento di competitività per i traffici attraverso l’offerta di servizi e alla dimensione del suo mercato potenziale e di prossimità. Una prossimità che è funzione della qualità delle connessioni e dei tempi di collegamento, ma soprattutto dalla dimensione economica e imprenditoriale del suo retroporto e quindi nel suo territorio di riferimento, aspetto che non eleva il potenziale commerciale del Mezzogiorno. Questo perché, trasponendo sul sistema logistico nel suo complesso le dinamiche applicate dalle dagli operatori per la localizzazione dei centri di distribuzione, l’algoritmo di localizzazione delle attività logistiche tende a far prevalere la vicinanza del mercato di destinazione prevalente. Se gran parte dei traffici vanno a Genova o a Trieste è ragionevole ipotizzare che, indipendentemente dalle maggiori miglia percorse via mare, una ponderazione maggiore sia data nella funzione della localizzazione alla prossimità ai mercati più rilevanti. Questo per evidenziare come un intervento focalizzato sulla mera infrastrutturazione dei porti del mezzogiorno possa rivelarsi meno efficace di una politica economica che persegua l’integrazione del porto con il territorio e che sia incentrata sulla realizzazione di interventi che possano incrementare il livello di attività economica e manifatturiera legata al porto, del resto, la logistica è pur sempre una esternalizzazione di una funzione aziendale e non un processo produttivo autonomo. Il modello di sviluppo che si è rivelato maggiormente di successo negli ultimi anni è quello che ha consentito di utilizzare in modo efficiente gli spazi portuali incentivando un’interazione economico-funzionale con il tessuto produttivo retrostante. Alcuni porti in Italia sono riusciti a farlo in modo particolarmente efficace rendendosi estremamente presenti nel territorio retro portuale: Trieste è il porto che negli ultimi anni ha interpretato in modo maggiormente estensivo ed efficace il nuovo ruolo dato dalla norma alle Autorità di Sistema Portuale. In questa proiezione dei porti verso l’interno le Zone Economiche Speciali (ZES) indubbiamente rappresentano uno strumento molto interessante. Nella loro attuale fase di sviluppo le Zone del Economiche Speciali sono state create dal punto di vista amministrativo ma devono ancora dimostrare la capacità di fornire soluzioni alle criticità del tessuto produttivo di ogni singolo territorio nel quale insistono. Troppo spesso le analisi propedeutiche all’istituzione delle ZES si sono limitate ad una rappresentazione dell’economia territoriale esistente senza approfondire vincoli o elementi abilitanti dello sviluppo del territorio specifico. Un maggior contributo allo sviluppo economico si sarebbe potuto avere utilizzando le ZES come strumento di politica economica industriale: identificando settori trainati ed intervenendo con una chiara idea di sviluppo affinché si creassero le condizioni di successo in quei segmenti dell’economia che avessero potenzialità di sviluppo e caratterizzazione delle diverse aree geografiche. Senza una strategia di specializzazione e diversificazione delle ZES il rischio di cannibalizzazione tra le stesse potrebbe essere molto elevato. Del resto lo stesso approccio viene sviluppato quando vengono pianificati sistemi portuali e sistemi aeroportuali: si individuano delle specializzazioni e delle vocazioni per ognuno dei nodi in modo tale da aumentare il potenziale complessivo del sistema e non creare mutua penalizzazione. La politica economica in questo caso deve essere in grado di scegliere attraverso un’azione di indirizzo del mercato i settori trainanti per ciascuna area geografica e quindi attivare le agevolazioni e le incentivazioni che siano generalizzati siano focalizzate specificamente sui settori ad alto potenziale di sviluppo ed impatto positivo sul tessuto economico e sociale. Le ZES dovrebbero essere configurate nella fase attuativa come uno strumento per instradare le dinamiche di mercato verso gli obiettivi di programmazione, e non come un ente regolatorio, ulteriore. Parimenti, la gestione delle ZES dovrebbe quanto più possibile essere coerente e integrata con le dinamiche di mercato: in quasi tutte le ZES di successo a livello europeo si riscontra una forte presenza di integrazione di filiera verticale cosa che sembra rappresentare un fondamentale elemento di sviluppo. Infatti una integrazione verticale della catena del valore consentirebbe di mitigare la volatilità dei traffici e degli operatori creando elementi abilitanti per l’attrazione di operatori e investimenti: favorire l’integrazione tra compagnie di navigazione, terminalisti , operatori logistici e imprese ferroviarie potrebbe essere un obiettivo di politica economica da perseguire attivando soggetti pubblici come volano aggregatore per poi lasciare spazio agli operatori privati, ovvero sviluppare partenariati pubblico privati. L’idea di fondo è quella di lavorare per avere una portualità integrata con il territorio, una integrazione verticale tra logistica e manifattura all’interno delle ZES stesse, quindi ZES ibride che rispondano rapidamente ed efficacemente alle evoluzioni dei mercati perché troppe volte sono stati realizzati interventi asincroni rispetto ai fenomeni per il quali erano stati disegnati. La pianificazione dovrebbe prendere le mosse dalla ricerca dei driver di sviluppo attraverso i quali attivare le realtà economiche esistenti, individuando gli interventi (infrastrutturali e non) necessari per la realizzazione del piano di sviluppo. È necessario quindi individuare gli specifici ambiti territoriali attraverso l’analisi delle dinamiche di sviluppo industriale e dello sviluppo del settore terziario e dei servizi. Quindi, le analisi propedeutiche allo sviluppo della pianificazione territoriale non dovrebbero prescindere dalla ricerca di fattori che consentano l’attivazione di dinamiche di sviluppo economico, anche senza necessariamente ricorrere ad investimenti in infrastrutture fisiche e per quanto possibile realizzarsi all’interno di aree già pianificate ed autorizzate e attraverso l’utilizzo di strumenti normativi e urbanistici esistenti.  

Agroindustria e filiera agroalimentare, hub del Mezzogiorno nel Mediterraneo

Quali sono le logiche portate avanti da coloro che gestiscono i nodi logistici di Roma Nord, di Fiumicino, di Pomezia, di Nola Marcianise, di Battipaglia, di Bari Lamasinata, di Tito in Basilicata, di Catania e di Palermo? Nessuno di questi nodi intermodali fa parte dei primi dieci interporti del Paese ma, cosa ancor più grave, non esiste attualmente e non lo è neppure nel breve periodo una possibile integrazione con gli impianti portuali del Mezzogiorno. Non avendo in tutti questi anni, in particolare negli ultimi sei, dato vita ad interventi organici proprio nei nodi della logistica del Sud e della loro integrazione con gli impianti portuali, sia con le risorse previste dai Fondi Europei di Sviluppo Regionale, sia attuando i progetti previsti nel Programma delle Infrastrutture Strategiche della Il Sud come hub italiano dell’agroindustria è oggi difficile reinventare l’articolazione della offerta logistica del Paese. Ed è davvero interessante soffermarsi su un dato: le attività logistiche producono per ogni tonnellata di merce movimentata un valore aggiunto variabile tra 12 e 15 euro e, siccome nei soli dieci interporti del nord si movimentano circa 80 milioni di tonnellate, si ottiene che il valore aggiunto globale di una simile attività assicura annualmente al teatro economico del Nord un valore di circa 1,2 miliardi di euro.   Nessuno intende intaccare questa consolidata attività del sistema logistico del nord del Paese, nessuno intende incrinare questa ormai storica funzione strategica, chi lo pensasse sarebbe solo irresponsabile in quanto si metterebbe in crisi un teatro di convenienze così forte e così positivo ma vorremmo, quanto meno, con la massima urgenza e con la massima concretezza, dare vita ad una politica che sia in grado di capire che alcune filiere produttive, come ad esempio quelle del comparto agroindustriale, potrebbero benissimo trovare ubicazione ottimale all’interno di piastre logistiche ubicate nel Mezzogiorno, potrebbero essere addirittura supportate da impianti portuali ricchi di banchine e di attrezzature adeguate per la movimentazione ma ancora oggi non funzionalmente collegati con gli interporti dello stesso Mezzogiorno. Basterebbe solo un approfondimento su questa filiera, basterebbe rendere cioè il Sud un grande HUB agroindustriale del Paese per regalare in poco tempo al Sud le condizioni per una nuova crescita, la prima dopo l’unità di Italia e per fare questo occorre rispettare una condizione obbligata: la definizione e l’attuazione di una simile proposta non è di una Regione ma delle Regioni del Mezzogiorno che rivestano il ruolo di chi vuole fare in modo che il Mezzogiorno sia una tessera efficiente ed efficace del mosaico Paese.   Il Mediterraneo e l’agroalimentare L’interdipendenza con il Mediterraneo è divenuta tale da imporre partnership privilegiate. Attraverso una cooperazione con gli altri paesi mediterranei l’Europa mediterranea sarà in grado di giocare un ruolo nella globalizzazione, promuovendo uno sviluppo comune e durevole, in cui le variabili umane, sociali e ambientali saranno determinanti al pari delle componenti economiche e politiche. L’idea che ci si possa federare su progetti strategici in area mediterranea nel settore agroalimentare può essere estremamente vincente in quanto i tentativi finora realizzati hanno dimostrato la loro validità. Sono le filiere dell’agroalimentare e dell’artigianato del sud Italia che potrebbero avere una opportunità unica in quanto la parte produttiva agricola avrebbe bisogno di produzioni sempre maggiori per volume e qualità con stagionalità diverse e complementari tra loro. Innovazione e tecnologia della trasformazione Per quanto attiene invece il mondo della trasformazione il sud potrebbe rappresentare l’innovazione e la tecnologia dei nuovi processi di produzione. Il panorama di dinamiche agricole, rurali e alimentari nel Mediterraneo mostra abbastanza bene il ventaglio di scommesse con cui l’agricoltura si confronta in questa regione. È importante considerare tutte le dimensioni, da quella territoriale a quella socioculturale, passando per la sanità pubblica e la geopolitica, per comprenderne il carattere strategico. Se si fa attenzione a non circoscrivere il dibattito agricolo mediterraneo ai soli perimetri del commercio e dell’agronomia, forse si potranno superare i fraintendimenti esistenti sulla questione ed esplorarne tutte le variabili determinanti per il futuro del Mediterraneo. Una volta adottata questa prospettiva, si potrà realizzare e progredire nella costruzione di una cooperazione mediterranea fondata su un triplice obiettivo esprimibile in termini di salute dell’economia (ottimizzazione e razionalizzazione dei sistemi agricoli), salute dei territori (protezione e preservazione dell’ambiente) e salute degli uomini (nutrimento). Le aree del mediterraneo potranno interloquire tra loro con un marchio unico, una logistica attrezzata per filiera e con piattaforme informatiche in grado ormai di certificare e controllare tutti i processi produttivi sia agricoli che di trasformazione.   Il clima mediterraneo ha caratteristiche peculiari che si ritrovano soltanto in poche altre aree nel mondo (California, Sud Africa, sud-est Australia). Fondamentalmente è caratterizzato da un clima temperato-sub tropicale, con precipitazioni (100-800 mm) precipuamente invernali e con temperature e siccità estive finora molto elevate. Nell’area del Mediterraneo, i suoli sono vari, ma prevalentemente calcareo-argillosi nella fascia nord e calcareo-sabbiosi nella fascia sud. Sono abbondanti le zone montane e collinari a scapito delle pianure. Le precipitazioni sono spesso violente, con gravi fenomeni di erosione. Al sud si verificano anche importanti fenomeni di erosione eolica. Nella maggior parte dei Paesi i fattori limitanti sono rappresentati da eccesso o penuria di umidità nei periodi freddo e caldo rispettivamente, da scarso contenuto in sostanza organica ed in genere di azoto nei suoli, che presentano strutture fisico-chimiche, in generale, poco favorevoli alle coltivazioni. Le colture, sia stagionali che perenni, sono derivate per la maggior parte da specie indigene (frumenti, orzo, avene, leguminose da granella e da foraggio ecc. tra le stagionali e vite, olivo, fico ed altri fruttiferi mediterranei tra le perenni) e quindi adattate da migliaia di generazioni alle condizioni pedo-climatiche dell’areale. La maggior parte delle colture stagionali allevate durante il periodo estivo, con irrigazione, sono spesso importate da altri climi (cereali estivi, ortaggi) riproducendo artificialmente le condizioni climatiche dell’area di domesticazione primaria.   Una strategia comune Problematiche ed argomenti di ricerca comune tra i paesi del nord e del sud del Mediterraneo certo non mancano. Agricoltura di precisione allo stress idrico delle principali colture alimentari. Introduzione di precocità, di strutture morfo-fisiologiche che conferiscono resistenza alla siccità, di adattamento all’utilizzazione di acque riciclate o di modesta qualità, tutte caratteristiche che occorre studiare in filiera, assommando i vantaggi che ciascuna componente fisica o biologica può apportare. Si potranno produrre prodotti orto-floro-frutticoli di pregio, da esportare ai più ricchi mercati del nord, particolarmente fuori stagione, sviluppando tecnologie di difesa che permettano di ottenere prodotti liberi da pesticidi e quindi di migliore penetrazione economica. In cambio potranno essere importati cereali da Paesi che possono produrli e venderli a prezzi competitivi, come ad esempio sta operando Israele.  Il miglioramento genetico ed agronomico di specie orto-floro-frutticole può rappresentare un obiettivo fondamentale di collaborazione per la ricerca tra Paesi mediterranei. Infatti le condizioni pedoclimatiche presenti nel Mediterraneo sono ben diverse da quelle del Nord Europa, dove la maggior parte del breeding viene effettuata. Esistono anche specie frutticole tipiche del Sud, quali agrumi, vite, olivo, pesche, fico, nocciolo, pistacchio ecc. che debbono essere migliorate, specialmente per quanto riguarda resistenza a parassiti più svariati, con programmi che non possono essere svolti che nel Mediterraneo. Quasi tutti i Paesi del sud sono autosufficienti o quasi per la carne. Migliorando ulteriormente i pascoli ed il management di questi, particolarmente prodotti ovi-caprini potrebbero rappresentare un interessante export verso il Nord. Strumento fondamentali per lo sviluppo delle filiere mediterranee saranno pertanto: - Sensoristica da campo; - Sistemi monitoraggio e previsionali satellitari; - Meccanizzazione e robotica; - Logistica mediterranea con piattaforme tecnologiche di conservazione; - Trasformazioni artigianali ed industriali; - Centri di tecnologia applicata alla salutistica alimentare; - Reti telematiche avanzate; - Imballaggi naturali ad alta tecnologia.   Tutto questo potrà far parte di un progetto strategico del sud italia non solo visto in collegamento con il nord europeo ma con il sud del mediterraneo. Uno dei problemi capitali per l’agricoltura dell’area mediterranea è la conservazione e l’uso ottimale delle risorse idriche. Quindi innanzitutto sarà fondamentale la conservazione, sia in falda che in superficie, delle precipitazioni, riducendo drasticamente il deflusso torrentizio delle acque e l’evaporazione dei bacini idrici superficiali, problema quest’ultimo finora non risolto, anche se risolvibile. Quindi ottimizzazione delle tecnologie di irrigazione, per eliminare la dispersione idrica e maggiori spazi per il miglioramento genetico per la resistenza scambi e confronti di idee molti altri argomenti potranno facilmente essere identificati.   Cooperazione di ricerca e sviluppo Quello che invece risulta essere fortemente deficitario è il contesto in cui le collaborazioni di ricerca e sviluppo possano essere sviluppate. Le iniziative portate avanti dai 4 Istituti Agronomici Mediterranei (Montpellier, Zaragoza, Bari e Kania a Creta) sono principalmente orientate a sviluppare attività didattica e solo marginalmente coinvolgono attività comuni di ricerca con Istituti operanti a Nord e Sud, in particolare per finanziamenti che dovrebbero continuare ben oltre i 2-3 anni, date le difficoltà e le diversità ambientali presenti nel Mediterraneo. Il modello che più si avvicina a quello ottimale è rappresentato dai nuovi programmi e progetti di ricerca finanziati dall’Unione Europea, in cui Istituzioni di Paesi appartenenti all’Unione collaborano con Istituzioni dei PVS del Sud del Mediterraneo, sviluppando tematiche di ricerca comuni con competenze complementari e sinergistiche. Risulta anche ovvio che simili iniziative, se potessero essere svolte bilateralmente, con accordi specifici, potrebbero anche essere considerate con estremo favore. In tale caso un Paese del Nord (ad es. l’Italia), tramite finanziamento bilaterale (MAE), potrebbe coinvolgere uno o più Istituti di ricerca italiani da un lato ed uno e più Istituti di ricerca dei Paesi del Sud, dall’altro. Solo mediante la promozione dell’Agricoltura e delle economie delle aree rurali dei Paesi del Sud si potrà evitare il verificarsi sempre più importante del fenomeno di migrazioni massive, particolarmente di giovani in cerca di nuovi orizzonti e quindi l’insorgere di conflittualità potenziali, certo non augurabili, ma certamente attese, spesso mascherate con motivazioni razziali e religiose, ma indubbiamente riconducibili a radici socioeconomiche vere e profonde. Il sistema di telefiliera agroalimentare dovrà permettere di coltivare, stoccare, trasformare e distribuire in diverse aree geografiche del mediterraneo/ mondo. In sintesi i campi, le piattaforme logistiche, le aziende di trasformazione, le piattaforme distributive dovranno essere messe in rete su sistemi informatici centralizzati in grado di attivare informazioni, formazioni, tracciabilità, automazione e vendite. Solo l’armonizzazione di questi assi potrà facilitare lo sviluppo dell’intera area mediterranea. Ciò richiede l’utilizzo delle migliori risorse umane disponibili sia nel mondo dell’imprenditoria che universitario.  

