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L'avvocato

Le pluralità di aggressioni verbali possono integrare il reato di maltrattamenti in famiglia

La giurisprudenza, in particolare, ha chiarito che è sufficiente la loro ripetizione, anche se in un limitato contesto temporale

Il "parere" legale

Il reato si configura qualora sia dimostrata la “sistematicità” di condotte violente e sopraffattrici

Pronunciandosi su un ricorso proposto avverso la sentenza con cui la Corte d’appello  aveva confermato, per quanto qui di interesse, la sentenza emessa dal Tribunale di condanna di un uomo per il reato di maltrattamenti contro familiari e conviventi, la Corte di Cassazione penale, Sez. III, con la sentenza 10 giugno 2025, n. 21858 - nel disattendere la tesi difensiva che aveva sostenuto che, in un contesto di conflittualità tra le parti, non fosse configurabile una condotta unilaterale di maltrattamenti, mancando una soggezione stabile della vittima e un comportamento abitualmente vessatorio da parte dell’imputato - ha affermato che integra il reato di maltrattamenti contro familiari e conviventi, prevista dall’art. 572 c.p., non solo la reiterazione di condotte fisiche violente, ma anche l’abitualità di comportamenti verbalmente aggressivi, denigratori e umilianti che incidano sulla dignità della persona offesa e producano sofferenza psichica, determinando un clima domestico oppressivo, degradante e lesivo della libertà morale.

Prima di soffermarci sulla pronuncia resa dalla Suprema Corte, deve essere ricordato che l’art. 572 c.p. sotto la rubrica «Maltrattamenti contro familiari e conviventi», punisce con la reclusione da tre a sette anni, la condotta di chiunque, fuori dei casi indicati nell’art. 571 c.p., maltratta una persona della famiglia o comunque convivente, o una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l’esercizio di una professione o di un’arte. La pena è aumentata fino alla metà se il fatto è commesso in presenza o in danno di persona minore, di donna in stato di gravidanza o di persona con disabilità come definita ai sensi dell’articolo 3 della L. 5 febbraio 1992, n. 104, ovvero se il fatto è commesso con armi. Se dal fatto deriva una lesione personale grave, si applica la reclusione da quattro a nove anni; se ne deriva una lesione gravissima, la reclusione da sette a quindici anni; se ne deriva la morte, la reclusione da dodici a ventiquattro anni. Il minore di anni diciotto che assiste ai maltrattamenti di cui sopra si considera persona offesa dal reato.

La giurisprudenza prevalente sembra orientata a ritenere che le condotte di maltrattamento non debbano necessariamente integrare gli estremi di un reato, se singolarmente considerate, come i comportamenti volgari, irriguardosi e umilianti, caratterizzati da una serie indeterminata di aggressioni verbali ed ingiuriose abitualmente poste in essere dall’imputato nei confronti del coniuge, possono configurare il reato di maltrattamenti quando essi realizzino un regime di vita avvilente e mortificante sempre che non consistano in semplici manchevolezze o sgarbi privi di capacità offensiva per il bene tutelato.

Capacità di arrecare perdurante offesa morale alla vittima è stata ritenuta negli atti di disprezzo, di asservimento e di umiliazione; (Cass. pen., Sez. VI, 16/10/1990), nonché in caso di ripetuti comportamenti fisicamente non violenti, che si arrestano alla soglia della minaccia (Cass. pen., Sez. VI, 22/7/2019, n. 32781) ovvero in caso di ostentata frequenza da parte del ricorrente di rapporti con altre donne volutamente accompagnata dal manifesto disprezzo della stessa persona offesa, a lui legata da una stabile relazione implicante un obbligo di reciproco rispetto. Gli atti di maltrattamento non devono essere sporadici e manifestazione di un atteggiamento di contingente aggressività.

