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L'Avvocato
06 Marzo 2024 - 07:08
I casi di estorsione del datore di lavoro
Il vantaggio perseguito ovvero l’ingiusto profitto può consistere non solo nella modifica delle condizioni contrattuali che riducano o eliminino diritti del lavoratore consentendo al datore risparmi di spesa o minori esborsi ma anche nell’imposizione di formule contrattuali che, simulando un rapporto di lavoro diverso da quello effettivo, si traduca in conseguenze patrimoniali negative per i lavoratori.
E’ quanto stabilito dalla Sentenza N. 29047/2023 della Suprema Corte di Cassazione. La sentenza è stata emessa su ricorso del Procuratore della Repubblica avverso l’ordinanza del riesame, che annullava parzialmente quella emessa dal Giudice per le indagini preliminari con cui era stata applicata a quattro persone, indagate per ipotesi di estorsione, la misura degli arresti domiciliari: i fatti riguardavano l’imposizione di condizioni di lavoro palesemente inique e illegittime alle lavoratrici, alle quali veniva minacciata l’interruzione del rapporto di lavoro in caso di mancata accettazione. L’ordinanza del Tribunale escludeva la ricorrenza del reato, osservando come sin dalla fase genetica del rapporto di lavoro fosse stata prospettata la mancata instaurazione dello stesso quale alternativa alla mancata accettazione delle condizioni imposte.
Nel ricorso si evidenziava come molte lavoratrici fossero state assunte in nero e successivamente costrette a sottoscrivere apparenti contratti di lavoro a tempo indeterminato part time pur lavorando per orari diversi e superiori, a sottoscrivere buste paga che riportavano importi superiori rispetto a quelli percepiti, a lavorare ininterrottamente senza effettivamente godere di ferie risultanti; nella prospettazione dell’accusa, in altre parole, risultava evidente che gli indagati avessero indotto le lavoratrici, sotto minaccia di interruzione del rapporto già avviato a condizioni illecite, a formalizzarlo solo per dare la parvenza di legittimità. Con la pronuncia in esame la Corte di cassazione affronta la questione della configurabilità del delitto di estorsione nell’imposizione, da parte del datore di lavoro, di condizioni di lavoro dequalificanti o illegittime ai dipendenti, sotto minaccia di licenziamento o forzate dimissioni; ciò, non senza aver prima analizzato le diverse posizioni della giurisprudenza di legittimità sul punto.
Ed invero un primo indirizzo esclude la ricorrenza del reato di estorsione allorquando il datore di lavoro, al momento dell’assunzione, prospetti agli aspiranti dipendenti l’alternativa tra la prestazioni d’opera sottopagate e la perdita dell’opportunità di lavoro, in quanto il diritto al lavoro non può essere confuso col diritto all’assunzione da uno specifico datore sicchè gli estremi del reato di estorsione non possono essere riconosciuti nel momento genetico del rapporto di lavoro, bensì soltanto nelle modalità di svolgimento di questo. Secondo un altro orientamento integra il delitto di estorsione la condotta del datore di lavoro che, approfittando della situazione del mercato del lavoro a lui favorevole per la prevalenza dell’offerta sulla domanda, costringe i lavoratori, con la minaccia larvata di licenziamento, ad accettare la corresponsione di trattamenti retributivi deteriori e non adeguati alle prestazioni effettuate, in particolare consentendo a sottoscrivere buste paga attestanti il pagamento di somme maggiori rispetto a quelle effettivamente versate.
Ha osservato la Corte come dagli orientamenti in questione sia dato desumere che il discrimine tra la condotta penalmente rilevante e quella che non lo è sia rappresentato dalla sussistenza di un rapporto di lavoro già in atto, anche se di mero fatto, rispetto al quale si pretenda di ottenere vantaggi patrimoniali attraverso la modifica in senso peggiorativo dell’accordo sotto la minaccia dell’interruzione del rapporto. Il vantaggio perseguito ovvero l’ingiusto profitto può consistere non solo nella modifica delle condizioni contrattuali che riducano o eliminino diritti del lavoratore consentendo al datore risparmi di spesa o minori esborsi ma anche nell’imposizione di formule contrattuali che, simulando un rapporto di lavoro diverso da quello effettivo, si traduca in conseguenze patrimoniali negative per i lavoratori. Nel caso al suo esame la Corte ha sottolineato come il Tribunale non avesse verificato, per ciascuno dei dipendenti, se le minacce fossero dirette all’instaurazione del rapporto o, in presenza di un rapporto in atto, sia pure in nero, fossero dirette ad ottenere la formalizzazione del rapporto di lavoro a condizioni difformi da quelle reali. Ha quindi disposto l’annullamento con rinvio.
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