Bioeconomia: Il modello di economia circolare

La bioeconomia nasce come disciplina legata al risanamento dei territori e alla riconversione delle aree agricole degradate. Il tentativo messo in atto con successo da più parti (l’esempio italiano di Novamont in Sardegna è probabilmente fra quelli più riusciti) è quello di utilizzare i terreni marginali per realizzare nuove culture specialistiche da utilizzare successivamente nella chimica verde e nell’agro-industria. È definita dalla Commissione Europea come un’economia che usa le risorse biologiche rinnovabili di origine terrestre e/o marina per la produzione e la trasformazione in energia, prodotti alimentari, industriali (e in particolare nella cosiddetta chimica verde) e della mangimistica. Oggi tale evoluzione della componente rinnovabile dell’economia circolare e considerata come un’economia in cui tutto è risorsa, compresi gli scarti. E quindi un’opportunità per rispondere anche alle sfide ambientali. Nella sua applicazione originaria è ritenuta particolarmente indicata nella lotta contro la desertificazione e la degradazione dei suoli, essendo in grado di creare sviluppo economico e nuovi posti di lavoro anche in settori nuovi come appunto quelli della chimica verde. Un esempio sono i sacchetti e i contenitori di bioplastica. Ma anche molti intermedi chimici, con applicazioni in campo farmaceutico, cosmetico o alimentare oggi derivano da materie prime rinnovabili. La bioeconomia cresce di valore e peso complessivo: in Europa ha fatturato 2.300 miliardi di euro con 18 milioni di occupati nell’anno 2015. In Italia l’insieme delle attività connesse alla bioeconomia registra un fatturato di oltre 312 miliardi di euro e circa 1,9 milioni di persone impiegate. I comparti che contribuiscono maggiormente al valore economico (63%) e occupazionale (73%) della bioeconomia sono le industrie alimentare, delle bevande, del tabacco e quella della produzione primaria (agricoltura, silvicoltura e pesca). Ma rientrano nel settore anche altre industrie di “lungo corso” come quelle dei metalli e/o della carta, da sempre orientate al riciclo degli scarti e dei sottoprodotti, che ha tratto dall’affermarsi delle nuove tendenze occasioni di rilancio. In realtà, come spesso accade, la scoperta di nuove definizioni “green appeal” genera delle trasmigrazioni a volte solo di valore comunicativo (green washing). Al di là delle questioni tassonomiche, che lasciamo agli aruspici della classificazione statistica, ciò che conta e che in realtà cresce l’attenzione alle esigenze di carattere ambientale. E quindi un ri-orientamento delle progettazioni e della fabbricazione dei prodotti in un’ottica di sostenibilità. La Bioeconomia contribuisce all’attuazione di alcuni dei 17 Sustainable Development Goals, il programma d’azione delle Nazioni Unite sullo sviluppo sostenibile, clima e ambiente. È il modello degli ultimi 150 anni di storia. Basato sulla successione dell’estrazione di materie prime, sulla loro trasformazione in beni di investimento e di consumo di massa, per finire alla eliminazione degli scarti, con qualche eccezione di recupero dei medesimi specie nei paesi poveri di materie prime come l’Italia che ha sempre seguito la prassi del riciclo fin dalle origini. Una scelta, questa, naturalmente utilitaristica, ancorché validissima, ma senza una vera visione ecologista o di tutela dell’ambiente, se non per via indiretta. Il risultato di tutti questi anni di ricerche e sperimentazioni per un mondo più sostenibile e confluito nel concetto di economia circolare, ovvero un modello di economia che riduce e elimina lo scarto, differenzia le fonti di approvvigionamento di materia e fa durare i beni più a lungo, massimizzando il valore d’uso dei prodotti di consumo.   Un’economia pensata per potersi rigenerare da sola In un’economia circolare i flussi di materiali sono di due tipi: quelli biologici, in grado di essere reintegrati nella biosfera; e quelli tecnici, destinati a essere rivalorizzati senza entrare nella biosfera». La definizione proviene dal lavoro della Ellen MacArthur Foundation, una istituzione no-profit finanziata dalla exvelista Ellen MacArthur, sostenuta da enti e imprese del mondo industriale, anche se, a ben vedere, la promozione dell’economia circolare venne identificata come la politica nazionale nell’11° piano quinquennale della Cina a partire dal 2006. Secondo tale definizione, l’economia circolare dovrebbe funzionare come gli organismi viventi, in cui le sostanze nutrienti sono elaborate e utilizzate, per poi essere reimmesse nel ciclo sia biologico che tecnico. Da ciò nascono approcci progettuali e applicativi, tra cui Cradle to Cradle (dalla culla alla culla o anche C2C), bioeconomia, biomimetica, ecologia industriale, economia blu. Il concetto di economia circolare rappresenta dunque una risposta nuova e che dovrebbe rispondere alle grandi esigenze connesse con problemi attuali e non solo economici. Certamente la crescente scarsità dei materiali, ma anche e soprattutto le emergenze climatiche e il connesso effetto serra portano a identificarlo come uno dei “driver” dello sviluppo sostenibile.   Le opportunità economiche e di sviluppo di questo modello Sono tre i principi fondamentali dell’economia circolare: 1. Riscoprire i giacimenti di materia scartata (le “miniere urbane”) come fonte di materia prima. 2.Come in natura, ove nulla va sprecato e ogni scarto diventa elemento nutriente di un altro organismo, lo stesso deve accadere nella produzione, dall’agricoltura all’industria attraverso riciclo, riuso, gestione degli output produttivi, rigenerazione. 3.Fine dello spreco d’uso del prodotto. L’economia circolare tende a trasformare il prodotto in servizio come il Car-sharing, il leasing a breve tempo, o altre forma di “prodotto-come servizio”. Interrompere la fine prematura della materia. Occorre aggiungere a riciclo e riuso, strategie fondamentali di recupero della materia, una diversa obsolescenza programmata della materia con una maggior durata o un reimpiego dei beni. L’esempio recente più interessante è certamente quello della proposta di riutilizzo delle batterie dismesse delle auto elettriche, che hanno durata superiore al mezzo meccanico, in chiave di stoccaggio di energia per il riequilibrio della rete. Volendo riassumere: Riutilizzo(permette di conservare al meglio il valore dei prodotti). Riciclo a circuito chiuso (comporta l’uso dei rifiuti per realizzare nuovi prodotti senza cambiare le proprietà intrinseche del materiale riciclato (ad esempio carta, vetro, metalli e parzialmente plastica). Riciclo a circuito aperto o downcycling (utilizza materiali recuperati per creare prodotti diversi rispetto a quelle prodotte in un circuito chiuso come plastica per usi tessili). Bio-raffinazione (estrarre materiali pregiati – come le proteine o i prodotti chimici di specialità – per convertirli in energia. L’attività interessa in particolare le industrie che creano rifiuti biologici quali biomasse o la frazione umida della RD). Riparazione e rigenerazione dei prodotti: riguarda particolari tipi di beni ed ha un’impronta maggiore del riciclo. Naturalmente ove ciò sia possibile. Il risultato di ricerche e sperimentazioni per un mondo più sostenibile confluisce nel concetto di economia circolare, ovvero un modello di economia che riduce e elimina lo scarto, differenzia le fonti di approvvigionamento di materia e fa durare i beni più̀ a lungo, massimizzando il valore d’uso dei prodotti di consumo. «Un’economia pensata per potersi rigenerare da sola” con i flussi di materiali, quelli biologici, in grado di essere reintegrati nella biosfera, e quelli tecnici, destinati a essere rivalorizzati senza entrare nella biosfera». Dovrebbe funzionare come gli organismi viventi, in cui le sostanze nutrienti sono elaborate e utilizzate, per poi essere reimmesse nel ciclo sia biologico che tecnico. La crescente scarsità dei materiali, ma anche e soprattutto le emergenze climatiche e il connesso effetto serra portano a identificarlo come uno dei “driver” dello sviluppo sostenibile. Riscoprire i giacimenti di materia scartata, le cosiddette “miniere urbane” come fonte di materia prima: nulla va sprecato e ogni scarto diventa elemento nutriente di un altro organismo, anche nella produzione, dall’agricoltura all’industria attraverso riciclo, riuso, gestione degli output produttivi, rigenerazione. Porre fine dello spreco d’uso del prodotto tendendo a trasformarlo come servizio, interrompere la fine prematura della materia, sono le strategie fondamentali del riciclo, riuso, e recupero della materia, che si completano con l’obsolescenza programmata per una maggior durata o un reimpiego dei beni. Il riutilizzo permette di conservare al meglio il valore dei prodotti, attraverso il riciclo a circuito chiuso comporta l’uso dei rifiuti per realizzare nuovi prodotti senza cambiare le proprietà intrinseche del materiale riciclato, ad esempio carta, vetro, metalli e parzialmente plastica e il riciclo a circuito aperto che utilizza materiali recuperati per creare prodotti diversi rispetto a quelli prodotte in un circuito chiuso, plastica per usi tessili; in fine l’ala bio-raffinazione: che significa estrarre materiali pregiati, come le proteine o i prodotti chimici di specialità - per convertirli in energia.  Un passaggio intermedio è rappresentato dalla bioeconomia come disciplina legata al risanamento dei territori e alla riconversione delle aree agricole degradate. Il tentativo messo in atto con successo da più parti (l’esempio italiano di Novamont in Sardegna è probabilmente fra quelli più riusciti) è quello di utilizzare i terreni marginali per realizzare nuove culture specialistiche da utilizzare successivamente nella chimica verde e nell’agroindustria. L’Italia si posiziona fra i paesi europei con la più alta percentuale di riciclo: per i rifiuti biocompatibili il 91%, rispetto a una media europea del 77%. Il Mezzogiorno ha un peso ridotto nel contesto nazionale della filiera del legno e della carta. Emergono tuttavia alcune regioni con una elevata specializzazione e con ampio potenziale di sviluppo: Calabria e Sardegna per il legno e Abruzzo e Campania nella carta I comparti che contribuiscono maggiormente al valore economico (63%) e occupazionale (73%) della bioeconomia sono le industrie alimentare, delle bevande, del tabacco e quella della produzione primaria (agricoltura, silvicoltura e pesca). Ma rientrano nel settore anche altre industrie di “lungo corso” come quelle dei metalli e/o della carta, da sempre orientate al riciclo degli scarti e dei sottoprodotti. In realtà, come spesso accade, la scoperta di nuove definizioni “green appeal” genera delle trasmigrazioni a volte solo di valore comunicativo (green washing). L’eco-distretto ha lo scopo di «verificare l’applicazione di un approccio di cluster alle politiche di sostenibilità da parte dei distretti produttivi italiani». Si tratta, nella maggior parte dei casi, di innovazioni di processo verso la sostenibilità – molto diffuse – e solo in qualche raro caso di innovazione di prodotto di cui soffrono i distretti industriali negli ultimi anni. I numeri presentati sono comunque confortanti e mostrano un passaggio significativo dal punto di vista dei servizi comuni (un’altra delle carenze organizzative dei distretti). una base di partenza per un nuovo modello di eco-distretto concepito seguendo driver davvero ecosostenibili e in grado di auto promuovere innovazione. Un ulteriore fase evolutiva degli eco-distretti, sarà quella di un rapporto più stretto e funzionale tra imprese e cittadinanza, che vada oltre l’aspetto occupazionale, coinvolgendo altre problematiche. La produzione energetica distribuita anche ai cittadini, attraverso le comunità dell’energia, così come l’utilizzo di materia prima-seconda proveniente dai rifiuti raccolti e selezionati con l’ausilio dei cittadini stessi, saranno fattori di sviluppo di una nuova catena del valore circolare. Sono queste le variabili strategiche della nuova fase di sviluppo, quelle su cui concentrare le scelte e le risorse per il sostenere il cambiamento imposto dalla società in evoluzione. Trovare un legame e una simbiosi fra tutte queste tipologie (o almeno con alcune), diviene dunque fondamentale per realizzare interventi che seguano logiche di sviluppo innovative e rispondenti alle nuove tendenze. I dati indicano un complessivo ritardo delle regioni meridionali nell’implementazione delle riforme di sistema nel campo dei servizi ambientali ed energetici: ambiti territoriali non costituiti, gestioni frammentate, tariffe “politiche” (a volte artificialmente basse, a volte alte a causa di inefficienze strutturali), tassi di riciclo metà di quelli del Nord dell’Italia, troppa discarica, depurazione ancora incompleta, illegalità. Ma il ritardo potrebbe trasformarsi in opportunità.   L’economia circolare dei rifiuti nel Mezzogiorno Potrebbe mettere a valore, ogni anno, oltre 43 milioni di tonnellate di rifiuti: 33,4 di origine non domestica e quasi 10 di origine domestica. Solo per questi ultimi si stima una produzione pro capite che sfiora i 450 kg, circa 50 kg sotto la media nazionale. Oggi al Sud vengono mandati in discarica circa 4,3 milioni di tonnellate di rifiuti urbani. La somma dei deficit di smaltimento e avvio a recupero di Campania, Sicilia, Abruzzo e Basilicata ammonta a quasi 2 milioni di tonnellate/anno: circa il 40% del deficit totale. Accanto agli urbani, nel Mezzogiorno sono stati prodotti, sempre nel 2018, oltre 33 milioni di tonnellate di rifiuti speciali, il 23,3% del totale nazionale. Non mancano comunque casi e territori virtuosi, evidenza che rende ancora meno spiegabile il differenziale esistente. Piani regionali mai realizzati, ambiti mai costituiti, Comuni più interessati ad usare il ciclo dei rifiuti come strumento di welfare che a modernizzare i servizi. Proprio perché si parte da un punto arretrato, la crescita della green economy nel Mezzogiorno potrebbe essere un’occasione di sviluppo. La gestione dei rifiuti è un’attività di estrema rilevanza non solo per gli impatti visibili sul territorio, ma anche per le ricadute economiche più o meno positive che può generare a seconda di come viene governata. Un ciclo dei rifiuti, domestici e industriali, finalmente funzionante ed efficiente diverrà un elemento sempre più indispensabile al mantenimento di alti livelli di competitività dell’industria italiana, e ciò vale anche nel Mezzogiorno. Nessun nuovo Piano di rilancio del Mezzogiorno, soprattutto nel campo dell’economia circolare, può fare a meno di un rinnovamento del quadro istituzionale in senso lato. Per dire che non è solo un tema di investimenti, risorse economiche e/o di buone leggi, ma soprattutto di qualità del contesto socio-istituzionale, che va potenziato e nutrito anche dalle politiche pubbliche.  

