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Il commercialista
15 Novembre 2023 - 06:46
Internazionalizzazione
È stato depositato in Parlamento nei giorni scorsi il Decreto Internazionalizzazione che ha la finalità principale di puntare al rientro in Italia delle attività svolte in precedenza fuori dall’area della Unione Europea o addirittura dello Spazio Economico Europeo. Ai professionisti e alle imprese che riporteranno stabilmente la propria attività in Italia è promesso uno sgravio fiscale del 50% per sei anni. Il periodo di mantenimento della nuova collocazione in Italia viene alzato nel termine compreso tra 5 e 10 anni rispetto alla precedente bozza di legge ed è previsto che in caso di nuova delocalizzazione scatterà una forma di penalizzazione non solo per la ricollocazione fuori dall’area della Unione Europea o dello Spazio Economico Europeo ma anche all’interno di questa area, criterio che potrebbe aprire alcune criticità rispetto ai rapporti con la Commissione Europea.
In cosa consiste l’agevolazione? La disposizione mira ad agevolare sul piano fiscale il trasferimento di attività economiche che erano svolte in precedenza al di fuori della Unione Europea o dello Spazio Economico Europeo con una ampia portata, poiché in novero delle categorie incluse nella misura riguarda non solo attività d’impresa ma anche esercizio di arti e professioni, stabilendosi che i relativi redditi non formino la base imponibile ai fini IRES, IRPEF e IRAP per il 50% nel periodo di imposta in corso al momento in cui avviene il trasferimento, e nei cinque periodi di imposta successivi. Per evitare forme elusive di entrata ed uscita strumentali al fine di godere del vantaggio fiscale non sono incluse le attività già esercitate nel territorio dello Stato nei 24 mesi antecedenti il loro trasferimento. Compete al contribuente l’onere di tenere una separata contabilità che metta in evidenza il valore della produzione netta agevolabile formata in Italia da quella estranea a questo processo, inoltre la durata minima della ricollocazione in Italia deve essere fissata in cinque anni per le piccole e medie imprese e in dieci anni per le grandi imprese che, secondo la definizione comunitaria del 2003 devono possedere uno dei seguenti requisiti: 250 dipendenti, 50 milioni di euro di fatturato e 43 milioni di euro di totale di bilancio.
Se in questo lasso temporale interviene una nuova forma di offshoring, anche parziale, sia in altro Stato della Unione che fuori dallo Spazio Economico Europeo, interverrà una causa di decadenza dal regime preci si pagheranno imposte piene e interessi. L’iter di approvazione di questa norma, superata la fase parlamentare, passerà alla Commissione Europea che ne dovrà autorizzare l’efficacia. E qui nasce un primo problema e cioè capire se la Commissione Europea accetterà termini sanzionatori in caso di successiva ricollocazione estera, ma all’interno dello Spazio Economico Europeo o della stessa Unione. Ai sensi dell’articolo 108 del Trattato sul funzionamento della Unione, l’efficacia di queste disposizioni deve passare attraverso un attento vaglio. Per commentare la bontà della iniziativa è sicuramente essenziale affrontare il tema del dumping fiscale e del costo del lavoro che attanaglia il sistema produttivo italiano da molti anni e l’esperienza COVID ha dimostrato che il Paese più volte, in un momento di eccezionale crisi, si è trovato in ginocchio rispetto all’approvvigionamento di beni e prodotti essenziali.
L’apertura del mercato unico e di quello globale hanno consentito per anni che le imprese italiane ed europee scegliessero dove meglio collocarsi nel territorio comunitario ed oltre, godendo dei vantaggi fiscali concessi dai singoli stati e di quelli del costo della manodopera, dei servizi o delle forniture. Non è un caso che diversi paesi asiatici siano diventati il collettore globale dei sistemi di produzione internazionale. Lo stesso dicasi di esperienze di eccessiva delocalizzazione da parte di multinazionali laddove poi ci si rende conto che determinati processi in certi paesi non raggiungono i livelli qualitativi minimi o comunque necessari ed è noto a tutti quanto l’influenza di alcune imprese multinazionali sia diventata fondamentale nell’approvvigionamento di beni e servizi anche nel nostro Paese. Sotto quest’ottica la proposta di legge sembra centrare pienamente un tema che a dirla tutta già il precedente Governo Conte si era posto. Per la determinazione delle modalità di calcolo della base imponibile certamente ci si dovrà porre un problema. La legge impone infatti una separata contabilità analitica che metta in evidenza i termini del valore della produzione generata in Italia a seguito della ricollocazione nel nostro Paese.
Questa è oggettivamente una condizione semplice per aziende strutturate o che operano già da diversi anni su piattaforme commerciali internazionali, un po’ meno semplice per imprese di minori dimensioni. Ultimo aspetto riguarda la durata minima del rimpatrio produttivo. Cinque anni per le imprese minori e dieci per quelle di grandi dimensioni le quali tuttavia potrebbero trovarsi naturalmente a dover ridurre i tempi di una eventuale nuova uscita dal sistema per ragioni puramente commerciali o di interesse aziendale. Forse in questo caso la norma andrà rivisitata.
Francesco Andrea Falcone
Dottore Commercialista - Revisore Legale
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