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L'avvocato
03 Settembre 2025 - 16:35
La Suprema Corte ha utilizzato il pronunciamento per chiarire la distinzione tra diffamazione e ingiuria, quest’ultima depenalizzata nel 2016
La Corte di Cassazione penale, Sezione V, con la sentenza n. 29683 del 25 agosto, ha stabilito che la pubblicazione non autorizzata della foto profilo WhatsApp di un’altra persona integra il reato di trattamento illecito di dati personali, previsto dall’articolo 167 del Codice della Privacy (dlgs 196/2003).
La decisione assume particolare rilievo quando l’immagine coinvolge anche minori, poiché la loro esposizione in contesti offensivi comporta un nocumento non patrimoniale riconosciuto come sufficiente per la configurazione del reato.
Nel caso esaminato, la diffusione della foto ritraeva non solo l’utente titolare dell’account ma anche la figlia minore, collocata in un ambiente virtuale ostile.
Il danno all’immagine e alla dignità del minore è stato considerato diretto ed evidente, al pari della diffusione illecita di numeri di telefono in chat o gruppi online.
Il caso ha riguardato un agente di polizia, condannato in via definitiva a un anno e un mese di reclusione, oltre al pagamento di una provvisionale immediatamente esecutiva di 5 mila euro a titolo di risarcimento danni.
A suo carico sono state riconosciute più violazioni: diffamazione aggravata, accesso abusivo a sistema informatico, violazione della privacy e minaccia.
La vicenda trae origine da uno scontro su Facebook all’interno di un gruppo di culturismo.
Dopo una serie di insulti, la tensione è esplosa con la pubblicazione di una foto del rivale in atteggiamento intimo.
Da lì, la condotta del poliziotto è degenerata: ha recuperato i dati personali dell’avversario tramite una collega, ha inviato messaggi intimidatori utilizzando il cellulare della moglie e, infine, ha pubblicato la foto profilo WhatsApp dell’avversario, in cui compariva anche la figlia minorenne, associata a minacce pubbliche.
La Suprema Corte ha utilizzato il pronunciamento per chiarire la distinzione tra diffamazione e ingiuria, quest’ultima depenalizzata nel 2016.
Nel caso dei social network, viene configurata la diffamazione quando l’offesa viene pubblicata online senza che il destinatario sia collegato e possa replicare nell’immediato.
L’assenza di contraddittorio rende infatti più grave l’azione lesiva.
La Corte ha inoltre ritenuto inammissibile il ricorso alla provocazione come causa di esclusione della colpevolezza, osservando che le condotte illecite sono state avviate proprio dall’imputato.
La pronuncia apre una riflessione importante anche per il mondo della scuola, dove i gruppi WhatsApp tra docenti, collaboratori scolastici e famiglie sono ormai parte della comunicazione quotidiana.
La diffusione non autorizzata di una foto profilo, di un’immagine del registro elettronico o di contenuti che ritraggono minori, può configurare un illecito penale e comportare conseguenze molto gravi.
L’uso improprio di materiale digitale, ad esempio la pubblicazione in un gruppo di classe di immagini di bambini senza oscurare i volti o senza consenso scritto dei genitori, può tradursi in trattamento illecito di dati personali e determinare responsabilità anche per i dipendenti della scuola.
Per questo gli esperti raccomandano la massima prudenza: non è sufficiente che una foto circoli in un gruppo privato per considerarla libera da vincoli di legge.
La regola resta sempre la stessa: senza consenso esplicito del titolare dei dati, la condivisione è vietata.
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