Salario di cittadinanza

Recuperando e valorizzando pienamente il concetto di servizio civile, oggi modesta e marginale struttura. Bisognerebbe costruire un autentico servizio civile finalizzato al sostegno ed alla realizzazione di grandi progetti strategici per lo sviluppo del territorio come: • la tutela del patrimonio idrogeologico; • il risanamento dei beni culturali e paesaggistici; • la manutenzione e valorizzazione necessari ad un Paese con le caratteristiche di accumulazione naturale e culturale; • i progetti di sviluppo tecnologico diffuso come la banda larga; • gli itinerari turistici e culturali; • la difesa del patrimonio costiero; • l’efficienza dei servizi di manutenzione nei sistemi urbani. Il servizio civile, attraverso il reclutamento e la formazione del personale necessario, deve essere utilizzato come strumento di sostegno alle grandi progettualità. Tutto questo darebbe lavoro, e senso e ragione al salario di cittadinanza, che riguarderebbe una massa importante di occupati e consentirebbe anche l’utilizzazione di risorse già presenti nei bilanci della Pubblica Amministrazione; oltre alla partecipazione di capitali privati ed imprenditori compatibili ed interessati alla nuova progettualità delle Istituzioni Pubbliche.  

Un’altra sanità territoriale è possibile. La strategia degli enti territoriali del Mezzogiorno

I l fenomeno pandemico, accanto alle decisioni propedeutiche alla riattivazione del sistema produttivo del Paese, impone di mettere mano alla riprogrammazione del Servizio Sanitario Nazionale, facendo tesoro dell’esperienza emergenziale sinora attraversata. Il Servizio sanitario nazionale italiano, pur nelle sue contraddizioni, è tra i pochi universalistici rimasti al mondo. Uno studio di Demoskopika basato sull’Indice di Performance Sanitaria ha suddiviso le venti regioni d’Italia in tre cluster: • Regioni “sane”, di cui fanno parte Trentino Alto Adige, Emilia Romagna, Veneto, Umbria, Marche, Toscana, Lombardia, Friuli Venezia Giulia, Piemonte; • Regioni “influenzate”, in cui sono comprese Valle D’Aosta, Molise, Lazio, Liguria, Basilicata e Puglia; • Regioni “malate”, cioè quelle caratterizzate da inefficienza sanitaria come Abruzzo, Sardegna, Sicilia, Campania, Calabria. Da questa suddivisione emerge una chiara disparità tra l’offerta sanitaria erogata nel Nord del Paese e quella erogata al Sud ed è per questo necessario cercare nuove forme di governo ed organizzazione in risposta alle dinamiche demografiche ed epidemiologiche che caratterizzano questo momento storico. L’Italia si caratterizza per avere una popolazione mediamente molto longeva (81 anni gli uomini e 85 le donne) e con una quota di over 65 tra le più alte al mondo: nel 2018 erano 13,6 milioni (22,8% del totale), in aumento dell’11% dal 2012. Sono previsti crescere ininterrottamente fino al 2047, quando saranno quasi 20 milioni (34%). L’indice di dipendenza degli anziani ha raggiunto il 35,7%, ciò significa che in Italia ogni 3 persone attive vi è 1 over 65. Si tratta del valore più elevato in Europa (31%) e il secondo al mondo dopo il Giappone (46%). Le implicazioni per la salute sono evidenti. Lo scenario epidemiologico, infatti, è caratterizzato da ampie fasce della popolazione affetta da più patologie croniche e correlate a disabilità fisica e psichica. I dati Istat mostrano come il 48% delle persone anziane hanno tre o più condizioni croniche. A giustificare la partenza dal sud di una tale iniziativa sono i saldi che hanno caratterizzato e ancora caratterizzano il sistema della salute meridionale. Per evitare che i meridionali cerchino assistenza altrove scappando via dalle loro abituali residenze. I numeri della migrazione sono infatti inenarrabili, non riscontrabili in nessun Paese occidentale. Una migrazione sanitaria alle stelle: 1,73 miliardi di euro al 31 dicembre 2018, con il 2019 in incremento e un 2020 attenuato solo a causa del lockdown. In alcune regioni, incidono addirittura nella misura di oltre il 9% del Fondo sanitario regionale. Un altro dato da brivido è rappresentato dall’attuale consistenza della popolazione anziana residente nelle regioni meridionali, in comuni con altitudine minima tra 400/500 s.l.m., che raggiunge il numero elevatissimo di oltre tre milioni e mezzo su diciotto milioni e ottocento di popolazione totale, al netto della pianeggiante Puglia e al lordo di una orografia ovunque impossibile. Un dato che dimostra, stante la rilevata carenza di assistenza distrettuale, l’entità degli anziani lasciati da soli senza le cure territoriali e domiciliari che li raggiungano ordinariamente, tenuto conto che la c.d. medicina di famiglia non offre al riguardo certezza alcuna. Sin dalle fasi iniziali della pandemia, i Presidenti di Regione hanno guadagnato il centro del dibattito pubblico contraddistinguendosi per una varietà di risposte politiche alla crisi in atto. Nel contempo, almeno nelle sue fasi iniziali, ha suscitato viva preoccupazione il fatto che la pandemia potesse raggiungere le regioni meridionali. Se, infatti, i sistemi sanitari regionali del Nord, generalmente riconosciuti come più efficienti, stavano rispondendo così male alla crisi sanitaria, si temeva quello che sarebbe potuto succedere quando il contagio avesse raggiunto le regioni del Sud, da decenni tacciate di inefficienza in ambito sanitario. Per finire, la crisi in corso ha messo in luce il rapporto complesso tra regioni e Stato nell’ambito della politica sanitaria: alle decisioni autonome delle singole regioni, si sono opposte le esigenze di coordinamento dello Stato, nel tentativo di superare la polifonia dei 21 sistemi sanitari regionali e creare una strategia coerente di risposta alla pandemia. La questione sanitaria è diventata la vera, drammatica e nuova questione meridionale poiché è dal diritto alla salute e alle cure che passa la verifica fondamentale della tenuta democratica. “Mezzogiorno Federato” ha ritenuto proporre alle regioni meridionali di fare qualcosa unitariamente. Di fare, da subito, sistema nella produzione dell’istanza relativa e di rivendicare l’esigibilità per i propri residenti di quanto gli stessi non hanno fino ad oggi goduto. Di conseguenza, è passata dalla teoria alla elaborazione progettuale da discutere e convenire con i Presidenti delle Regioni del Mezzogiorno. Un progetto, strutturalmente riformatore, da tradurre in una istanza che diventi anche attrattiva di quella trasformazione del welfare assistenziale che il Recovery Fund pretende in una delle sue missioni. Un’unica istanza politico-istituzionale, che intende rispondere con una proposta sistemica alle pretese di «giustizia ed economia sociale» delle regioni che registrano da sempre ritardi di progresso, di occupazione e di servizi pubblici, soprattutto di quelli destinati alla cura della persona. Il post. L’occasione della nex generation eu rende l’impresa una realtà da materializzare. Ciò allo scopo di progettare insieme la migliore generale crescita del Mezzogiorno, evitando quelle pericolose concorrenze generative, peraltro, di inutili e ripetute realizzazioni del tipo quelle che hanno prodotto povertà piuttosto che produzioni eccellenti di beni e servizi. Anche se apparentemente molto diverso, il mondo dell’industria ha trovato nella formula “Industria 4.0” il suo percorso di innovazione all’indomani della dura crisi economica del primo decennio del nuovo millennio e potrebbe offrire qualche significativo spunto per individuare le soluzioni innovative in grado di trasformare i sistemi sanitari in un momento drammatico, nel quale la pandemia ha messo a nudo definitivamente la crisi amministrativa che dura da trent’anni: scarsa semplificazione e snellezza amministrativa; poca digitalizzazione intelligente; regolamenti di organizzazione che vengono verniciati di modernità ma sono come quelli degli anni settanta; rapporti con l’utenza ed i cittadini senza chiarezza e con scarsa efficacia; organizzazione del lavoro pubblico che viaggia su di una dimensione quasi opposta alle esigenze della società contemporanea. In che modo le tecnologie abilitanti che caratterizzano la quarta rivoluzione industriale (digitalizzazione, robotica, big data e intelligenza artificiale, la realtà “aumentata”, la produzione “additiva” delle stampanti 3D, ecc.) potranno impattare sulla sanità del futuro? La cosiddetta Sanità 4.0 potrà effettivamente contribuire a “salvare” i sistemi sanitari dal problema della sostenibilità, o ne accelererà la scomparsa? L’uso delle tecnologie digitali, e le relative trasformazioni sui servizi “alla salute”, promuoveranno la crescita dell’occupazione o accelereranno la “distruzione” di posti di lavoro? Quali saranno le implicazioni per il rapporto tra medico e paziente e, in generale, quali saranno le ricadute per la dignità dei malati e delle persone? Ma soprattutto, la digitalizzazione fornirà indistintamente a tutti le possibilità di cura che sembrano essere promesse dall’uso della nuova tecnologia? Queste domande nascondono, in realtà, un dilemma che non riguarda solo il settore della salute, ma che riguarda il futuro della nostra società a seguito della trasformazione digitale in corso   La centralità della medicina di territorio Deve essere il cuore della riorganizzazione della gestione della salute nei suoi contenuti e nelle sue istituzioni. L’azione deve essere globale e locale. Globale, nella ricerca, per i vaccini e per i farmaci curativi, per tutti. Locale, nel sostegno e riorganizzazione del sistema sanitario nazionale, nella sua dimensione interregionale e nel rapporto anche finanziario con la UE.   SI PROPONE:
  1. A) - graduale riattivazione di percorsi protetti assistenziali, sia territoriali che ospedalieri e riabilitativi, per tornare a fronteggiare le patologie ordinarie, a cominciare da quelle più complesse (oncologia, terapie radianti, diagnostica per immagini, malattie cardiocircolatorie e respiratorie, neurologia, nefrologia, ematologia, attività chirurgiche di elezione e trapiantologiche, medicina interna); B) - verifica delle attività intensivistiche e infettivologiche pre e post pandemia e ritaratura in base alle esigenze ordinarie e alla subentrata straordinarietà, alfine di costruire una duplice e sostenibile risposta modulare: di base ed emergenziale; C) - rafforzamento ed estensione di tutte le attività di prevenzione, di assistenza territoriale e della continuità assistenziale nonché riabilitative, anche attraverso la sperimentazione di setting assistenziali innovativi e contestuale superamento di modelli obsoleti e/o inefficaci; rafforzamento e allargamento delle attività vaccinali; rafforzamento strutturale, tecnologico e organizzativo dei Dipartimenti di Prevenzione delle AA.SS.LL.; riorganizzazione dei modelli strutturali, tecnologici e organizzativi dei Distretti sanitari delle AA.SS.LL., nelle plurime funzioni assistenziali, riabilitative e amministrative; ricontrattazione del rapporto professionale con i Medici di Medicina Generale ed i Pediatri di Libera Scelta finalizzata alla ridefinizione dei percorsi assistenziali rivolti agli assistiti diretti, alle attività di gruppo, all’assistenza ai pazienti ospitati nelle strutture territoriali (Case della Salute, Ospedali di Comunità, RSA, RSSA, Case protette, Hospices) nonché alla attivazione dei fondamentali e quasi mai attivati processi di integrazione tra assistenza territoriale e assistenza ospedaliera, anche attraverso l’istituzione di Dipartimenti integrati; rafforzamento, di concerto con i competenti Istituti nazionali, delle azioni di tutela della salute nei luoghi di lavoro; rafforzamento strutturale, tecnologico ed organico della Medicina Veterinaria; potenziamento del sistema di emergenza 118, con ulteriori modelli di integrazione di risorse pubbliche e del volontariato; razionalizzazione dell’assistenza farmaceutica, anche attraverso la dislocazione delle farmacie convenzionate, l’implementazione delle loro attività di prevenzione e di diagnostica di base, la ricontrattazione dei modelli di distribuzione del farmaco; potenziamento delle Agenzie Regionali di Protezione Ambientale che finalizzazione specifica al contrasto degli inquinamenti che favoriscono le patologie infettive e le diffusioni epidemiche;
 
