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il potere del tempo
01 Agosto 2025 - 08:22
Perché i ricordi, come le estati migliori, vanno condivisi. Per sentirsi meno soli nel viaggio del tempo
C’è sempre un’estate che torna, anche quando non ci pensi. Magari stai facendo la spesa, o sei in fila alle Poste, e da una radio gracchiante parte una canzone. Quella. Quella che non ascoltavi da anni. Eppure in un secondo ti ritrovi lì: pelle salata, capelli scompigliati, un motorino che scoppietta, un tramonto che sembra un film.
È in quel momento che lo capisci: non era un’estate qualunque. Era l’estate del ‘X. E non ha niente a che fare con la data esatta, col numero dell’anno. Quello “X” sei tu, in un tempo che non esiste più, ma che si rifiuta di scomparire davvero.
L’archeologia del ricordo è fatta di piccole cose. Un biglietto del cinema all’aperto stropicciato in fondo a un cassetto. Una maglietta sbiadita che ancora profuma di doposole. Un messaggio salvato per sbaglio su un vecchio telefono. Sono reperti emozionali, schegge di un tempo caldo e sospeso, quando la realtà sembrava un’onda lenta e gentile.
Ogni estate memorabile ha almeno tre elementi che la rendono immortale:
• Una canzone che hai consumato fino a farla tua;
• un luogo che ancora oggi potresti percorrere a occhi chiusi;
• una persona che magari non c’è più, ma che d’estate sembrava più vicina al cielo.
E il bello è che, ogni volta che uno di questi elementi riaffiora, il viaggio inizia da capo.
I ricordi estivi non chiedono permesso. Arrivano a sorpresa. Come quel giorno in cui apri l’armadio e trovi il costume di quando avevi dieci anni in meno e cinque chili in meno. Oppure quando al mare, un ragazzino grida lo stesso nome che usavi tu da piccolo per chiamare la nonna.
E allora ti ricordi. Ti ricordi l’estate in cui ti sei rotto il mignolo giocando a calcio sulla sabbia. O quella in cui hai rubato un bacio al cinema sotto le stelle, mentre il film lo guardavano tutti tranne voi. Ti ricordi le corse in motorino senza casco, che oggi ti farebbero rabbrividire, ma che allora sembravano il massimo della libertà.
La verità è che l’estate ha la capacità di incidere solchi nella memoria, come un vinile che gira sempre sullo stesso ritornello.
Prima ancora del ricordo, c’era l’attesa. Un rito sacro che iniziava con l’ultima campanella di scuola. C’era la febbre dei tre mesi di libertà, la valigia da riempire con più speranze che vestiti, il viaggio in macchina con i finestrini abbassati e l’aria che sapeva già di sale e di avventura.
L’attesa era essa stessa una vacanza, una promessa sussurrata dal caldo che saliva dall’asfalto. Era il tempo dei piani improbabili, delle liste di cose da fare scritte sul retro di uno scontrino, dei “quest’anno cambierà tutto”. Forse non cambiava mai niente, ma crederci era già metà della magia. Quell’attesa rendeva ogni momento, una volta arrivati, ancora più denso e prezioso.
Ecco perché, quando diciamo «Ti ricordi l’estate del ‘X?», non stiamo facendo solo una domanda. Stiamo cercando qualcuno che ci dica: “Sì, me la ricordo anche io”
Non tutte le estati che ricordiamo erano perfette. Alcune erano complicate, confuse, piene di dubbi. Ma oggi, ripensandoci, sembrano migliori di quanto fossero davvero. È il potere del tempo: lima gli spigoli, esalta le luci.
Ti accorgi che ciò che ti manca non è solo quel momento, ma il te stesso di allora. Quello che credeva che tutto fosse possibile, che bastava una cassa bluetooth e un’amicizia nuova per sentirsi invincibile. Quello che non aveva ancora messo la protezione solare sulle emozioni.
E così, anche se oggi il mare è lo stesso, anche se il chiosco sulla spiaggia fa ancora le stesse granite, qualcosa è cambiato. Magari sei tu. Ma forse è solo la nostalgia che si è fatta più brava a raccontare le storie.
Forse, a renderle uniche, era anche la loro natura analogica. Le estati del ‘X non avevano storie di Instagram da aggiornare ogni ora, né geolocalizzazioni da condividere. Le foto si scattavano con il rullino, e si scoprivano settimane dopo, con la sorpresa di occhi rossi e inquadrature sbagliate che oggi sarebbero state scartate in un secondo. La noia non era un nemico da combattere con lo scroll infinito, ma il fertile terreno da cui nascevano le idee più assurde: una capanna costruita con legni portati dal mare, un torneo di gavettoni che coinvolgeva tutto il vicinato, ore passate su una panchina a parlare del nulla. Non c’erano chat di gruppo; per chiamare un amico si citofonava, o si lanciava un fischio sotto la finestra. Era un mondo più lento, meno connesso, ma forse per questo più profondamente legato.
C’è chi dice che l’estate sia una stagione spensierata. Ma non è del tutto vero. L’estate è anche un momento di verità. Quando rallenti, quando ti fermi a guardare il cielo per più di cinque secondi, qualcosa si muove dentro.
E allora ti trovi a fare bilanci. A pensare a chi non c’è più. A rivedere quella foto in bianco e nero di tuo padre con i pantaloni corti e la radio a tracolla. A chiederti che fine ha fatto quel ragazzo con cui giocavi a ping pong al lido, o quella ragazza che leggeva “Il giovane Holden” sotto l’ombrellone accanto.
Ogni estate è una promessa. Alcune le manteniamo. Altre no. Ma tutte, anche quelle più semplici, si sedimentano dentro di noi come sabbia tra le dita. E ci restano. Sono i capitoli non scritti della nostra biografia, quelli che raccontiamo a bassa voce, quasi per paura di rovinarli
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