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L'Avvocato
19 Giugno 2024 - 16:19
Tutela know how e responsabilità degli enti
In tema di tutela penale del know-how, di particolare rilevana la sentenza con cui la quinta sezione penale della Corte di cassazione si è pronunciata in tema di rivelazione di segreti scientifici o industriali - prendendo posizione anche sul cd. «reverse engineering» - e responsabilità degli enti ai sensi del d. lgs. 231/2001.
Il reverse engineering è il processo di analisi di un prodotto, dispositivo o sistema per comprenderne il design, la costruzione o la funzionalità. Si tratta di smontare, esaminare e studiare i componenti e la struttura di un oggetto esistente per crearne una rappresentazione o un modello dettagliato. L’obiettivo principale del reverse engineering è quello di estrarre informazioni o conoscenze utili su come funziona o è costruito qualcosa senza accedere alla documentazione o alle specifiche di progettazione originali. Nel caso specifico italiano, la reingegnerizzazione a scopo di interoperabilità con altri sistemi (e solo a questo scopo) è un atto pienamente lecito ai sensi dell’art. 64 della legge 22 aprile 1941, n. 63 come modificata dall’art. 5 del 29 dicembre 1992 n. 518, sia in senso “leggero” (qualora egli compia tali atti durante operazioni di caricamento, visualizzazione, esecuzione, trasmissione o memorizzazione del programma che egli ha il diritto di eseguire) che in senso di decompilazione vera e propria, ma solo al fine di permettere l’interoperabilità del software con altri programmi.
L’accezione di software è estesa per analogia a concetti informatici quali il formato di un file o la struttura interna di un protocollo. La giurisprudenza ha da tempo chiarito - si legge nelle motivazioni - «che, in tema di rivelazione di segreti scientifici o industriali, oggetto della tutela penale è il segreto industriale inteso in senso lato, intendendosi per tale quell’insieme di conoscenze riservate e di particolari modus operandi in grado di garantire la riduzione al minimo degli errori di progettazione e realizzazione e, dunque, la compressione dei tempi di produzione».
Oggi, però, «alla luce dei rilevanti e crescenti costi che si rendono necessari per la ricerca scientifica orientata allo sviluppo di tecnologie competitive su mercati ormai globali, il delitto di cui all’art. 623 c.p. deve però ritenersi configurabile tutte le volte che venga rivelato indebitamente un segreto che riguardi anche una sola parte del relativo processo produttivo, senza che sia necessario che detta rivelazione attenga a tutte le componenti del prodotto medesimo».
Ciò che assume rilievo nella delimitazione del concetto di notizia destinata al segreto - si precisa - «è che vi siano comprese le operazioni fondamentali per la realizzazione dei prototipi di un determinato impianto, operazioni che costituiscano il “cuore” degli stessi e che siano il frutto della cognizione e della organizzazione dell’impresa». Con specifico riferimento al cd. “reverse engineering” - definito dai giudici come «una sofisticata modalità di copia di un prodotto» - la Corte ha chiarito che «si tratta di attività rientrante nel novero dell’impiego di segreti industriali penalmente sanzionato dall’art. 623 c.p., in quanto sarebbe altrimenti facilmente elusa la tutela del segreto industriale riproducendo, anche ripetutamente, il prodotto di un’impresa che ha sviluppato per l’ideazione dello stesso complessi progetti di ricerca». Da ultimo, in tema di responsabilità degli enti ex d. lgs. 231/2001, si è posta la questione dell’applicazione dell’art. 5, in quanto i fatti di reato sarebbero stati commessi dagli imputati prima che gli stessi entrassero a far parte della compagine sociale.
Viene, dunque, «in rilievo il significato da attribuire all’espressione “persone che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo dell’ente” e, in particolare, l’individuazione delle situazioni in cui si può affermare che un soggetto, pur non rivestendo cariche formali nell’ente, eserciti sullo stesso un controllo in via di fatto». Tra le possibili interpretazioni, il collegio ha aderito a quella più ampia (descritta in motivazione) affermando che «la nozione di controllo di cui all’art. 5 d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, non coincide con quella di controllo della società delineata dall’art. 2359 cod. civ., ma ricomprende anche l’attività di vigilanza o, comunque, di verifica e incidenza nella realtà economico-patrimoniale della società, sovrapponibile a quella svolta dai sindaci o dagli altri soggetti a ciò formalmente deputati, essendo l’obiettivo del legislatore quello di colpire l’attività sempre più insidiosa, anche dal punto di vista criminale, posta in essere dalle società mediante soggetti che a vario titolo operano per raggiungere le finalità, talora illecite, che essa si propone».
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