  1. D) - riconsiderazione dell’assistenza ospedaliera in direzione di un approccio olistico al paziente, della semplificazione delle rigidità organizzative e gerarchiche e dell’integrazione sempre più accentuata tra le attività mediche, delle professioni sanitarie e ausiliarie; potenziamento delle attività ospedaliere di diagnosi e cura con tempistica limitata (day service, day hospital, day surgery). I modelli assistenziali descritti vanno contestualmente sostenuti da percorsi formativi appropriati tali da consentire il reclutamento del personale necessario, sia in termini qualitativi che quantitativi. Analogo sostegno va assicurato alle attività di ricerca attraverso una sempre più puntuale integrazione tra le istituzioni universitarie, i centri e gli istituti di ricerca e le strutture del SSN. Onde consentire l’efficientamento e/o la realizzazione delle attività proposte, appare necessario e improcrastinabile: 1) - l’incremento delle risorse attribuite al Fondo sanitario nazionale, allineando agli stanziamenti previsti nei principali Paesi europei (+10% del PIL), estrapolando tale spesa dal Piano di Stabilità in considerazione della sua obbligatorietà; 2) - revisione dei criteri di riparto del Fondo tra le regioni, attenuando l’effetto della quota pesata (anzianità della popolazione) e introducendo l’indice di deprivazione; 3) - istituzione di un Fondo decennale, cofinanziato dall’Unione europea, destinato alle regioni carenti di standard organizzativi, tecnologici e strutturali, alcune di ridurre progressivamente e definitivamente il gap esistente con le regioni più efficienti; 4) - ridefinizione del rapporto pubblico/privato con l’obiettivo di riconsegnare all’organizzazione sanitaria pubblica le funzioni e le attività assistenziali strategiche; contrasto delle attività private funzionali alla formazione di quote significative di mobilità passiva; 5) - ridefinizione degli standard organizzativi, strutturali e tecnologici delle residenze, a vario titolo destinate all’assistenza delle persone anziane e/o fragili, e introduzione di un sistema efficace e permanentemente di controlli quali/quantitativi; 6) - aggiornamento dei LEA (Livelli Essenziali di Assistenza) finalizzato al rafforzamento dello spettro prestazionale e al miglioramento complessivo dell’assistenza erogata dal Servizio Sanitario Nazionale. Nella riorganizzazione e rilancio della medicina territoriale, il medico deve avere il primato decisionale, ed i comuni dovranno avere un ruolo attivo soprattutto nella prevenzione. Ancora oggi il sindaco è il primo responsabile della salute pubblica nel suo comune. Le Regioni del Mezzogiorno devono essere ricondotte ad una riorganizzazione della gestione sanitaria su base funzionale, non limitata nei confini amministrativi regionali.
  Questo attraverso una collaborazione sistemica regionale, ed interregionale resa possibile dalla applicazione convinta delle norme sancite dall’art.117 della Costituzione Italiana. La salute degli abitanti non può prescindere dal tenere uniti i due aspetti della salute e del sociale, base fondante del nuovo stile di una medicina di iniziativa intesa come il passaggio da un’offerta di servizi passiva e non coordinata ad un’assistenza integrata in cui ogni soggetto coinvolto svolga il proprio ruolo senza sovrapposizioni, garantendo ai cittadini interventi adeguati e differenziati in rapporto al livello di rischio per la salute.   Una opportunità per le scuole mediche di recente istituzione Il piano nazionale di ripresa e della resilienza richiama nei suoi interventi in ambito sanitario proprio il mondo della ricerca, delle tecnologie innovative, e della formazione. Le sedi di ateneo del nostro mezzogiorno, soprattutto quelle più giovani provano a continuare una sfida impari da anni interna al nostro sistema universitario nazionale dovuta al perdurare dei criteri sperequativo con cui avviene la distribuzione del fondo di finanziamento ordinario tra le università del Centro Nord e quelle del Sud, vedi la persistenza di un perverso parametro ripartitivo della stessa quota base rappresentato dal rapporto tra spese fisse e dato cumulativo del FFO sommato al contributo delle tasse degli studenti e delle aggiuntive risorse del territorio col risultato che laddove il rapporto è più basso, vedi regioni a reddito medio - alto, e quindi con un apporto di tasse studentesche più elevato, e con risorse aggiuntive provenienti de contesti socioeconomici più ricchi diventa paradossalmente più premiale per la sede di riferimento. Un premialità oltre tutto che non è aggiunta al FFO nazionale, come più volte reclamato, ma che, di fatto, viene da esso derivata a detrimento delle sedi più deboli. In questo contesto tuttavia gli atenei del mezzogiorno con FFO insufficienti ma che hanno recentemente attivato al loro interno una scuola medica possono certamente intercettare nuove risorse previste dal PNRR se faranno scelte strategiche per una ricerca realmente innovativa in ambito biomedico saputa collegare sia al profilo clinico terapeutico, che a quello socio assistenziale quest’ultimo con ricadute positive anche sull’emancipazione del nuovo assetto della sanità territoriale. Mezzogiorno Federato ha ritenuto proporre alle regioni meridionali di fare qualcosa unitariamente.   Di fare, da subito, sistema nella produzione dell’istanza relativa e di rivendicare l’esigibilità per i propri residenti di quanto gli stessi non hanno fino ad oggi goduto. Di conseguenza, è passata dalla teoria ai fatti con una elaborazione progettuale da discutere e convenire con i Presidenti delle Regioni Meridionali. Un progetto, strutturalmente riformatore, da tradurre in una istanza che diventi anche attrattiva di quella trasformazione del welfare assistenziale che il Recovery Fund pretende in una delle sue missioni. Magari, facendo anche proprie le disponibilità finanziarie, rese disponibili dal Mes sanitario, che francamente, diventa impossibile supporre di non utilizzare. Per noi equivarrebbe a circa 37 miliardi, la cui unica condizionalità sarebbe di utilizzare i relativi fondi a esclusivo sostegno del sistema sanitario. “Dire No al Mes sanitario, per pregiudizio ideologico, significa andare contro l’interesse del Mezzogiorno.  

L’anello debole: Il paese degli ultimi

Gli ultimi sono stati anni difficili. Tutti abbiamo in qualche modo sofferto gli effetti della pandemia, e qualcuno certamente più di altri. Le previsioni segnano un aggravamento del fenomeno in questi giorni, per l’impatto che la crisi energetica produce sulle nostre vite quotidiane. Nel momento in cui gli effetti della pandemia stavano progressivamente riducendosi, una nuova criticità ha sconvolto la nostra vita: la guerra con i suoi drammi e le sue nefaste conseguenze, nel cuore dell’Europa. Ha prodotto una situazione di emergenza come mai si era vista nel continente europeo, perlomeno in tempi successivi al secondo conflitto mondiale. Una situazione che sta producendo una serie di conseguenze non solamente sul piano umanitario, ma anche su quello del tenore di vita e delle condizioni socio-economiche delle famiglie nel nostro paese. È di questi giorni il dibattito sull’impatto che l’aumento dei costi energetici avrà sul bilancio familiare, con particolare riguardo a quei nuclei a basso reddito o a reddito fisso, che non sono in grado di incrementare in tempi rapidi il volume delle proprie entrate economiche. Una ristretta minoranza di “privilegiati” non sembra sia intaccata dalla rilevante crescita inflazionistica che colpisce il nostro Paese, ma dopo anni di relativa stabilità finanziaria, emerge la presenza di un nucleo consistente di famiglie che sta registrando un peggioramento della propria situazione di fragilità e debolezza che erano già presenti prima dell’attuale contingenza economica. Per questi la pandemia economica e sociale non è mai finita. L’Italia post Covid lascia, infatti, indietro un italiano su dieci soprattutto al sud, una preoccupante povertà minorile da record, la crescente difficoltà per chi ha una famiglia numerosa di non arrivare a fine mese. Il rapporto sulla povertà della Caritas Italiana, presentato nella giornata mondiale di lotta all’indigenza, fotografa il 2021 nero dell’Italia nascosta, che non ce la fa: la popolazione che convive con la povertà quotidiana ai massimi storici che nemmeno il reddito di cittadinanza, percepito da 4,7 milioni di persone, raggiunge e affranca, solo il 44% delle persone in povertà assoluta. C’è un aggiustamento da fare ma mantenendo questo impegno che deve essere così importante in un momento in cui la povertà sarà ancora più dura, ancora più pesante e rischia di generare ancora più povertà in quelle fasce dove si oscilla nella sopravvivenza, che devono avere anche la possibilità di uscire da questa “zona retrocessione”. Cresce “Il paese degli ultimi” che conta 1 milione 960 mila famiglie in povertà assoluta, pari a 5.571.000 persone, il 9,4% della popolazione residente. L’incidenza si conferma più alta nel Mezzogiorno (10%) mentre scende significativamente nel Nord-Ovest (6,7% da 7,9%). Tra il 2020 e il 2021 la povertà è cresciuta più della media nelle famiglie con almeno 4 persone, con persona di riferimento di età tra 35 e 55 anni e quelle con almeno un reddito da lavoro. I livelli di povertà continuano a essere inversamente proporzionali all’età: la percentuale di poveri assoluti si attesta, infatti, al 14,2% fra i minori, in altre parole quasi 1,4 milioni di bambini e ragazzi; scende all’11,4% fra i giovani di 18-34 anni e all’11,1% per la classe 35-64 anni, mentre scende al 5,3% per gli over 65. Uomini e donne sono la metà esatta degli assistiti mentre l’età media è quasi di 46 anni: “Equilibristi” che, con lavori precari, entrano ed escono dallo stato di bisogno. È cresciuta rispetto al 2020 l’incidenza degli stranieri, il 55% a livello nazionale con punte del 65,7% e del 61,2% nel Nord-Ovest e nel Nord-Est, dove la presenza degli immigrati è superiore e la vita è più cara. Nel Sud e nelle Isole prevalgono gli assistiti italiani, rispettivamente il 68,3% e il 74,2% dell’utenza. La Caritas ha erogato nel 2021 quasi un milione e mezzo di interventi. Tre quarti degli aiuti riguardavano la spesa alimentare e circa il 5% sussidi economici per il pagamento di affitti e bollette. Questi, però, già nel 2021 per i rincari da transizione energetica hanno assorbito oltre tre quarti delle spese. Quest’anno con i rincari la situazione è destinata a diventare molto più difficile. Il dato emerge anche dall’indagine degli istituti mUp Research e Norstat: a causa dell’aumento del prezzo dell’energia 4,7 milioni d’italiani hanno saltato il pagamento di una o più bollette luce e gas negli ultimi 9 mesi. Un numero destinato ad aumentare se i prezzi continueranno a crescere. secondo la quale ci sono infatti 3,3 milioni di italiani che hanno dichiarato che, in caso di ulteriori rincari, potrebbero trovarsi nell’impossibilità di far fronte alle prossime bollette energetiche. Quasi 2 morosi su 3 (62%) hanno detto che è stata la prima volta che hanno saltato il pagamento delle bollette. Guardando i numeri più da vicino si scopre che se a livello nazionale la percentuale di chi ha dichiarato di non aver pagato una o più bollette negli ultimi 9 mesi è pari al 10,7%, il fenomeno è più diffuso nelle regioni del Centro Italia (11,5%) e al Sud e nelle Isole (11,2%). E in prospettiva dei prossimi aumenti, le aree più a rischio sono quelle del Meridione (9,4% a fronte di una media nazionale pari al 7,7%). Nel corso della pandemia abbiamo riscoperto il senso di empatia nei confronti di chi stava soffrendo cui oggi fa seguito il riaffiorare di sentimenti e atteggiamenti di discriminazione e d’intolleranza verso coloro che stanno peggio, che segnano il passo, che vivono situazioni di fragilità ed esclusione della quale il più delle volte non sono oggettivamente responsabili. Il rifiuto del diverso e del debole, soprattutto se connotato da etichette negative di responsabilità, non è una novità. Le scienze sociali lo definiscono aperofobia, Una paura dei nostri tempi, di ampiezza mondiale, in cui l’individuo rifiuta e distanzia i poveri per non esserne “contagiato”. Qualcuno la definisce come un male nuovo ma la storia insegna che tali timori e avversioni si sono sempre avvertiti nei secoli scorsi; ora, purtroppo, sono in aumento, in relazione alla crisi economica e all’incremento delle fasce povere della popolazione. È una paura che colpisce coloro che più si distaccano da modelli e condizionamenti sociali, e verso i quali si sviluppano atteggiamenti di ostilità e diffidenza. Illuminanti sono gli esiti dello studio condotto da Caritas Italiana sulla povertà ereditaria e intergenerazionale: molto spesso le condizioni di povertà vissute al momento presente dipendono e sono collegate alle situazioni di povertà del passato. Quasi sei persone su dieci che si rivolgono alla Caritas a chiedere aiuto sono costretti a vivere una condizione di precarietà economica in continuità con quella vissuta dalla propria famiglia di origine. Appare evidente che quando nella storia di una famiglia alcuni componenti vivono per più generazioni delle situazioni acute di povertà e vulnerabilità sociale, il vissuto negativo e le varie forme di gap sociale sperimentate dai protagonisti di tali situazioni si riflettono sulle generazioni successive, producendo la creazione di una serie consecutiva di anelli deboli che nel tempo possono portare a situazioni spesso irreversibili di cronicità. La persistenza all’interno di un sistema sociale di una serie ininterrotta di anelli deboli determina nel tempo una paura crescente di diventare poveri e, più in generale, la diffusione di sentimenti di paura verso il futuro. Nell’Italia dove la mobilità sociale è ferma da molti anni, oltre ad esserci sempre più minori in stato di indigenza, la povertà è diventata ereditaria come conferma una ricerca intergenerazionale sui beneficiari. Sono, infatti, i figli delle persone meno istruite a interrompere gli studi prematuramente. Al contrario tra i figli di laureati, oltre la metà arriva a un diploma superiore o alla laurea. Più del 70% dei padri degli assistiti risulta occupato in professioni a bassa specializzazione mentre 7 madri su 10 sono casalinghe. Circa un figlio su cinque ha mantenuto la stessa posizione occupazionale dei padri e il 42,8% ha invece sperimentato addirittura una mobilità discendente. “L’ascensore sociale è guasto, è rotto da tempo” ha denunciato il cardinale Matteo Zuppi. Il problema non è soltanto cercare di fare quello che si può, ma bisogna fare quello che serve. La sofferenza non può aspettare, non deve aspettare. Quello che stiamo vivendo è un tempo molto buio sul piano della qualità della rappresentanza politica. Don Lorenzo Milani ha il merito di aver spiegato con semplicità che se abbiamo un problema in comune e cerchiamo di uscirne da soli, si chiama “egoismo”, se cerchiamo di uscirne insieme, si chiama “politica”. Ovviamente don Milani si riferiva alla Politica alta, dei cittadini attivi e degli statisti che pensano alle future generazioni, non a quelli che si nutrono di sondaggi pensando solo alle prossime elezioni, alle proprie ambizioni. Per guardare al futuro è necessario risolvere il presente altrimenti la visione del futuro resta del tutto staccata dalla realtà...  

