Siamo ad un passaggio che cambia la storia. Il quadro generale è segnato da quattro potenti fattori di cambiamento: la crisi climatica, quella energetica, quella sanitaria, la guerra e i mutamenti geostrategici. Si pongono inedite domande di governo per tutti. Per noi in particolare domande urgenti perun groviglio di problemi insoluti, e soprattutto per scelte strategiche che impegnano l’oggi per il domani. Fronteggiare l’aumento dei prezzi e le difficoltà di famiglie e imprese; rispondere a un impellente bisogno di protezione collettiva, riorganizzare i servizi sanitari, interrompere il declino educativo e culturale, fermare la fuga dei giovani, ammodernare le infrastrutture invecchiate e fatiscenti, snellire la pubblica amministrazione, riformare le istituzioni. Riaffermare una linea inequivocabile di politica estera: Europa unita, Alleanza atlantica, sostegno all’Ucraina. Recuperare la fiducia dei cittadini nella democrazia. Un elenco parziale, ma basta a far capire di che cosa stiamo parlando quando diciamo inedite domande di governo per quanto direttamente ci riguarda. Domande inedite per una convergenza inedita di fattori, ma anche per aver portato il Paese, il nostro Paese, ad un livello di difficoltà che rischia di far esplodere, insieme ad una crisi economica strutturale, una pericolosa crisi sociale e una grave crisi istituzionale. Si può rispondere a queste domande e a questi pericoli con la riproposizione dei vecchi modi della politica, quelli che ci hanno portato alle soglie di una crisi di sistema? Evidentemente no. I problemi si sono affastellati per debolezza di pensiero e di spessore della classe dirigente del Paese, fuga diffusa dalle responsabilità, sfacciate gare di demagogia, schiacciamento sul presente e rinuncia alle sfide progettuali. Tutto ciò che era rinviabile è stato sempre rinviato. I tentativi di riforma di sistema sono tutti finiti nel nulla. Perciò dati e le esperienze, le tensioni e le paure, i drammi e i disagi, le distruzioni dei beni e delle speranze, insomma lo stato reale delle cose, tutto ci parla della necessità di un urgente cambiamento di rotta. Certo radicale. Il voto del 25 settembre non ci garantisce che potrà accadere.Il voto,di qua e di là dal fiume, ha premiato le forze antisistema, le quali, più che del destino del Paese, sembrano preoccupate del proprio. Come prima, più di prima. Insomma, passata la festa, gabbato lo santo. Vedremo che cosa ci dirà la composizione del governo, ma l’elezione dei presidenti delle Camere ha seguito le collaudate logiche di un mondo politico chiuso nelle sue logiche, che non riesce a dimensionare le scelte sui problemi stringenti e di prospettiva del Paese e perciò nemmeno a dare segnali di concordia almeno sui temi istituzionali. L’elezione di La Russa e quella di Fontana vanno lette insieme. Sono il messaggio di una destra identitaria che sfida senza tanti complimenti quel che rimane di una sinistra che, paralizzata dalle sue contraddizioni, non riesce a misurarsi col mondo che cambia. Non si discute di come uscire dal pantano e di come conferire prospettiva all’azione politica. Meloni, sempre più moderatismo di facciata e zarismo di sostanza, è alle prese con le contorsioni di potere dei suoi malconci alleati e di tutto si sta occupando tranne che dell’Italia del futuro. Una brutta impressione di vecchi arnesi tenuti insieme da obblighi di potere ma divisi all’interno e divisivi all’esterno. Il PD, ripiegato su se stesso per gli spasmi della sconfitta, dà segnali di immersione nella notte delle contrapposizioni verbali senza lucidità di analisi e capacità di controproposta. Segnali inequivocabili, che si registrano al centro e in periferia, di ritorno alla battaglia politica identitaria come contrapposizione a qualcosa e qualcuno, più esattamente come caccia al nemico, ieri Berlusconi, oggi preferibilmente, più che la destra, Renzi e Calenda. I 5 stelle, risorti perché dimezzati, lungi dal superare il populismo demagogico, lo stanno trasformando in timbro identitario analogo al sovranismo della destra radicale. Rischiamo così di assistere ad una stagione di scontri ancor più distruttiva di quella che abbiamo già vissuto segnata dalla gara a piantare bandierine sulla pelle di un Paese rassegnato al declino al punto di accettare senza apprezzabili reazioni la sprezzante liquidazione dell’esperienza Draghi, una rarità nella disastrata politica degli ultimi decenni, una delle espressioni più alte della capacità di governo in situazioni complesse fatta di visione e di metodo razionale attento ai risultati. La speranza è riposta dunque nella capacità di riorganizzazione e riposizionamento delle forze riformiste. Le elezioni hanno fornito l’occasione per avviare il processo con le liste del terzo polo, a cui in Umbria abbiamo aderito come soggetto civico. Il risultato numerico e politico incoraggia a proseguire il percorso verso la formazione di quel partito riformista, liberaldemocratico e liberalsocialista, lì prefigurato, la cui mancanza favorisce la politica dello scontro senza contenuti e il suo degrado leaderistico. Deve essere questo il partito delle grandi riforme e della speranza, il luogo in cui le culture riformatrici si incontrano per prospettare al Paese la stagione del rinnovamento nel segno dei valori universali della civiltà europea declinati finalmente al tempo di un futuro necessario in quanto possibile. Ci vogliono alcune condizioni. 1. Va sventato il pericolo di ripetere l’operazione “bicicletta” già sperimentata con esito fallimentare in altri tempi; il partito dei riformisti deve essere idealmente e strutturalmente plurale. 2. Va evitato il verticismo a favore di un percorso democratico per la formazione di gruppi dirigenti che superi il leaderismo e legittimi una leadership reale e appunto plurale. 3. Il nuovo partito deve essere effettivamente nuovo, nell’ispirazione ideale, nella proposta programmatica e nella forma-partito; deve essere perciò federale, assumendo come fondante il principio che le differenze fanno ricchezza. 4. Dovrà pertanto assumere come obiettivo programmatico fondante la riforma dello Stato e del modo di selezione della classe dirigente istituzionale. Non le autonomie differenziate ma le macroregioni, non la moltiplicazione dei poteri ma la semplificazione e il coordinamento. E dunque finalmente non leggi elettorali per avere classi dirigenti di nominati ma leggi elettorali per avere rappresentanti espressione di libera dialettica ideale e programmatica con forti e riconoscibili legami territoriali. La partecipazione del civismo alla costruzione di un nuovo partito con queste caratteristiche può essere il valore aggiunto di una democrazia alla ricerca dei suoi fondamenti e di una nuova legittimazione.
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