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l'avvocato
19 Febbraio 2025 - 13:43
Cosa ha disposto l’ordinanza N. 2058/2025 della Cassazione civile
E' esclusa la natura ritorsiva del licenziamento della lavoratrice che ha travalicato i limiti del diritto di critica pubblicando su Facebook e con e-mail inviate dall’account aziendale notizie diffamatorie nei confronti dei propri superiori. Così ha disposto l’ordinanza N. 2058/2025 della Cassazione civile.
La vicenda sorgeva nel lontano gennaio del 2018 allorché una lavoratrice subiva una contestazione disciplinare avente ad oggetto diversi fatti, tra cui l’invio, dall’account aziendale, di email e pubblicazioni di post su Facebook dal contenuto diffamatorio nei confronti di alcuni superiori, oltre all’inosservanza dell’orario di lavoro in svariate circostanze.
All’esito del procedimento disciplinare la lavoratrice veniva licenziata per giusta causa in ragione dell’intollerabile gravità delle condotte tenute, aventi anche carattere di recidiva. Dunque, venivano proposti ricorsi sia al Tribunale sia alla Corte territoriale competente, dove le pretese della lavoratrice venivano disattese.
Veniva dunque promosso ricorso per Cassazione in ragione di numerosi motivi di gravame e la Società resisteva in giudizio con controricorso. All’esito, la Suprema Corte respingeva il ricorso, sostanzialmente aderendo integralmente alla pronuncia della Corte d’Appello di Catania, ritenendo in particolare raggiunta la prova della gravità dei comportamenti tenuti dalla lavoratrice, tali da trascendere il diritto di critica nei confronti della datrice di lavoro e rendendo quindi inapplicabile la relativa scriminante.
In primo luogo, la ricorrente lamentava la violazione dell’art. 7 della L. 300/1970 e delle norme del contratto collettivo per aver ritenuto tempestivo l’esercizio del potere disciplinare da parte dell’azienda. La Suprema corte respingeva il motivo di gravame sia in quanto volto ad ottenere un diverso apprezzamento del tenore delle proprie difese e di altri elementi la cui valutazione era riservata al giudizio di merito, sia perché tale impugnazione si riferiva esclusivamente alle condotte contestate in relazione alle mail, mentre alcuna censura era stata sollevata dalla lavoratrice per quanto atteneva alla parte di sentenza in cui la Corte d’Appello aveva ritenuto necessario un determinato lasso temporale anche con riguardo all’inosservanza dell’orario di lavoro, per la cui contestazione era stata necessaria un’analisi meticolosa dei tabulati di entrata ed uscita dall’azienda.
Con il secondo motivo, parte ricorrente lamentava la violazione dell’art. 2712 c.c. dello Statuto e delle norme del CCNL per avere ritenuto la Corte d’appello inidoneo il disconoscimento dei post su Facebook e per aver dato rilievo probatorio alla sentenza del Tribunale penale di Siracusa.
La Suprema corte riteneva anche detto motivo infondato, sia perché il dato della provenienza della querela, ai fini probatori, era del tutto irrilevante in merito all’autenticità della paternità dei post, sia per difetto di pertinenza, avendo la parte omesso di censurare la parte della sentenza in cui la Corte, condividendo quanto già affermato dal giudice di prime cure, aveva ritenuto il disconoscimento generico e quindi inidoneo ad inficiare la valenza probatoria dei documenti.
Con il terzo motivo parte ricorrente lamentava violazione delle norme di legge e di contratto per avere la Corte escluso la sussistenza della scriminante del diritto di critica e di non aver colto la natura ritorsiva del provvedimento, nonché per aver posto sullo stesso piano le email aziendali ed i post su Facebook nonostante il disconoscimento di questi ultimi.
La Cassazione respingeva detto motivo di ricorso preliminarmente osservando che il disconoscimento effettuato nella fase del merito era stato generico, di per sé inidoneo ad inficiare la valenza probatoria dei documenti. Documenti la cui paternità, al contrario, era stata pienamente riconosciuta nella sentenza del Tribunale penale di Siracusa all’esito del giudizio di condanna della lavoratrice per diffamazione aggravata continuata ai danni di uno dei colleghi.
Con ulteriore motivo di ricorso la lavoratrice lamentava la violazione e/o falsa applicazione del d.lgs. 66/2023 e delle norme del contratto collettivo in relazione alla contestata inosservanza degli orari di lavoro.
La Suprema corte rigettava anche questo motivo da un lato perché il generico richiamo alla disciplina legale del d.lgs. 66/2003 violava il principio di specificità dei motivi di gravame, e da altro lato perché comunque ritenuto inammissibile, avendo la Corte valutato la sanzione espulsiva adottata proporzionata anche prescindendo dalla condotta di inosservanza degli orari di lavoro e detta ulteriore ratio decidendi non era stata censurata dalla ricorrente.
Rammentava la Cassazione infatti che qualora il provvedimento impugnato si fondi su diverse rationes decidendi, ciascuna di per sé idonea a giustificare la statuizione, la circostanza che l’impugnazione sia rivolta solo nei confronti di una di esse comporta l’inammissibilità del gravame per l’esistenza del giudicato su quella non censurata, o comunque per carenza di interesse. Quand’anche il motivo fosse accolto infatti la sentenza impugnata non verrebbe comunque cassata in quanto sufficientemente sostenuta dalla ratio decidendi non censurata.
Ulteriore motivo di gravame parte ricorrente era la lamentata violazione e falsa applicazione delle norme di legge per avere la Corte escluso la natura discriminatoria del licenziamento.
La Suprema corte respingeva detto motivo sia perché questione nuova, mai affrontata nelle fasi di merito, sia in quanto infondato per i motivi già espressi e comunque inammissibile per la confusione nell’atto di impugnazione laddove venivano utilizzati in modo indistinto gli aggettivi discriminatorio e ritorsivo, pur trattandosi di fattispecie del tutto distinte ed autonome.
In ogni caso, concludeva la Suprema corte che la natura ritorsiva del licenziamento era esclusa in ogni caso dall’accertamento dell’avvenuto travalicamento dei limiti del diritto di critica.
Il travalicamento dei limiti di continenza propri dell’esercizio del diritto di critica, pertanto, è stato considerato dalla Suprema corte non solo un insuperabile impedimento al valido utilizzo dello stesso come scriminante, ma di per sé sufficiente ad escludere la natura ritorsiva del recesso intimato dal datore di lavoro.
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