Offerta federata degli itinerari turistici e culturali

Anche il turismo va portato a sistema nella piattaforma euro- E CULTURAmediterranea, nella efficienza dei servizi commerciali e di mobilità. Ma la costruzione dell’offerta turistica deve determinare un salto di qualità e valore nel prodotto turistico, facendolo diventare fortemente competitivo soprattutto sui mercati lontani, che richiedono pacchetti integrati e completi. Un esempio di progetto speciale da riprendere è quello sugli Itinerari turistici e culturali, che unificavano tutto il Mezzogiorno in una offerta culturale, residenziale, di mobilità, gastronomica, di tradizioni e costumi, di bellezze naturali, valorizzando una civiltà e rendendola fruibile alle diverse esigenze del mercato turistico europeo e mondiale. Partendo da queste considerazioni, avendo presente il notevole patrimonio ambientale, di storia, di arte, di cultura del Mezzogiorno e il suo insufficiente livello di valorizzazione, questo progetto integrato sugli «itinerari turistici e culturali del Mezzogiorno» è stato nel passato parzialmente realizzato. Finalità del progetto è la valorizzazione culturale, economica e sociale del patrimonio turistico, storico, artistico e ambientale del Mezzogiorno. Salvaguardare e valorizzare questo patrimonio è, innanzitutto, un dovere verso la storia delle regioni meridionali, e, in un secondo momento, eventuale fonte di reddito e di occupazione, anche qualificata. La ricerca di nuove forme di turismo che leghino il tempo libero con la cultura è una forma innovatrice di sicuro interesse. In tale ambito va sottolineato come sempre più spesso nel mondo i beni culturali sono utilizzati per valorizzare i beni ambientali. Casi come quelli dei Castelli della Loira o delle città Maya dello Yucatan messicano dimostrano il valore di simili integrazioni. Le sette direttrici di antiche civiltà del Mezzogiorno - di seguito riportate - corrispondono a tematiche culturali omogenee, interessanti più regioni: 1) - la direttrice degli insediamenti di origine feniciocartaginese-romana, che interessa la Sicilia e la Sardegna; 2) - la direttrice della Magna Grecia, che interessa la Sicilia, la Calabria, la Puglia, la Basilicata e la Campania; 3) la direttrice dell’Appia Antica (civiltà romana), che interessa il Lazio meridionale, la Campania, la Basilicata e la Puglia; 4) la direttrice araba, normanna e sveva, che interessa la Sicilia, la Calabria, la Puglia, la Basilicata e la Campania; 5) - la direttrice delle civiltà rupestri e degli insediamenti sorti lungo l’antico tracciato della transumanza, che attraversa l’Abruzzo, il Molise e la Puglia e la Basilicata; 6) - la direttrice delle «capitali del barocco», che interessa prevalentemente la Campania, la Basilicata, la Puglia e la Sicilia; 7) - a direttrice della civiltà sannitica, che interessa prevalentemente la Campania e il Molise. Essendo assai ampia la dimensione del progetto integrato, occorre evitare paralizzanti procedure legate alla sovrapposizione di competenze tra regioni e organi ordinari dello Stato, sperimentando nuovi strumenti operativi ispirati alla integrazione Stato Regioni, alla interregionalità ed alla disponibilità delle regole comunitarie nell’uso dei fondi strutturali. Gli obiettivi del progetto sono culturali, economici e sociali, tenendo presenti gli sviluppi derivanti dalle loro interrelazioni: un nuovo posto di lavoro creato in un museo inserito nei grandi flussi turistici è un fatto sociale ma anche economico e culturale, migliorare l’immagine dell’Italia all’estero è un fatto politico oltre che culturale ed economico. Obiettivi di tipo culturale: recuperare valori e identità culturali della comunità che il tempo e l’emarginazione rischiano di far scomparire.   L’offerta integrata degli itinerari turistici e culturali. Gli obiettivi Salvaguardare e valorizzare i beni storico-artistici del Mezzogiorno; diffondere cultura nel paese e nel mondo; contribuire a migliorare l’immagine del Mezzogiorno nel paese e nel mondo; recuperare a un’utenza pubblica indirizzata complessi di valore storicoartistico e monumenti.   Obiettivi di tipo sociale: valorizzare le aree interne del Mezzogiorno che più hanno subito negli anni ‘50 un processo di spopolamento e impoverimento; aumentare e qualificare l’occupazione nel Mezzogiorno; suscitare energie locali attraverso lo sviluppo di forme associative; creare nuovi indirizzi di formazione professionale specifica da utilizzare nei settori turismo e cultura.   Obiettivi di tipo economico: incrementare la domanda di turismo nazionale ed estero verso il Mezzogiorno, soprattutto nelle medie e basse stagioni e nelle aree a minor grado di sviluppo turistico; valorizzare gli attuali flussi di turismo di tipo ricreativo integrandoli con quello culturale; determinare un bilancio economicamente positivo dell’intero progetto, sia pure con redditività da valutare sul lungo periodo e complessivamente; contribuire al riequilibrio della bilancia dei pagamenti. L’intuizione centrale del progetto consiste nel fatto che i beni culturali, un tempo considerati campo di interesse riservato a un élite di specialisti e di studiosi, sono ormai ritenuti patrimonio di tutti, e per ciò stesso in grado di valorizzare altri beni non riproducibili, come quelli naturalistico-ambientali e le stesse attrezzature già esistenti. Si tratta, in definitiva, di aver individuato nei beni culturali una risorsa primaria dalla cui Massafra, Candelora, affresco di San Nicola Pellegrino (part.) valorizzazione possono derivare importanti effetti economici e sociali per lo sviluppo del Mezzogiorno. La valorizzazione dei beni culturali può determinare o favorire iniziative che utilizzano prevalentemente risorse ed energie locali. Gli interventi allora realizzati dalla Cassa del Mezzogiorno, al di fuori quindi degli stanziamenti ordinari, sono significativi, e danno il senso della concretezza ed incisività del progetto. Per ricordarne alcuni, sulle quasi mille azioni di risanamento e restauro: la villa romana di Piazza Armerina, l’area archeologica di Barumini, gli scavi di Sibari, di Pompei ed Ercolano, i castelli di Melfi e Lago pesole, chiesa e chiostro di Santa Chiara a Napoli, la Certosa di Padula, Palazzo Abatellis a Palermo, Abbazia di Fossanova, San Nicola di Bari, cattedrali di Trani, di Gallipoli, di Taranto, di Oria, chiesa Santacroce di Lecce, il Castello di Carovigno e Castel del Monte etc.   Questi interventi segnano, almeno per i pochi anni di operatività del progetto, un criterio funzionale alle finalità complessive che si perseguivano: gli itinerari erano concepiti per riunificare il Mezzogiorno, secondo le nervature ella sua storia e del suo presente; ma anche facendo sì che ciascun itinerario esprimesse un’offerta integrata nella quale si fondesse l’efficienza mirata dei trasporti, la ricettività alberghiera di diversa qualità e dimensione, la presentazione dell’artigianato nelle sue diverse specificità, il richiamo enogastronomico, i costumi e le tradizioni capaci di emozionare e far comprendere e vivere l’anima delle comunità, la bellezza della natura, la grande bellezza del patrimonio architettonico ed artistico del territorio, l’arte viva, la musica, il teatro, insomma l’offerta dell’itinerario diventa un operazione di grande complessità economica e culturale. La complessità del prodotto che si mette sul mercato del turismo internazionale ed interno, si traduce anche nei contenitori attivi che si debbono costruire: operatori culturali e turistici preparati; centri di orientamento adeguati; siti interattivi capaci di guidare il turista e di reggere la richiesta di e-commerce; accordo con i gestori dei grandi flussi turistici internazionali e delle aree di maggiore disponibilità ed attenzione alla nuova tipologia di offerta che viene proposta. La estrema sintesi alla quale si vuole affidare la spiegazione di questo progetto non chiarisce tutte le applicazioni necessarie, ma può far comprendere la sua importanza e novità per le interrelazioni e le potenzialità contenute.   Itinerario alla riscoperta della civiltà rupestre Tra i tanti progetti identificati per dare corpo al percorso federato si è deciso di partire da una riflessione condivisa sulle radici storicoculturali del Mezzogiorno e tra queste la civiltà rupestre, per la sua “attualità” in questo momento di confusione politicoistituzionale e di disorientamento personale e sociale, nel quale ci sembra che la ricerca di un nuovo abitare nelle nostre terre ci “ristori” l’anima dalle crescenti ansie per il futuro, o meglio, riflettere su come e perché invitare noi stessi, oltre che gli altri pezzi di Italia e del mondo, a conoscere le testimonianze di questa civiltà, con lo sguardo benevolo di un cittadino consapevole, responsabile e attivo, che cerca nel passato le ragioni e le coordinate di un cambiamento, con tutta la resilienza dei meridionali, intesa nel suo senso più autentico, ovvero come capacità di: fare fronte in maniera positiva ad eventi traumatici; di riorganizzare positivamente la propria vita dinanzi alle difficoltà; di ricostruirsi restando sensibili alle opportunità positive che la vita offre, senza alienare la propria identità. Tutto ciò, anche nella consapevolezza che un ancoraggio di certe attività tipiche ad un determinato contesto, culturale e territoriale, comincia ad avere riconoscimento anche nel diritto europeo dell’economia, laddove la varietà e l’eterogeneità dei temi di riferimento proprio degli itinerari turistico-culturali concorre a renderli sempre più strumenti strategici dell’economia della cultura. In attesa di poter ridurre le distanze tra le persone e, soprattutto, di poterci “muovere” tra le nostre regioni, vogliamo cominciare a prepararci, a immaginare, a organizzare e, magari, a simulare, con l’aiuto dei giovani nativi (digitali ed ecologisti), oltre che delle tecnologie della 4a rivoluzione industriale, un viaggio, un cammino, un itinerario, un percorso con una rotta e una meta (anche non materiale) da seguire che comincia da alcune tappe in regioni, città, borghi del Mezzogiorno, tra le più rappresentative della civiltà rupestre, anche se, spesso, non tra le più narrate e conosciute di Italia: dalla famosa Basilicata, con i suoi “sassi di Matera”, la Puglia con le sue “murge“ e la Campania con i suoi “muretti a secco”… tanto per citarne qualcuna.   Gli itinerari turistico culturali I più antichi itinerari culturali - della cultura religiosa, per quasi un millennio egemone - furono le vie dei pellegrini che compivano le “peregrinationes majores” o il Cammino di Santiago. Dalla fine del ’600 ebbero inizio i “grand tours” delle élites colte del nord Europa alla scoperta dei luoghi e delle città d’arte, in Francia ed in Italia che nell’800 del romanticismo si arricchirono della ricerca delle vedute e delle bellezze naturali. Il secondo novecento è stata l’epoca del tempo libero e del turismo di massa. L’ultima “scoperta” del turismo di massa sono i beni (musei e città d’arte e gli eventi culturali (mostre). In quest’ambito gli itinerari culturali che si propongono rappresentano una nuova forma di offerta, che ha l’intento da un lato di spalmare sul territorio la più recente e ricca domanda turistica e dall’altro di promuovere l’occupazione soprattutto di giovani nelle regioni meno sviluppate. La proposta si articola intorno ad una visione di sviluppo integrato di territorio a base culturale avendo come obiettivo quella di offrire una risposta sulla sostenibilità e sulla messa a sistema e in rete beni materiali e immateriali, le diverse culture che attraverso il paesaggio danno al territorio la dimensione della sua trasformazione complessa. La particolarità è che gli itinerari turistico-culturali sono degli oggetti di natura immateriali e a funzione di rigenerazione economico-sociale, che fanno riferimento ad un insieme di località, di interesse religioso, storicoartistico, paesistico o culturale nel senso più lato. Con i termini della di “new economy” sono: una forma di connessione sistemica rappresentata da un insieme di nodi e di segmenti, interconnesso in funzione di un tema culturale unificante e ancora reti immateriali, ordinate allo sviluppo del turismo culturale e dell’occupazione e che tendono ad una forma amministrativa che possa essere modello di sussidiarietà verticale ed orizzontale e di amministrazione condivisa, che, nella presente accezione, potrebbe prospettare gestioni locali partecipate del tipo “imprese di comunità” (cooperative e/o fondazioni) con reti di impresa /club di prodotto turistico (offerta turistica integrata) identitari nelle diverse tappe di ciascun itinerario. Il tema La civiltà rupestre è un museo ascosto che sta nella natura e ne connota il paesaggio. Per svelarne il volto non occorre salire in alto o sudare per arrampicarsi sui monti. É sufficiente scendere... nelle gravine, gravine dell’arco jonico, nelle lame che scendono sull’Adriatico, nelle terre rocciose delle murge pugliesi, nelle e gole dell’altopiano ibleo siciliano, nei i villaggi rupestri calabri, nei più celebri Sassi che da Gravina di puglia vanno verso Matera.   