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L'Avvocato
02 Ottobre 2024 - 06:25
PEC diffamatoria a persona giuridica: non sempre reato
L’art. 595, c.p. sotto la rubrica «Diffamazione», punisce con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a euro 1.032 la condotta di chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente, comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione.
Se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato, la pena è della reclusione fino a due anni, ovvero della multa fino a euro 2.065. Se l’offesa è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico, la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a euro 516. Se l’offesa è recata a un Corpo politico, amministrativo o giudiziario, o ad una sua rappresentanza o ad una autorità costituita in collegio, le pene sono aumentate.
Pronunciandosi su un ricorso proposto avverso la sentenza con cui la Corte d’appello aveva confermato la condanna emessa dal Tribunale a carico di un uomo per il reato di diffamazione ai danni di altra persona, per aver inviato un’email da una casella di posta certificata ad una società, intimando di non pagare le somme dovute da tale società al diffamato, essendo questi stato sottoposto a procedura esecutiva, evidenziando, nel contempo, che egli fosse stato denunciato dall’ex coniuge per violazione degli obblighi alimentari, la Corte di Cassazione penale, Sez. V, con la sentenza 13 settembre 2024, n. 34697 - nell’accogliere la tesi difensiva secondo cui si assumeva l’inidoneità del messaggio p.e.c. poiché inviato al solo legale rappresentante della società, di essere conosciuto da altre persone diverse da costui (titolare della casella di posta certificata) o da altra persona autorizzata, per suo conto, a gestire la posta certificata in esame - ha ribadito che è vero che il reato di diffamazione può essere integrato anche qualora l’autore comunichi con una sola persona, ma solo nell’ipotesi in cui ciò avvenga con modalità tali che detta notizia sicuramente venga a conoscenza di altri ed egli si rappresenti e voglia tale evento.
Come di recente rimarcato dalla giurisprudenza di legittimità, nel caso di diffamazione integrata da una comunicazione indirizzata ad un preciso destinatario, occorre distinguere i casi in cui è pacifico che la stessa sia letta da più persone, da quelli in cui ciò può essere frutto di imprevedibili circostanze. Al riguardo, per le comunicazioni cartacee può dirsi, ad esempio, integrato il requisito de quo per il vaglia postale e per la denuncia diretta all’autorità giudiziaria in quanto atti destinati a essere conosciuti dagli addetti al loro smistamento e da quelli che debbono provvedere ai consequenziali adempimenti.
Analogamente, tanto può affermarsi per le comunicazioni digitali mediante utilizzo di indirizzi istituzionali di un pubblico ufficio in cui si è evidenziato che, in siffatti casi, il messaggio, per necessità operative e di lavorazione proprie del pubblico ufficio, non è destinato a restare riservato tra il mittente ed il destinatario, bensì ad essere visionato da più persone). Insomma, laddove, per ovvie ragioni di lavorazione correlate al messaggio, è ex se evidente che esso sia destinato alla conoscenza di più individui, il requisito della pluralità di destinatari che lo leggono è certamente integrato e noto o, almeno, ragionevolmente prevedibile dal mittente (il quale, dunque, agendo almeno con dolo eventuale, integra tutti gli elementi del delitto di diffamazione).
Per contro, laddove la comunicazione cartacea o digitale sia diretta ad un ben determinato destinatario, tanto più se non appartenente ad un pubblico ufficio (che di norma implica la sua “lavorazione” affidata a più persone), e, in particolare, con email o p.e.c. non accessibili a chicchessia (essendo protette dalle relative credenziali), sarebbe errato dare per assodata la sua conoscibilità da parte di terzi estranei al medesimo destinatario e, più ancora, che ciò possa essere noto o quanto meno prevedibile (ed accettato quale rischio insito nel suo agire) dal mittente. Analogamente, in un caso in cui il contenuto denigratorio dell’altrui reputazione era stato inserito in una lettera indirizzata ad un solo individuo, sicché la casuale divulgazione ad altri non poteva dirsi prevedibile e voluta, da parte dell’agente, s’è chiarito che: “È vero che il reato di diffamazione può essere integrato anche qualora l’autore comunichi con una sola persona, ma solo nell’ ipotesi in cui ciò avvenga con modalità tali che detta notizia sicuramente venga a conoscenza di altri ed egli si rappresenti e voglia tale evento.
Tanto premesso, nel caso in esame, si contestava all’imputato il delitto previsto dall’art. 595 commi 1 e 3 c.p. perché, inviando dalla propria casella di posta elettronica certificata ad altro indirizzo PEC in uso ad una società una missiva dal seguente tenore: “con la presente si intima di non effettuare il pagamento di quanto da voi dovuto al signor [omissis], in quanto lo stesso è sottoposto a procedura esecutiva e pignoramento. Inoltre, è stato denunciato per sottrazione di soldi agli obblighi alimentari, come da procedura denunzia che si allega. In difetto la responsabilità ricadrà unicamente sulla vostra compagine con obbligo di corresponsione da parte vostra di tutto quanto versato allo stesso signor (omissis) allegando alla stessa copia di querela, non sottoscritta, della coniuge separata, rendendo noto a terzi non interessati, al di fuori di ogni procedura esecutiva di pignoramento presso terzi, fatti relativi alle controversie anche penali intercorrenti tra il diffamato e la coniuge separata, offendeva la reputazione del primo.
Con l’aggravante di aver commesso il fatto utilizzando un mezzo di pubblicità in ragione della conoscibilità da parte di una pluralità indeterminata di soggetti della comunicazione inviata a casella di posta elettronica certificata di carattere aziendale [omissis]”. Sia in primo che in secondo grado, l’imputato veniva condannato per diffamazione. Ricorrendo in Cassazione, la difesa sosteneva l’erroneità della sentenza, assumendo l’inidoneità del messaggio p.e.c. in questione, poiché inviato al solo legale rappresentante della società, di essere conosciuto da altre persone diverse da costui (titolare della casella di posta certificata) o da altra persona autorizzata, per suo conto, a gestire la posta certificata. La Cassazione, nell’accogliere la tesi difensiva, ha affermato il predetto principio, in ciò evidenziando come nel caso in questione, nulla era stato chiarito, in sede di merito, sulla effettiva e diretta diffusione del messaggio offensivo ad una pluralità di persone e neanche sulla consapevolezza dell’imputato (almeno) di accettare il rischio che la stessa fosse resa nota a più persone.
Da qui, dunque, l’accoglimento del ricorso e l’annullamento della sentenza, con rinvio alla Corte d’appello con il compito di chiarire se e come il messaggio fosse pervenuto a conoscenza di terzi ulteriori, rispetto al titolare della casella di posta elettronica e per quale ragione tanto fosse ragionevolmente prevedibile dal mittente.
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