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Amore e relazioni
18 Agosto 2025 - 23:39
«Bene», perché l’unica recensione onesta dell’amore – soprattutto del primo – è un avverbio semplice
Il giorno dopo è una gomma da masticare che non perde sapore. Sembra non passare mai. La spiaggia è una geometria di ombrelloni, l’acqua limpida come certe verità che preferiremmo confondere. Fai finta di seguire le chiacchiere degli amici, ma stai controllando l’orologio. Se hai un telefono, lo guardi troppo spesso. Se non ce l’hai, guardi il sole per calcolare la distanza dal crepuscolo. Il vento cambia e tutti si mettono a fare i meteorologi, però il meteo vero è dentro: agitato. Verso sera, la città tira fuori la sera migliore. Bastano due gradi in meno e il braccio scoperto smette di sudare. Torni in piazza: le luminarie, ancora. Le facce, ancora. Il palco, ancora. Eppure tutto sembra diverso, come quando ripassi su un disegno con una penna a punta più fine.
La rivedi, o lo rivedi, e stavolta è naturale. Non c’è spinta, non c’è pretesto. Vi trovate. Parlate come se vi foste persi il finale di un film che entrambi volete recuperare. Camminate accanto, né troppo vicini né troppo distanti. Vi fermate alla stessa fontanella della sera prima, e ci ridete sopra: piccole liturgie che nascono da sole. Qualcuno vi saluta, qualcuno commenta, qualcuno invita tutti al mare di notte, come se il buio fosse un’amnistia. In mezzo a quel via vai, succede la cosa che avevate capito già da tempo: un bacio rapido, l’emozione che sbanda, la piazza che in un attimo sparisce e resta solo il respiro. Niente fuochi d’artificio, niente orchestra sinfonica. Solo il rumore preciso di quello che siete: due ragazzi che hanno trovato un punto esatto dell’estate dove fermarsi.
Poi, come sempre, arriva il temporale. Non deve per forza piovere davvero: basta una gelosia con poca ragione, una frase mal messa, un messaggio non letto, un amico che esagera, un silenzio che dura dieci minuti di troppo. A volte piove per cinque minuti sul serio, l’odore d’asfalto bagnato entra nella piazza, la banda smette e riparte, e tutto quello che era facile diventa torbido. È una crepa quasi invisibile, ma tu te la senti addosso come una maglia bagnata. Vi guardate, provate a riparare, «Non volevo», «Neanch’io», «È che…». Funziona per un po’, perché ad agosto tutto sembra aggiustabile. Ma la verità ha il calendario dalla sua parte: l’ultimo giorno esiste. E arriva.
La partenza ha il rumore dei trolley sulle pietre e l’alito amaro della sveglia all’alba. In spiaggia, per salutare, le orme di ieri sono ancora lì, ma più leggere. Il mare fa finta di essere lo stesso, ma è un attore che si ripete. Vi promettete «Ci scriviamo», che è una frase bellissima e tremenda, perché vuole dire «non lasciamoci» ma suona come «ci proviamo». Qualcuno regala un portachiavi, qualcun altro un braccialetto, c’è chi conserva un biglietto sgualcito della giostra. Alla stazione o alla fermata del pullman, mangi un pasticciotto che profuma di zucchero e addio: lo dividi, ne resta una briciola sulla maglietta. Sorridi per non peggiorare le cose. Un autobus passa davanti alla piazza che di giorno sembra più piccola, la banda non c’è, le luci spente. Non fai foto: vorresti, ma non ce la fai. Torni a casa e scopri che l’estate può stare in una canzone ascoltata per caso al supermercato, in un odore di crema doposole rimasto nel cassetto, nel segno bianco dell’orologio sul polso. Ti vien voglia di scrivere, ma poi non scrivi. Ti tieni quella nostalgia addosso, la indossi come una maglietta a maniche corte anche quando non è più stagione. Gli amici ti chiedono com’è andata, e tu dici «Bene», perché l’unica recensione onesta dell’amore – soprattutto del primo – è un avverbio semplice. Ogni tanto ripensi a un dettaglio insignificante che torna enorme: il colore delle luci sopra il palco, la strada con la curva a gomito dietro la chiesa, la corsa in motorino con il vento che pizzicava la pelle come una risata.
Passano gli anni, e all’improvviso succede di nuovo. Magari sei in macchina, magari stai cucinando, magari stai rimettendo ordine in un cassetto: una melodia, due parole, un battito in più. Non è nostalgia da cartolina: è precisione. Ricordi l’istante esatto in cui hai capito che si stava rompendo qualcosa, e ricordi l’istante in cui hai pensato che la felicità ha una scadenza come il latte. Eppure sorridi. Non per mascherare l’amaro, ma perché hai imparato che quel cuore spezzato è stato il tuo primo vocabolario di sentimenti. Da allora hai capito come si piega la voce per chiedere scusa, come si perdona una distrazione, come si aspetta senza perdere la dignità. Il primo amore non è stato il migliore, ma è stato il primo: lo ripeti piano, come si ripete un nome che si vuole ancora bene.
Se poi torni giù, capita che la Puglia ricompaia come una colonna sonora in sottofondo. Non serve cercarla, ti trova lei: una scalinata bianca, una finestra azzurra, un campanile che suona mentre il mare si mette d’accordo con il vento. Senti un tamburello in lontananza, non un concerto, solo due colpi secchi dentro l’aria della sera. Qualcuno pronuncia Ostuni come si pronuncia un ricordo, qualcuno dice Porto Cesareo come si direbbe «domani». Non è la stessa piazza, non è lo stesso agosto, non siete più quelli di allora. Ma dentro la tua testa il disegno delle luminarie torna a vivere, e per qualche secondo ti sembra di rivedere quel varco tra il chiosco e lo stand delle mandorle, proprio dove tutto era cominciato. Sospiri, sorridi. Poi vai avanti.
E forse l’equilibrio sta tutto qui: riconoscere che quell’amore è finito alla stessa velocità con cui è nato, e che va bene così. Che le estati non devono durare per essere vere. Che il primo cuore spezzato non è un fallimento, ma una patente: da quel giorno guidi meglio dentro le curve delle persone, sai quando frenare, quando accelerare, quando aspettare il verde. È una geografia sentimentale che non si studia sui libri. La impari una sera qualunque d’agosto, in una piazza qualunque d’Italia, con o senza mare a due passi. Il resto lo fanno le luci, una risata, e la certezza irriducibile che alcune cose finiscono, sì, ma non passano mai davvero.
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