Le origini degli insediamenti rupestri sono molto antiche, tanto che le tracce più remote della presenza dell’uomo risalgono ad epoca protostorica. Il ritrovamento di reperti precedenti all’età classica e di età medievale ha portato ad ipotizzare una interruzione durante il periodo classico e un ritorno nell’età successiva fino a prolungarsi, senza soluzione di continuità, ai secoli XIV e XV come ci attesta la documentazione iconografica reperita. La civiltà rupestre, come fenomeno di aggregazione sociale, si esaurì a partire dal XIV secolo con l’affermarsi di una diversa cultura abitativa che giunse all’utilizzo degli impianti rupestri in funzione delle successive costruzioni di case lamiate, case soprane, case palaziate, …). Con la nascita dei Borghi di cui, ad esempio, la Basilicata ne è testimonianza evidente, le popolazioni si aggregano intorno a unità abitative semplici in cui lo spazio pubblico e privato sono un tutt’uno nel senso della continuità architettonica e urbanistica lungo percorsi e itinerari della transumanza piuttosto che del passaggio di cibo e alimenti della produzione agricola o ancora dei militari che andavano alle Crociate. Le motivazione e le finalità della scelta Il paradosso previsto, se non auspicato, dell’era digitale è delle prime conseguenze dei cambiamenti climatici provocati dall’incuria del genere umano, tra i quali si annoverano non solo le alluvioni, le frane, il trasbordo dei fiumi, ma anche senza dubbio le epidemie e fra tutte la pandemia da Covid19, è un ripensamento alla natura, ai boschi, alle campagne, ai parchi ai giardini e alle forme di civiltà che hanno “convissuto” con rispetto e anche in maniera produttiva con la natura. Proprio l’emergenza sanitaria ha messo in evidenza la necessità di recuperare spazi e contesti da fruibile in modi e tempi differenti e con una potenziale flessibilità nell’uso, luoghi nei quali è anche possibile riacquistare fiducia e senso di appartenenza, attraverso attività di aggregazione sociale controllata. Gli itinerari potrebbero riarticolare il rapporto tra architettura rupestre e i contesti spesso abbandonati e difficilmente accessibili. Una “madre natura” che ci ha suggerito nei secoli comportamenti, ma anche saperi e abilità che dobbiamo reimparare, magari attualizzandoli, prendendo il bene della trasformazione digitale, in un processo detto di transizione verde, oramai ineluttabile, che non significa solo mettere depuratori qua e là, o utilizzare energie alternative, o riutilizzare i rifiuti, ma che è un cambiamento culturale che ci suggerisce di attingere dal passato per ritrovare l’armonia persa che è la vera causa delle nuove ansie, malesseri e malanni. Si tratta di un cambiamento che deve partire dalla conoscenza della tradizione per una reinterpretazione e utilizzo in chiave contemporanea. Andare alla scoperta o alla riscoperta di tutto ciò, re-imparando dai più antichi saperi, conservarli, ri-produrli, per rigenerare, anche economicamente, le persone e i luoghi rappresentano la vera anima dell’itinerario “Civiltà rupestri”.   Le tappe dell’itinerario “civiltà rupestre” nel Mezzogiorno, si prevede una sperimentazione su almeno 3 regioni: Campania (la meno indagata in merito), Basilicata e Puglia. La Campania ha una fittissima rete di chiese e architetture religiose rupestri, oltre 100 che potrebbero da sé costituire un interessante itinerario sul territorio regionale. Le aree con maggiore concentrazione sono la Costiera amalfitana, le aree interne del Cilento e alcune zone dell’avellinese che per la loro particolare orografia hanno favorito questo tipo di architettura); la Basilicata la più nota per i suoi sassi e il suo territorio vulcanico, una grande area dove natura cultura e ambiente connotano i luoghi e in cui lo sviluppo di una civiltà intorno alla agricoltura e alla pastorizia rimane ancora oggi fondamentale per la propria economia. Dall’area materana all’area del marmoplatano e del vulture fra le Abbazie come quella di Pierno alle cascate di San Fele, ai laghi di Monticchio. La Puglia (la più indagata vedi testo “Il Comprensorio della civiltà rupestre di Fonseca Cosimo Damiano), che per paesaggio sul percorso materano fra Altamura Gravina Poggiorsini che si riconnette con Melfi Lagopesole e Venosa verso la Murgia, o ancora collegata attraverso i Monti Dauni con le aree interne fra Puglia e Campania. Le modalità di fruizione e la tempistica Gli itinerari potranno essere fruiti in presenza nella dimensione temporale del week end o della settimana all inclusive o a distanza con l’utilizzo delle tecnologie 4.0 o meglio delle KET- Key enabling Technologies dell’era della 4a rivoluzione industriale (dalla realtà aumentata e virtuale, all’Internet Of Things (IOT) o le nanotecnologie e i BIG DATA fino anche alla robotica).   Le tipologie di attività (ipotesi di lavoro) Recupero/restauro del patrimonio e delle vie di accesso alle testimonianze di Civiltà rupestre - Rilevamento delle problematiche di conservazione e accessibilità dei siti - Rilevamento metrico e geometrico dei siti e delle architetture anche per la creazione di modelli fruibili a distanza. - Interventi infrastrutturali di recupero e restauro conservativo Utilizzo delle metodologie e tecnologie del GIS (Geographic Information System) e del BIM (Building Information Model) dalla creazione di schede dei siti (edificato e verde circostante) alla progettazione al restauro con collaudo finale del patrimonio rilevato. La comune configurazione di aggregati di architetture rupestri in complessi rende ipotizzabile l’integrazione tra dati territoriali e architettonici in un CIM (City Information Modeling). Recupero e Innovazione delle strutture di accoglienza - Riqualificazione e adeguamenti tecnicofunzionale delle strutture di accoglienza - Adeguamento tecnologico delle strutture di accoglienza Comunicazione, branding e marketing territoriale - Animazione territoriale per la progettazione partecipata dell’Itinerario turistico-culturale “Civiltà rupestre” con la messa in rete dei Comuni ospitanti ; - Branding e azioni di comarketing delle testimonianze più rappresentative della Civiltà Rupestre - Produzioni multimediali (testi digitali/ video/docufiction) di story telling, anche immersiva, nella civiltà rupestre delle tappe dell’itinerario Formazione - Qualificazione e specializzazione del personale destinato ai servizi e alle strutture di accoglienza - Learning event “Civiltà rupestre” - Apprendimento informale attraverso la convivialità e l’umorismo - Corso di qualificazione per “Operatore/ operatrice murario/a di edilizia storica con tecniche tradizionali del territorio” - Corso di istruzione terziaria professionalizzante per “Conduzione cantieri di restauro 4.0 del paesaggio rupestre” (manufatti, edificato e verde storico) Creazione di imprese di comunità - Servizi di accoglienza e visita con guida specializzata - Reti di impresa come club di prodotto turistico locale (ospitalità +mobilità sostenibile interna (bici, microauto e trenini elettrici, cavallo/mulo)+artigianato + commercio..) - Produzione e vendita di souvenir d‘autore derivanti dalla collaborazione tra artisti e maestri artigiani Le policy e i programmi/progetti nazionali e europei di riferimento per il finanziamento - Next Generation UE- Investimenti pubblici: - Fondo per il Green New Deal (4,24 miliardi per il periodo 2020-2023) - Fondo per rilancio degli investimenti per lo sviluppo sostenibile e infrastrutturale dei Comuni (4 miliardi dal 2025 al 2034) - Contributi assegnati ai Comuni per investimenti in progetti di rigenerazione urbana (8,5 miliardi nel 2021- 2034) e per messa in sicurezza degli edifici e del territorio (8,8 miliardi nel 2021- 2034) - LN 158/2017- Misure per il sostegno e la valorizzazione dei piccoli comuni, nonché disposizioni per la riqualificazione e il recupero dei centri storici dei medesimi comuni bLR 1/2020 “Disposizioni in materia di cooperative di comunità” Il comitato esecutivo dell’itinerario Potrebbe essere costituito da: sindaci e gli assessori delegati a turismo e BBCC dei Comuni - tappa dell’itinerario, rappresentanti degli interessi e dei bisogni dei soggetti potenzialmente attivabili per l’ottimizzazione della realizzazione e della fruizione dell’itinerario (sovrintendenze, associazioni albergatori, B&B, agriturismi, ristoratori e altri pubblici esercizi, scuole).   Una accademia del paesaggio nell’era digitale Secondo la Convenzione Europea del Paesaggio (C.E.P.) sottoscritta nel 2000 dal Consiglio di Europa il Paesaggio “designa una determinata parte di territorio, così come è percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni” (art.1), introducendo un nuovo modo di considerare e gestire la dimensione paesaggistica del territorio, che si caratterizza per aver assegnato al paesaggio la qualità specifica di concetto giuridico autonomo. Il paesaggio rappresenta un elemento chiave del benessere individuale e sociale, e la sua salvaguardia, la sua gestione e la sua “progettazione “comportano diritti e responsabilità per ciascun individuo. In questo senso è forse oggi possibile, in un’era nella quale si comincia a capire che i cambiamenti climatici e le loro conseguenze, come i disastri ambientali e i danni alla salute dell’umanità, oggi nella forma di una storica pandemia, impongono che si cominci a parlare di diritto al paesaggio come di diritto del paesaggio. Abbandonato definitivamente il binomio bellezze naturali/paesaggio si è spostato l’accento, dalla dimensione solo estetica del paesaggio, al più esteso concetto di bene ambientale anzi bene culturale che interessa vaste porzioni del territorio nazionale, più che altrove nel Mezzogiorno di Italia. Inteso in tal senso, il paesaggio è un bene che va riconosciuto e tutelato giuridicamente, salvaguardato e conservato istituzionalmente, valorizzato in maniera produttiva dalle comunità che lo abitano. In questo senso il paesaggio non coincide con la realtà materiale (quindi con il territorio) in quanto l’azione dei mediatori socioculturali e della soggettività umana determinano un effetto di produzione di senso. In altre parole: il paesaggio comprende sia la realtà, che l’apparenza della realtà. Da questo punto di vista il paesaggio è anche un potente linguaggio: non esiste un paesaggio senza rappresentazione di esso, ed è attraverso questo passaggio che la società manifesta le proprie aspirazioni e partecipa al processo di scambio (statico o dinamico) dei mediatori socioculturali. “Il paesaggio non è soltanto qualcosa da costruire o tutelare, ma qualcosa da riconoscere, percepire, ascoltare e raccontare. L’approccio scientifico ai problemi del paesaggio ed al paesaggio in quanto problema in sé, nasce dagli studi che chiamarono “paesaggi” degli insiemi di elementi naturali e umani comprendenti terre, acque, piante e animali, intuendo la presenza di una “logica” che ne sottendeva l’organizzazione, i legami reciproci ed il perenne divenire. I più recenti studi di ecologia del paesaggio mettono in evidenza il fatto che la concezione scientifico-oggettiva e quella percettivo/estetica/soggettiva del paesaggio siano strettamente complementari e che la loro integrazione in una concezione unitaria è già iniziata grazie ai contributi di altre discipline coinvolte a pieno titolo nello studio del paesaggio: la teoria dei sistemi, la teoria della forma, la teoria della percezione, la teoria dell’Informazione e della Comunicazione, la cibernetica, la teoria della complessità…. Lo studio del paesaggio presuppone un approccio olistico, di tipo integrato, sia che si perseguano analisi sulla qualità percettiva del paesaggio, sia che si intendano perseguire analisi scientifiche sugli elementi ecologici, considerando tutti gli elementi (fisico-chimici, biologici e socioculturali) come insiemi aperti e in continuo rapporto dinamico fra loro. Si dovrà inoltre tenere conto della multidisciplinarità e della trasversalità dello studio, cercando di superare l’artificiosa compartimentazione fra le diverse discipline. Diversi possono essere gli strumenti adottati per lo studio del paesaggio, fra essi negli ultimi anni, sta acquisendo sempre maggiore importanza l’utilizzo delle KET (tecnologie chiave abilitanti l’ingresso nell’era della 4° rivoluzione industriale( sistemi di rilevamento basati su sensori e robotica, banche dati geo referenziate (Big Data) basate su tecnologie GIS/SIT/BIM, Internet of Things (IOT), tutti strumenti con i quali oggi è possibile acquisire, archiviare, elaborare una accademia del paesaggio nell’era digitale e narrare informazioni e dati relativi al paesaggio, ricavando informazioni utili alla sua “gestione integrata”, finalizzata, sia alla conservazione che alla valorizzazione a scopo turisticoculturale o salutistico, ma, oggi più che mai, anche, a scopo produttivo. Produttiva nel senso generatrice di reddito per le generazioni di giovani, che nativi digitali ed ecologisti, spesso bloccati nella condizione di N.E.E.T. (Not in Education, Employment o in Training), guardano al paesaggio, all’ambiente, alla natura, ai mestieri dell’economia circolare, con uno sguardo diverso, sognando un futuro che, proprio intorno al paesaggio vede “germogliare” occasioni di lavoro ad impatto positivo sulle comunità: l’agricoltura biologica, la trasformazione agroalimentare organic, la bioedilizia, l’artigianato artistico derivante dal riuso dei materiali di scarto come ad esempio della manutenzione dei boschi o della lavorazione dei tessuti, il turismo responsabile, culturale e ambientale, la ristorazione a km 0, lo stile di vita e di alimentazione della dieta mediterranea, la produzione di birra artigianale, il restauro dei beni culturali edificati e verdi, la manutenzione del verde, dei giardini e parchi storici, dei vuoti urbani come dei “campi sportivi” (groundsman). È con queste premesse che potrebbe nascere nel Mezzogiorno, una sorta di Accademia del paesaggio dell’era digitale, una Scuola di tecnologia come proposta dall’ITS BACT, che si impegni a stimolare e coinvolgere, la generazione del 3 millennio (detta appunto dei millenials), i teen agers del Terzo millennio, agli studi e ai lavori sul e nel Paesaggio, in quel Mezzogiorno del Paesaggio, che dal paesaggio intende partire per dimostrare la sua capacità di Ripresa e Resilienza nella costruzione “teoricamente” condivisa, e, oggi, “tecnicamente” imposta dall’Europa, di una Next Generation Italia senza squilibri.  