Il reato si configura qualora sia dimostrata la “sistematicità” di condotte violente e sopraffattrici, ancorché queste non realizzino l’unico registro comunicativo col familiare, ben potendo tali condotte essere intervallate da condotte prive di tali connotazioni o dallo svolgimento di attività familiari, anche gratificanti per la persona offesa né esclude il reato il temporaneo riavvicinamento della vittima al suo persecutore. Integra il delitto la condotta del marito che sottopone la moglie, nell’arco di un anno, a tre gravi e violente aggressioni fisiche, le quali si aggiungono a una situazione familiare contrassegnata dallo stato di frequente ubriachezza dello stesso, durante il quale egli sottopone la donna a insulti e vessazioni morali.

Il reato previsto dall’art. 572 si configura attraverso la sottoposizione del familiare ad una serie di sofferenze fisiche e morali che, isolatamente considerate, potrebbero anche non costituire reato, in quanto la ratio dell’antigiuridicità penale risiede nella loro reiterazione protrattasi in un arco di tempo che può essere anche limitato e nella persistenza dell’elemento intenzionale non è necessario che gli atti di maltrattamento vengano posti in essere per un tempo prolungato, essendo, invece, sufficiente la loro ripetizione, anche se in un limitato contesto temporale.

Tanto premesso, nel caso in esame, la Corte di Cassazione è stata chiamata a valutare se, in presenza di reiterate condotte verbalmente aggressive, umilianti e intimidatorie all’interno di un rapporto di convivenza, possa configurarsi il reato di maltrattamenti in famiglia, anche in assenza di gravi e sistematiche violenze fisiche. Il caso riguardava un uomo condannato per plurime condotte lesive nei confronti della convivente e dei figli, tra cui rimproveri continui, linguaggio denigratorio e atteggiamenti aggressivi che avevano prodotto un clima domestico degradante e mortificante. Le sentenze di merito hanno evidenziato che tali comportamenti avevano determinato lo svilimento della donna nel contesto familiare e un costante stato di soggezione e timore, testimoniato anche dalle dichiarazioni dei figli minori. La Corte d’Appello aveva ribadito che la sussistenza del reato non richiede la completa sottomissione psicologica della vittima, essendo sufficiente un generico stato di prostrazione o avvilimento.

Ricorrendo in Cassazione, la difesa aveva sostenuto che, in un contesto di conflittualità tra le parti, non fosse configurabile una condotta unilaterale di maltrattamenti, mancando una soggezione stabile della vittima e un comportamento abitualmente vessatorio da parte dell’imputato.

La Cassazione, nell’affermare il principio di cui sopra, ha disatteso la tesi difensiva. In particolare, quanto al reato di maltrattamenti, ha evidenziato che la sentenza d’appello aveva correttamente dato atto della sussistenza di una pluralità di condotte verbali e psicologiche mortificanti, reiterate nel tempo. Ha aggiunto che lo stato di sofferenza psichica e morale della persona offesa può realizzarsi anche in contesti dove la vittima manifesti parziali reazioni vitali o ricorra a strumenti di tutela (come denunce o raccolta di prove), senza che ciò escluda la presenza del reato. L’imputato, dunque, è stato ritenuto responsabile ai sensi dell’art. 572 c.p. sulla base di un complesso di comportamenti non esclusivamente fisici ma anche verbali e psicologici, idonei a configurare un regime di vita insostenibile per la persona offesa, facendo applicazione di quella giurisprudenza che ha sottolineato l’irrilevanza, al fine dell’integrazione del reato, dell’eventuale capacità di resistere della vittima, non essendo elemento costitutivo della fattispecie la riduzione della vittima a succube dell’agente. Non è, infatti, necessario che lo stato di inferiorità psicologica della vittima si traduca in una situazione di completo abbattimento potendo anche consistere in un avvilimento generale, conseguente alle vessazioni patite, compatibile con sporadiche reazioni vitali e aggressive della vittima.

e-mail: avv.mimmolardiello@gmail.com  
sito: www.studiolegalelardiello.it

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