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RICORDI/2

Primo amore. La sera che accende tutto

Quando bastava una piazza illuminata e un lento di mezzanotte per far partire una storia d’estate

Il giornale dell'estate

Le frasi importanti – «Allora ci vediamo domani?», «Stessa ora?» – hanno la delicatezza delle conchiglie: se le stringi troppo, si spezzano

Arriva sempre così, senza preavviso: una sera di agosto in cui il caldo finalmente molla la presa e la piazza si accende. Non serve sapere il nome del paese, basta il disegno delle luminarie che si accendono in sequenza, il profumo di zucchero filato, la banda che sistema gli spartiti sul palco. Tu sei lì da pochi giorni, appena il tempo di capire dove comprare il ghiaccio e a che ora il mare diventa una lastra di vetro. Gli amici d’estate ti hanno già trascinato tra le giostre, ti hanno spiegato dove si vince il peluche, a che ora iniziano i fuochi, perché il vento di tramontana è «buono» e lo scirocco «maledetto». Uno dice che domani si va a Porto Cesareo «se non c’è troppa coda», un altro nomina una festa ad Ostuni come se fosse dietro l’angolo: tu annuisci, memorizzi, ma in verità stai cercando solo un volto.

È strano come ci si riconosca senza presentazioni. Tra un tiro al bersaglio e un calcinculo, la vedi ridere con una mano a schermarsi dagli schizzi di una fontanella, oppure lo vedi passare con il motorino acceso, quel gesto rapido di togliere la sabbia dal dorso del piede. Non vi dite niente, ma tutto comincia a fare rumore. La banda attacca un brano pop, nessuno ascolta davvero, però il battito si sincronizza con qualcosa che non hai deciso tu. La piazza è piena ma sembra avere un varco proprio lì, tra il chiosco delle granite e lo stand delle mandorle tostate. Una voce dentro suggerisce: «Muoviti». L’altra, più prudente, ricorda: «Sei solo in vacanza».

Poi succede la cosa più semplice del mondo: un amico ti spinge, o ti chiama, o inventa un pretesto. «Vieni, che salutiamo…». E in mezzo a un saluto collettivo, escono due nomi. Il vostro e quello dell’estate. Perché l’estate ha sempre un nome: non è la destinazione, non è un lido, non è la compagnia; è la persona che ti fa dimenticare a che ora chiudono i chioschi e quando parte l’ultimo pullman. Vi scambiate una battuta leggera, due informazioni inutili, un «Che scuola fai?» che nel rumore della piazza diventa una promessa vaga. E mentre qualcuno tira fuori un tamburello e ci batte due colpi – niente spettacolo, solo un accenno – ti passa in testa un pensiero ridicolo: che quella sera a memoria la ricorderai per sempre.

Si balla. Non come nelle foto dei social, con pose calibrate e orizzonti perfetti, ma come viene: scarpe impolverate, passi incerti, sorrisi trattenuti. Qualcuno chiede al DJ «la lenta», che a un certo punto arriva sempre, anche quando va di moda il contrario. E quando succede, ti accorgi che la timidezza è una scusa, che le mani tremano lo stesso, che il cuore non chiede permesso. «Ti va di ballare?» suona come una richiesta d’acqua a chi ha sete. Non c’è niente di speciale da dire, e infatti non dici niente: vi muovete piano, con l’imbarazzo intelligente di chi capisce di essere dentro un pericolo dolce. Se esistesse un contachilometri dei battiti, lì segnerebbe un picco.

Dopo, c’è sempre una deviazione fuori dalla piazza, un pezzo di strada appena più buio, una sosta al chiosco che ancora tiene la luce accesa. Una frisella troppo condita, un morso di puccia diviso in due, la riga del sale ancora sulle braccia. Parlate di cose piccole: un professore severo, una serie TV, la città da cui venite. Non serve altro. Le frasi importanti – «Allora ci vediamo domani?», «Stessa ora?» – hanno la delicatezza delle conchiglie: se le stringi troppo, si spezzano. Vi lasciate con un «Sì» che sembra un brindisi. La piazza dietro continua a suonare, i fuochi d’artificio si fanno sentire anche senza guardarli. Il mare è vicino, ma stasera è lontanissimo.

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