Il polo energetico, tecnologico, siderurgico

Si dice giustamente che questa guerra cambia il mondo. E ciò è vero soprattutto per noi europei che mai e poi mai avremmo immaginato di avere alle porte di casa una minaccia così grave come quella del rinascente imperialismo russo. Abbiamo pensato a una pace comoda e infinita. Purtroppo non è così e le vicende anche economiche di questi giorni dimostrano che nulla è gratis e che essere finiti in una completa dipendenza energetica dalla Russia soprattutto per alcuni Paesi come Austria, Germania e Italia è stata un’autentica follia. Cambierà il modo di concepire il mondo Gli scambi avverranno principalmente tra cluster di Paesi reciprocamente affidabili dal punto di vista della democrazia e delle istituzioni, le catene logistiche si accorceranno per garantire la certezza degli approvvigionamenti, produzioni strategiche come quelle dei conduttori elettronici, delle apparecchiature biomedicali, dei beni alimentari si rilocalizzeranno tornando se possibile nei Paesi dell’Occidente con un processo che viene definito di reshoring. L’industria manifatturiera per tanto tempo considerata, soprattutto in Europa, da correnti di pensiero improntate a estremismo finanziario, maccartista e ambientalista se non proprio una Cenerentola certamente non come una priorità, sta tornando in auge e bisogna essere capaci di nuove politiche industriali in grado di coniugare esigenze di sicurezza ambientale (decarbonizzazione) ed esigenze di sicurezza strategica. La guerra russo-ucraina e la crisi energetica conseguente hanno dimostrato che l’approccio alla decarbonizzazione deve essere affrontato con pragmatismo e razionalità e che nuove religioni ed estremismi ideologici ambientalisti non risolvono i problemi dell’oggi e di domani e hanno un fiato cortissimo. L’indipendenza energetica si otterrà non solo con le rinnovabili ma con un mix di fonti e tecnologie dalle quali il gas nella transizione e domani un nucleare moderno e sicuro non possono essere esclusi. Crescerà in Occidente la spesa per la sicurezza militare e cibernetica e ci dovremo abituare a fare sacrifici per fronteggiare lo shortage energetico almeno in una fase di passaggio ai nuovi equilibri. Ripensare tutte le nostre politiche energetiche Il 2020 è stato l’anno dei grandi annunci di svolta climatica dei più importanti Paesi del mondo, con Unione Europea, Cina, Giappone e Stati Uniti che annunciavano piani ambiziosi per arrivare alla neutralità climatica entro la metà del secolo, la situazione nel 2022 è profondamente cambiata. L’Europa sembra riconoscere che la transizione sarà lunga e annuncia l’inserimento del nucleare e del gas tra le fonti “green”, ma anche questo potrebbe non bastare a gestire l’emergenza di breve-medio periodo. Negli anni ‘50 e ‘60 il boom economico fu possibile grazie alla disponibilità di energia abbondante e dai costi contenuti. Dopo la guerra del Kippur e l’embargo ai Paesi arabi dell’OPEC, il prezzo del barile passò da 3 a 12 dollari, rallentando la crescita economica. Nel 1979-1980, la rivoluzione iraniana, l’invasione sovietica dell’Afghanistan e la guerra fra Iraq e Iran proiettarono i prezzi del greggio oltre i 40 dollari al barile. Negli anni ‘70 i Paesi consumatori implementarono politiche di efficienza energetica e di sviluppo di fonti alternative al petrolio che in quel periodo copriva la metà del fabbisogno energetico totale. Il petrolio per la produzione di elettricità venne rimpiazzato da gas, carbone o nucleare. Vennero adottate politiche di risparmio energetico: non a caso, la prima legge sull’efficienza energetica degli edifici in Italia fu promulgata nel 1973. Le misure implementate dai Paesi consumatori permisero di ridurre i consumi mondiali di greggio dai 65 milioni di barili al giorno del 1979 a 57 milioni nel 1983. Inoltre. le compagnie petrolifere private esplorarono e misero in produzione campi nel Mare del Nord, in Alaska e nel Golfo del Messico, riversando sul mercato 6 milioni di barili al giorno di petrolio non proveniente da Paesi aderenti all’OPEC. In seguito alla riduzione della domanda e all’aumento dell’offerta di petrolio non proveniente dall’OPEC, nel 1986 il prezzo del barile scese sotto i 10 dollari al barile. Oggi la Russia copre il 50% delle forniture gasiere dell’Unione europea che deve spingere al massimo sull’efficienza energetica, in particolare negli edifici riscaldati con gas. Il contributo delle rinnovabili al nostro mix energetico deve aumentare. In Italia si potrebbero realizzare in tre anni 60 GW di rinnovabili. Questo ridurrebbe la domanda di gas di 18 miliardi di metri cubi all’anno, più della metà dell’import di gas russo e genererebbe un ciclo di investimenti di 80 miliardi di euro non legati al PNRR. Saranno necessari decenni per l’abbandono degli idrocarburi e una completa decarbonizzazione. Nel frattempo, è necessario trovare fonti di approvvigionamento di idrocarburi alternative alla Russia, come lo fu negli anni ‘70 per il petrolio OPEC. È necessario massimizzare l’import da altri fornitori al fine di ridurre il gas russo. Il gasdotto Transmed, che collega l’Italia all’Algeria, ha una capacità di 33 miliardi di metri cubi all’anno di cui solo due terzi utilizzati: un suo pieno utilizzo sostituirebbe un terzo del gas russo. Ulteriori approvvigionamenti sono possibili tramite altri gasdotti come il Greenstream dalla Libia, il TEMP dal nord Europa, il TAP proveniente dal Caspio e i tre terminali di rigassificazione. Inoltre, così come negli anni ’70 vennero messi in produzione i campi del Mare del Nord, l’Italia deve incrementare la produzione di gas nazionale. Una poco lungimirante politica “no triv”, promossa dagli stessi che avevano osteggiato il gasdotto TAP, ha ridotto la produzione italiana a 3 miliardi di metri cubi all’anno rispetto ai 20 miliardi di metri cubi prodotti negli anni ‘90. Una parte del gas russo potrebbe essere sostituita da gas italiano riducendo la nostra dipendenza energetica e migliorando la bilancia dei pagamenti. Ci sarebbe anche un vantaggio ambientale perché il nostro gas rimpiazzerebbe gas russo che viaggia per migliaia di chilometri con grossi consumi di energia ed enormi perdite in gasdotti senescenti costruiti negli anni ‘70. L’Italia si affretta a trovare alternative al gas russo dalla cui dipendenza potrebbe affrancarsi in 24-30 mesi e fra le strade da percorrere fondamentale è quella dei rigassificatori. Al momento, ne abbiamo tre che vanno al 60% della loro capacità di esercizio, e possono essere a breve portati a una maggiore capacità con l’introduzione dei rigassificatori galleggianti a mare con l’approvvigionamento delle navi metaniera: Hanno la fortuna di essere mobili quindi si mettono in prossimità delle tubazioni e possono trasformare in mare il gas liquido. Su questo fronte ci sono 13 siti (per 9 le infrastrutture sono di Snam, per 3 di Edison e per 1 del fondo Ital gas storage). Gli impianti in esercizio sono quelli di Olt in Toscana (3,75 miliardi di metri cubi all’anno di capacità autorizzata, partecipata al 49,07% da Snam al 48,24% dal fondo australiano First Sentier Investors mentre il 2,69% è della società di shipping Golar Lng) e che andrà ad aggiungersi anche al rigassificatore di Panigaglia in Liguria, (3,5 miliardi di metri cubi all’anno, di proprietà di Snam), il primo impianto di questo tipo costruito in Italia, e il più grande in funzione, Adriatic Lng (8 miliardi di metri cubi all’anno), anch’esso off shore, a circa 15 chilometri dalla costa, in provincia di Rovigo, in Veneto (in cui Snam ha il 7,3% il resto è di ExxonMobil 70,7% e Qatar Petroleum 22%). Tutto è cambiato e sta cambiando rapidamente. Va ripensato il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. La transizione richiede neutralità tecnologica per affrontare la decarbonizzazione. A differenza di quanto purtroppo avvenuto nel passato, gli investimenti non possono essere frenati dagli estremisti del green. Senza gas non c’è transizione! Il nuovo corridoio energetico dall’Africa all’Italia La crisi energetica provocata dalla guerra in Ucraina ha dato un impulso al processo di transizione ecologica in diversi Stati per l’esigenza di trovare alternative valide al gas russo per la produzione di energia elettrica. Una di queste alternative promette di trasformare il nostro Paese in hub energetico del Mediterraneo per la gestione di flussi da fonti rinnovabili attraverso un “corridoio” che vede l’altro capo in terra africana, in Tunisia, e che irradierà energia anche al resto d’Europa. Il Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica ha dato il via libera al cosiddetto “Tunita”, l’elettrodotto Italia-Tunisia inserito in accordo al Regolamento UE 347/2013 nella lista dei Progetti di Interesse Comune. Si tratta di un ponte di collegamento sottomarino da 600 MW in corrente continua del valore di 850 milioni di euro, finalizzato ad ottimizzare l’impiego delle risorse energetiche tra Europa e Nord Africa, favorendo la sicurezza dell’approvvigionamento energetico e l’incremento di produzione di energia da fonti rinnovabili. L’infrastruttura realizzata da Terna e dalla tunisina Steg è lunga circa 200 chilometri e veicola 600 MW in corrente continua, prodotta da fonti rinnovabili. Degli 850 milioni investiti, 307 provengono dunque dal Connecting Europe Facility (CEF), il fondo dell’Unione europea destinato allo sviluppo di progetti chiave che mirano al potenziamento delle infrastrutture energetiche comunitarie. La struttura realizzata da Terna e da Steg, una volta entrata in esercizio, favorirà la riduzione delle emissioni climalteranti. Sarà posato sul fondale a una profondità massima di 800 metri, promettendo di impattare il meno possibile sull’ecosistema marino. Un altro vantaggio è garantito dalla scelta di utilizzare la corrente continua. Oltre alla facilità nel veicolare energia prodotta con le rinnovabili, l’impiego dell’HVDC (corrente continua ad alta tensione) è legata alla struttura lineare senza diramazioni e con lunghe distanze dell’impianto sottomarino. Dal punto di vista pratico, la corrente continua è più efficiente della corrente alternata, in quanto più adatta ad una distribuzione ramificata come la rete elettrica cittadina. Il punto di approdo e aggancio all’Italia, e quindi all’Europa, sarà in Sicilia, a Castelvetrano. Da qui si snoderà per altri 18 chilometri usando cavidotti pre-esistenti fino a Partanna, in provincia di Trapani, dove verrà realizzata la cabina di conversione. L’importanza del progetto risalta ancor di più se si osserva l’attuale disposizione degli elettrodotti sottomarini: non esisteva finora un collegamento con l’Africa, che rappresenta un bacino fondamentale per quanto riguarda l’energia pulita, soprattutto solare.   L’idrogeno, il vettore energetico dei prossimi 10 anni Frans Timmermans, vicepresidente della Commissione europea, nel corso della presentazione della nuova strategia energetica dell’Unione europea, ha definito la fonte energetica pulita “la rockstar” della transizione verso l’Ue a zero emissioni, citando Taranto e lo stabilimento simbolo dell’acciaio europeo per le potenzialità da sviluppare. L’idrogeno, il vettore energetico dei prossimi 10 anni, può rappresentare la soluzione per decarbonizzare alcuni settori industriali, in particolare per produrre acciaio a zero emissioni. Un ruolo di primo piano attende l’Italia e il Mezzogiorno che aspira a diventare un hub infrastrutturale nel Mediterraneo per la produzione d’idrogeno rinnovabile, per l’impegno globale ai cambiamenti climatici e al tempo stesso promuovere nuove opportunità di sviluppo e occupazione. L’alternativa green presenta ancora oggi costi troppo elevati. Nel 2000 il prezzo dell’idrogeno da rinnovabili è stato quaranta volte superiore a quello del petrolio. Si stima che la produzione d’idrogeno verde raggiungerà la parità di costo rispetto all’idrogeno grigio nel 2030. Secondo gli esperti il prezzo dell’idrogeno da rinnovabili è destinato a scendere nel giro dei prossimi anni, al punto da diventare competitivo con quello di alcuni combustibili attuali già entro il 2025. Se i costi si ridurranno, si prevede che dal 2050 l’idrogeno rinnovabile soddisferà circa un quarto della domanda di energia in Italia. La Snam ipotizza che la Penisola possa diventare un “ponte” per il trasporto tra Nord Africa e resto d’Europa, oltre a utilizzarlo per i trasporti, l’industria e il riscaldamento. Con meno emissioni e 540mila nuovi posti di lavoro al 2050. La transizione energetica verso i nuovi vettori energetici dipende dalla rete di distribuzione. Poter trasportare l’idrogeno attraverso le reti di trasmissione del gas naturale oggi è la soluzione ottimale. Secondo gli analisti, si può realizzare sfruttando i vantaggi competitivi dell’Italia in alcuni settori, ma anche la posizione geografica e la rete gas già presente sul territorio e per il 70% già pronta al trasporto. La Snam si muove su più fronti. Oltre a preparare la propria infrastruttura al trasporto e allo stoccaggio dell’idrogeno, ha avviato delle partnership con vari operatori, nel rispetto della normativa unbundling, per mettere insieme le rispettive competenze e abilitare lo sviluppo della filiera a livello nazionale ed europeo. Ha presentato un piano per realizzare una rete per il trasporto dell’idrogeno di 6.800 chilometri di gasdotti che attraverserà Germania, Francia, Italia, Spagna, Paesi Bassi, Belgio, Repubblica Ceca, Danimarca, Svezia e Svizzera. Una ‘spina dorsale europea dell’idrogeno, composta per il 75% da gasdotti convertiti e per il 25% da nuove tratte, divisa in due reti parallele, una per l’idrogeno e l’altra per il gas naturale. Ad oggi, la produzione è per il 99% caratterizzata dall’uso di fonti fossili tramite la gassificazione di carbone o il processo di steam reforming del gas naturale. Se a questo ‘idrogeno grigio’ abbiniamo tecnologie per catturare le emissioni di Co2, allora si arriva all’‘idrogeno blu’ a basse emissioni di carbonio, generato però utilizzando fonti non rinnovabili. Il piano della Snam rappresenta una “soluzione ponte” verso la totale produzione d’idrogeno verde, derivante dal processo di elettrolisi che sfrutta energia elettrica proveniente da fonti rinnovabili (solare, eolico). Sfruttando l’infrastruttura esistente, l’Italia potrebbe importare l’idrogeno prodotto in Nord Africa attraverso l’energia solare a un costo del 10-15% inferiore rispetto alla produzione domestica “valorizzando la maggiore disponibilità di terreni per installazione di rinnovabili – spiegano gli analisti -, un elevato irraggiamento” e una minore variabilità stagionale. L’Italia con il suo Hub naturale rappresentato dal Mezzogiorno “si candida a ponte infrastrutturale tra Europa e Nord Africa” anche perché “seconda nazione manifatturiera d’Europa” con un solido posizionamento in alcuni settori. L’Italia è primo produttore in Ue per le tecnologie termiche potenzialmente connesse alla filiera dell’idrogeno (con una quota di mercato del 24%) e secondo sia per le tecnologie meccaniche (siamo al 19,3%) sia per impianti e componenti adattabili alla produzione d’idrogeno verde e blu, con una quota del 25%. Il settore che più beneficerà dell’introduzione dell’idrogeno sarà quello dei trasporti: fra 30 anni dovrebbe totalizzare il 39% dell’intera domanda. “La miscela dell’idrogeno con il gas nelle reti di trasporto e distribuzione esistenti permetterà di ottenere una soluzione d’immediata impiegabili”. Secondo le stime l’Italia potrebbe ridurre le emissioni di 97,5 milioni di tonnellate di Co2, il 28% in meno rispetto alle emissioni registrate nel 2018. Il Memorandum of understanding (Mou) prevede la realizzazione di cinque impianti per la produzione d’idrogeno verde tramite il processo dell’elettrolisi, tre dei quali in Italia e gli altri due nel bacino del Mediterraneo. In questo ambito sono partiti i protocolli per la realizzazione delle ‘Hydrogen Valleys’, siti di produzione di idrogeno verde in aree industriali dismesse. Cinque le regioni interessate nelle prime fasi dell’attuazione di questo punto del Pnrr: Piemonte, Friuli-Venezia-Giulia, Umbria, Basilicata e Puglia sono le prime Regioni ad annunciare la futura nascita di impianti di produzione di idrogeno verde in aree industriali dismesse. Alla creazione di energia si affianca l’obiettivo di promuovere la ricerca tecnologica in questo ambito, infatti Le cinque Regioni capofila andranno a individuare cinque progetti di ricerca collaterali a quelli di produzione di idrogeno, al fine di aprire a nuove future possibilità sull’impiego di questa fonte di energia. La “Green Hydrogen Valley” pugliese L’accordo propone, tra le varie possibili iniziative identificate, lo sviluppo e la creazione di un distretto dell’idrogeno verde in Puglia, con tre impianti situati rispettivamente nei territori di Brindisi, Taranto e Foggia, con il coinvolgimento del Distretto Tecnologico Nazionale dell’Energia, L’Università La Sapienza, l’Università del Salento e la Cittadella della Ricerca di Brindisi. Tale iniziativa è in linea con gli obiettivi fissati dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (Pnrr). L’accordo prevede, inoltre, lo sviluppo e la realizzazione di due ulteriori impianti nel bacino del Mediterraneo, rispettivamente in Albania e in Marocco. Quest’ultimo, nello specifico, riguarderà la produzione di ammoniaca da idrogeno verde. e, con i suoi tre elettrolizzatori, avrà una capacità complessiva di 180 MW, verranno alimentati con acque di risulta del sistema di depuratori dell’Acquedotto Pugliese, che è uno dei partner del progetto, purificate tramite un sistema di osmosi. Queste acque, che altrimenti verrebbero scaricate in mare, consentiranno di produrre idrogeno verde alimentando ognuno dei 3 elettrolizzatori (di nuova concezione, sviluppati presso la Cittadella della Ricerca di Brindisi, insieme agli impianti di stoccaggio) con energia rinnovabile generata da altrettanti impianti fotovoltaici di nuova costruzione. L’H2 verrà quindi distribuito agli utenti con forniture dirette o tramite la rete di gasdotti di Snam, previo passaggio in una stazione di compressione, mentre l’ossigeno originato dal processo di elettrolisi verrà in parte riconferito ai depuratori dell’acquedotto e in parte liberato in atmosfera. Per quanto riguarda i potenziali ‘user’ dell’idrogeno verde, un ruolo di primo piano sarà assunto da Acciaierie d’Italia S.p.A. La riconversione green del sito di Taranto Riveste un’importanza strategica tale da richiedere il concorso delle migliori risorse del Paese; il successo di un’operazione di questa importanza passa necessariamente attraverso la collaborazione fra aziende, che all’interno del proprio campo di lavoro, rappresentino l’eccellenza. Si sta giocando una partita fondamentale per consentire all’Italia di continuare a rivestire un ruolo cardine nella produzione di acciaio di alta qualità in Europa che potrà valorizzare fortemente la filiera siderurgica che rappresenta una risorsa fondamentale per la manifattura italiana, che ambisce a rimanere la seconda in Europa. Competitività del prodotto acciaio e sostenibilità ambientale acquistano sempre maggiore rilevanza per tutti gli stakeholder coinvolti nei processi industriali. Dobbiamo essere in grado di migliorare le nostre imprese, farle essere campioni di sostenibilità, capitalizzare su questi processi, su queste tecnologie e avremo così un driver di sviluppo per il paese con un potenziale di esportazione di tecnologia straordinario, essendo la domanda di queste competenze in continua crescita in Europa e nel mondo. Snam sta collaborando con Acciaierie d’Italia, per decarbonizzare il ciclo produttivo dell’acciaio grazie alla progressiva introduzione di gas rinnovabili come biometano e idrogeno. La partnership verte su 3 filoni di attività. Il primo riguarderà la decarbonizzazione del processo produttivo del sito di Taranto, che è l’unica acciaieria a ciclo primario attiva in Italia. L’idea è quella di attuare un percorso di decarbonizzazione progressiva, passando dal gas naturale a quote sempre maggiori di gas rinnovabili, come biometano e poi idrogeno. Il secondo pilastro della partnership è relativo, nello specifico, all’H2: “In questo caso lo scopo è mettere a punto una progettualità di ampio respiro dedicata all’introduzione dell’idrogeno nell’acciaieria, che porti a sviluppare strutture per la distribuzione, il trasporto e lo stoccaggio funzionali all’approvvigionamento di questo combustibile da parte del sito industrial”. Infine, il terzo ambito è più legato alle attività di ricerca e sviluppo che consentirà a Snam e Acciaierie d’Italia di mettere a frutto le rispettive competenze nella gestione dei gas, e in particolare dell’idrogeno, e nella produzione di acciaio, sempre nell’ottica di una progressiva decarbonizzazione di questo comparto industriale. Il 28 dicembre 2022 il Consiglio dei Ministri ha approvato il decreto legge sull’Ilva: 680 milioni, già stanziati, inteso come finanziamento soci convertibile in aumento di capitale con una salita di Invitalia fino al 60%, possono essere utilizzati subito. Allo stesso si sommano il miliardo stanziato dal dl Aiuti bis e le risorse previste per il preridotto, da impiegare nella produzione dell’acciaio, e il Just transition fund, approvato dalla commissione Ue. Il decreto prevede modifiche alla normativa per la attivazione delle procedure per l’amministrazione straordinaria in caso di insolvenza della società. Il dl prevede ulteriori norme tese a scoraggiare comportamenti dilatori nelle procedure di amministrazione straordinaria legando i compensi dei commissari straordinari ai risultati e alla durata della procedura stessa. Nel Consiglio dei ministri ha annunciato l’accordo tra gli azionisti di Acciaierie d’Italia, ArcelorMittal e Invitalia, che prevede: • l’impegno dei soci per il rilancio sito produttivo e conseguenti garanzie occupazionali fissando dei target di produzione superiori a quelli conseguiti da Ad’I nell’ultimo biennio; • la riconversione industriale per impianto green e risanamento ambientale con il completamento dell’Autorizzazione Integrata Ambientale nei tempi previsti; • investimenti legati allo sviluppo industriale e al Polo di Taranto, come l’attivazione dei campi eolici “floating”, iniziative di economia circolare tramite il recupero dei sottoprodotti, attivazione di impianti di desalinizzazione tramite il recupero delle acque dolci dei fiumi Tara e Sinni, lo sviluppo del porto tramite Floating Storage and Regasification Unitsi impianto di degassificazione galleggiante. Il Dl contiene anche norme processuali penali per assicurare la continuità produttiva delle imprese di interesse strategico nazionale intervenendo sulla disciplina dei sequestri e su quella in materia di responsabilità penale per tutti gli stabilimenti di interesse nazionale. che i sindacati, da quanto si apprende, “conferma la volontà di erogare i 680 milioni, già stanziati, in modalità finanziamento soci, ripristinando vergognosamente perfino lo scudo penale ai gestori del sito” Per molti anni i governi che hanno guidato il Paese non hanno sciolto il nodo giudiziario gordiano tra inquinamento e produzione dell’acciaio. Una sostanziale incoerenza che ha caratterizzato taluni ministri che in questi ultimi dieci anni sono stati quasi ininterrottamente al Governo bloccando investimenti, lavoro, crescita economica e sviluppo del mezzogiorno. A questo il ministro della transizione Cingolani a giugno 2021 si faceva interprete di una oggettiva difficoltà: “ho un mandato specifico dalla Commissione Europea su settori come quello dell’Ilva. Io questo intervento lo voglio fare se ha senso farlo. Quindi è mio interesse tornare a bussare agli altri ministeri. Questa riflessione deve per forza avvenire, non è possibile che non avvenga. Io la chiederò. Io poi devo rendicontare alla Commissione europea se ho speso un miliardo su un forno di un’azienda su cui peseranno sentenze o altre decisioni”. Per molti, ancora oggi, i possibili esiti di questa drammatica situazione viene vissuta come una battaglia terminale. L’iniziativa giudiziaria, comunque la si valuti nel merito, è stata praticata mediante l’esercizio di poteri previsti dal codice di procedura penale, muovendosi sul confine, spesso sconfinandolo, ed innescando un groviglio di incertezze che pregiudica piani industriali e ambientali. Il management non può operare efficacemente, in una situazione talmente delicata quanto intricata, avendo sul capo una spada di Damocle. È il rischio insito nell’attivismo giudiziario che si spinge verso un’ingiustificata estensione di principi, a discapito del riconoscimento di regole precise, con conseguente ribaltamento della gerarchia delle fonti nella ponderazione d’interessi costituzionali, e invasione di competenze di altri poteri. Se si vuole garantire un settore strategico per il paese e il processo di transizione tecnologica dell’acciaieria di Taranto, contenuto nel PNRR, è necessario che lo si assuma con adeguata chiarezza ma soprattutto con la forza del buon senso. In tal senso riteniamo utile istituire un organo di controllo in stretta collaborazione con il Ministero dell’Economia e delle Finanze che, disponendo di un nuovo strumento di controllo sull’avanzamento degli investimenti (il sistema ReGiS rivolto alla rilevazione e diffusione dei dati di monitoraggio del PNRR che mira a supportare gli adempimenti di rendicontazione e controllo previsti dalla normativa vigente) possa fornire i reali avanzamenti di quanto deciso programmaticamente. Il Master Plan della decarbonizzazione dello stabilimento siderurgico di Taranto Una “scommessa” ciclopica, ardua e impegnativa per consistenza patrimoniale, dimensioni territoriali e tecniche e impatto sociale e sanitario, complicata da rapporti giuridici ed economici sia preesistenti, sia impliciti nella joint venture pubblicoprivata. Abbiamo piena consapevolezza dell’impatto sociale e umano del Siderurgico di Taranto. Ci sentiamo, pertanto, obbligati a far conoscere le modalità e i passaggi attraverso i quali inevitabilmente si deve sviluppare il percorso di ristrutturazione/decarbonizzazione, del Siderurgico di Taranto. Al “Kick off meeting”, comunque, dovrà seguire la fase del “Master Plan” (piano generale di programmazione delle attività) che ha lo scopo di definire e pianificare le modalità e le risorse necessarie per la realizzazione degli obiettivi già fissati. Occorre, cioè, individuare e dare esecuzione ai prerequisiti e agli aspetti chiave la cui soluzione condiziona la realizzazione del piano. Nel nostro caso, ad esempio, alcuni prerequisiti ed aspetti chiave sono: a) - come garantire la produzione di acciaio prevista entro il 2025 (quanta parte con gli impianti attuali, rigenerati o meno, e quanta parte con impianti nuovi); b) - quali tempi e modalità di progettazione e realizzazione delle nuove tecnologie e dei nuovi impianti al livello degli obiettivi di produzione previsti nel rispetto delle condizioni di concorrenzialità; c) - come assicurare agli impianti la disponibilità di energia elettrica necessaria contestualmente all’eliminazione prima del carbon coke e poi del gas; d) - dove e chi produrrà il preridotto indispensabile per la graduale dismissione dell’area a caldo; e) - su quali tipi di prodotti indirizzare i nuovi impianti; f) - come garantire la manutenzione e l’efficienza degli impianti attuali fin quando non entrano in esercizio i nuovi; g) - come attivare i programmi di formazione e di riaddestramento del personale; h) - come ottenere rapidamente le autorizzazioni amministrative per l’esecuzione delle varie opere; i) - come recuperare il rapporto con il territorio. Col “Master Plan”, quindi, si passerà dalla fase di enunciazione degli obiettivi alla concretizzazione di quanto è necessario fare per realizzare effettivamente uno stabilimento green. Il “Master Plan” consentirà di definire i programmi dettagliati delle realizzazioni impiantistiche e produttive, cioè, il piano industriale. Solo a Master Plan finito sarà possibile conoscere tempi e modalità di esecuzione dei vari interventi esecutivi e valutarne l’adeguatezza e la validità rispetto agli obiettivi e alle attese. Resta assodato che un progetto importante che non transiti necessariamente attraverso il Master Plan è una mera manifestazione di buona volontà. È difficile ma non impossibile traguardare un percorso breve alla luce dell’attuale stato di sperimentazione e di applicazione pratica dei molti provvedimenti strutturali e produttivi ipotizzabili e a fronte delle difficili condizioni di partenza. L’intero processo gestionale è un’esigenza indispensabile, irrinunciabile, inderogabile oltre che assolutamente refrattaria a voli pindarici. Riteniamo che, se saranno impegnate adeguate risorse finanziarie e manageriali e se si eviterà di modificare in corso d’opera gli obiettivi, si potranno contenere i tempi e, soprattutto, si vincerà la “scommessa”. Si può realizzare una fabbrica che continui a produrre acciaio rispettando l’ambiente e la salute? Si può tentare di superare la conflittualità sociale e il groviglio di vicende giudiziarie per evitare che Taranto e l’Italia perdano un asset importante del proprio tessuto produttivo ed economico? Il progetto che presentiamo in queste pagine prova a dare una risposta affermativa a queste domande. Si tratta di una proposta progettuale elaborata da qualificati ex tecnici e dirigenti proprio del siderurgico di Taranto, esperti che conoscono la fabbrica e sanno di cosa parlano. È continuamente messa in discussione la sostenibilità ambientale e sanitaria della fabbrica e in particolare della sua area “a caldo”, che rappresenta l’insieme dei processi siderurgici primari indispensabili per la trasformazione delle materie prime, quali minerali di ferro e carboni fossili, prima in ghisa e successivamente in acciaio formato. Parliamo dei parchi primari, delle cokerie, degli impianti di agglomerazione, degli altiforni e delle acciaierie BOF, considerati per le loro caratteristiche e dimensioni, processi a elevato impatto ambientale e sanitario. È stato spesso sottolineato che una fabbrica siderurgica come quella di Taranto non può marciare senza l’area “a caldo”, poiché verrebbe a mancare il prelavorato formato costituito da bramme di acciaio da cui produrre i laminati piani. Va dunque, definitivamente ribadito che, nel caso d’inoperatività dell’area a caldo, la fabbrica non può più proseguire nel suo complesso. Per salvaguardare la cittadinanza, il management e l’intera fabbrica, occorre porsi seriamente il problema e uscire dagli equivoci. Se si deciderà di andare oltre e assicurare un futuro alla fabbrica, è bene che siano valutate attentamente le possibili alternative più sostenibili e realizzare nuovi assetti impiantistici data la strategicità della produzione di acciaio nell’interesse nazionale. La fabbrica rischia, altrimenti, di spegnersi da sola, esaurendo risorse pubbliche consistenti. Occorre assicurare la sopravvivenza della siderurgia a Taranto avviando rapidamente la realizzazione degli investimenti necessari, secondo un piano di medio termine, volto ad un cambiamento necessario per la decarbonizzazione e la sostenibilità ambientale e sanitaria. Anche le pressioni provenienti dall’opinione pubblica, dalle autorità locali devono essere ben tenute in considerazione e va quindi definito un assetto compatibile e soprattutto condiviso. Il piano industriale già tracciato da Invitalia-AMI prevede complessi e difficili investimenti per realizzare un assetto “ibrido” introducendo, accanto agli altiforni, un’acciaieria elettrica che dovrebbe essere operativa già nella metà del 2024. Si raggiungerà per quella data una produzione complessiva di 7 milioni di tonnellate/anno di acciaio di cui 2,5 milioni sviluppate con il ciclo elettrico. Nel 2025 è programmata una produzione complessiva di 8 milioni di tonnellate che ne rappresenterà l’assetto stabile. In questo modo si ridurranno gli impatti ambientali e sanitari per una minore necessità: – di carbone/coke per oltre 1 milione di tonnellate, – di agglomerato per circa 3 milioni di tonnellate, L’effetto, sulla riduzione di emissioni di SOx, Polveri, Idrocarburi Policiclici Aromatici e SOx e Diossine è certamente consistente e sensibile e va a ridurre l’impatto ambientale e sanitario della fabbrica sul territorio di una quota del 25 – 30%. Va aggiunto che tra gli investimenti di rilievo è previsto il rifacimento di AFO/5 e una serie d’interventi per assicurare all’area primaria una marcia ai livelli produttivi previsti (macchine dei parchi, macchine per la discarica delle materie prime, filtri agli agglomerati, ecc.): da considerare però, che il mantenimento in marcia dell’altoforno n. 5 (la vita tecnica di un altoforno ricostruito supera ampiamente i 15 anni), rende necessaria la prosecuzione dell’esercizio delle batterie di forni a coke e degli impianti di agglomerazione, a monte, e di almeno una acciaieria tradizionale BOF, a valle. Diventerebbe difficile ed antieconomica in questo modo, una ulteriore svolta tesa a diminuire le necessità di coke e di agglomerato. La transizione ecologica della fabbrica di Taranto, ultimo degli impianti a ciclo integrale rimasto in Italia dopo la chiusura di Piombino e Trieste, verso un assetto ambientalmente sostenibile è fortemente richiesta soprattutto dal territorio. La transizione ecologica comporta la trasformazione della fabbrica con complessi e costosi investimenti e con implicazioni gestionali che richiederanno la presenza dello Stato non solo nei capitali necessari ma anche in una serie di azioni di sostegno governativo per assicurarne il funzionamento e la sostenibilità. Difficilmente un gruppo privato sarebbe in condizioni di operare questa trasformazione. Un primo aspetto è inerente alla disponibilità di gas naturale e al suo prezzo di vendita; così come altrettanto importante è il prezzo per l’energia elettrica da impiegare perché il nostro è un Paese che non possiede energia nucleare, ha insufficienti “rinnovabili” ed è importatore di gas metano. Un altro sostegno governativo importante riguarda la materia prima per alimentare i forni elettrici con tre opzioni possibili anche combinate tra loro: a) ricorso al mercato; b) produzione diretta in impianti costruiti all’estero; c) produzione in loco (sito Taranto). Il sostegno governativo riguarda non solo la garanzia e la stabilità delle forniture da Paesi esteri, ma soprattutto la politica nazionale che dovrà tenere conto di tutto il comparto siderurgico che si avvia a diventare totalmente dipendente dal rottame ferroso o dai “preridotti”, divenuti prodotti strategici nazionali. Delle diverse opzioni per la materia prima diremo più avanti». Ma vediamo qual è la situazione dello stabilimento tarantino e quali sono le condizioni per arrivare ad avere una fabbrica sostenibile dal punto di vista ambientale. Nel transitorio della trasformazione la sostenibilità tecnico-economica e occupazionale dell’ex ILVA sarebbe assicurata solo se fossero tenuti in regolare funzionamento gli impianti dell’“area a caldo”, quasi completamente adeguati alle normative e alle migliori tecnologie con consistenti investimenti. Cokerie, agglomerati e altoforni dovranno, dunque, mantenere le produzioni su livelli adeguati alle migliori tecnologie adottate, nel rispetto dei parametri dell’Autorizzazione Integrata Ambientale (AIA). Questo è un presupposto per la progettualità tecnica della transizione ecologica essendone il punto di partenza. È un momento in cui, per evitare un tragico insuccesso e perdita di denaro pubblico, occorre dare a Taranto quello che Taranto chiede, cioè “una produzione pulita di acciaio”. Solo così le azioni progettate potranno essere una reale occasione di rilancio condivisa. Il progetto Invitalia- AMI, ineccepibile per la ripresa produttiva, deve adeguare rapidamente il suo sviluppo verso la totale produzione solo con acciaierie elettriche. Il piano avrà necessariamente bisogno di una successiva evoluzione con la realizzazione di una seconda acciaieria elettrica per poi uscire, gradualmente, dall’assetto “ibrido” abbandonando il ciclo dell’altoforno. In particolare non richiederà più il rilevante investimento per la ricostruzione dell’Altoforno 5. In questo modo Taranto sarebbe tra le prime siderurgie in Europa a operare questa scelta per raggiungere gli obiettivi di una completa decarbonizzazione e l’abbattimento totale degli inquinanti legati al ciclo integrale: la nuova fabbrica ridimensionata, razionalizzata e modernizzata con i nuovi processi, dove la trasformazione diretta in coils avviene con ridottissimi consumi energetici consentirà produzioni con un elevato mix qualitativo di acciai, con minori necessità di personale per la manutenzione e la gestione fortemente semplificata. Le attività devono comprendere anche una razionalizzazione e integrazione degli impianti con la bonifica delle aree dismesse con il recupero del rottame. Da considerare che durante questo percorso e a seguire, la fabbrica resterà “viva” per consentire quindi più agevolmente la bonifica delle ampie aree dismesse, con notevole sviluppo di lavoro per il territorio. Naturalmente anche questo percorso presenta delle criticità: «l’assetto con sole acciaierie elettriche avrà bisogno di consistenti volumi di preridotto e/o di rottame ferroso come materia prima da trasformare in acciaio. Essi saranno da reperire anche su mercati internazionali e questa è certamente una delle principali criticità da studiare attentamente. Le varie opzioni possibili, come già detto, sono: ricorso al mercato per l’acquisto sia di rottame ferroso sia di preridotto con accordi di lungo termine. Questa soluzione può presentare criticità sulla disponibilità e prezzi nei momenti di alta richiesta; produzione in impianti decentrati costruiti all’estero dove i costi di produzione possono essere contenuti in un paese dove il gas metano ha un basso costo (come già realizzato da Voest- Alpine); produzione parziale in loco (sito di Taranto) con costruzione degli impianti occorrenti da alimentare a metano. Come già detto, quest’assetto richiederà elevati quantitativi di energia elettrica come quelli di gas metano, con costi che avranno un’incidenza basilare sul costo dell’acciaio prodotto in quanto l’acciaieria “tutta elettrica” sarà priva dei gas siderurgici prodotti da cokerie/altiforni/acciaierie BOF, quelli che oggi consentono l’autoproduzione dell’energia elettrica a costi competitivi. Con azione di Governo, e compatibilmente con i vincoli Europei, occorrerà definire prezzi sostenibili di energia elettrica. Le precondizioni e gli impegni governativi per l’attuazione del piano prospettato: «sarà effettuata la Valutazione di Impatto Sanitario con le linee guida della VIS ISTISAN 19.9 connessa con le emissioni nocive dello stabilimento. Il presupposto è quello di superare la conflittualità sociale e il groviglio giudiziario che rischia di portare alla chiusura di quello che nei tempi d’oro era noto come IV Centro Siderurgico. Un gruppo di ex tecnici dello stabilimento ex Ilva ha allora elaborato una proposta progettuale per la trasformazione del ciclo produttivo in modo da abbattere gli effetti ambientali e sanitari dell’area a caldo.
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