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Il commento
12 Ottobre 2024 - 06:00
Un momento dei funerali di Massimo Battista
Massimo Battista ha rappresentato un esempio di caparbietà nella lotta politica. E questo gli va riconosciuto al di là della condivisibilità o meno delle sue posizioni. L’enorme affetto che gran parte della città gli ha riversato – al netto degli opportunisti del trend topic – è un sintomo del segno che ha lasciato come uomo e come politico anche nei suoi avversari. Se il suo addio è stato salutato da una folla di un migliaio di persone sinceramente commosse, soprattutto gente comune, è evidente che quest’uomo si era fatto voler bene. Un aspetto più volte sottolineato da don Ciro Alabrese nella sua omelia.
Battista ha vissuto l’impegno politico come passione e questo è un merito a prescindere – lo ripetiamo – dai contenuti della sua linea politica.
Due episodi per ricordare con quanta serietà interpretasse il suo ruolo istituzionale. Il primo: già gravemente colpito dalla malattia, si presentò in consiglio comunale sorretto dalla sua amata moglie per non far mancare i numeri nella seduta in cui si sarebbe dovuta discutere la mozione di sfiducia al sindaco. Un gesto di enorme fatica e senso del dovere verso il quale non tutti – tra quelli che oggi spargono lacrime – ebbero adeguato rispetto. Successivamente, in condizioni sempre più precarie, si recò dal notaio per sottoscrivere le dimissioni che avrebbero dovuto sortire la fine dell’amministrazione comunale. Anche in questo caso ci fu chi rese vano questo suo sacrificio. Giusto, quindi, tributargli gli onori per il suo impegno.
Uomo coriaceo, ma dalla bonomìa resa ancora più accattivante da quella “evve” che lo caratterizzava, Massimo Battista riusciva a non ispirarti acredine persino nelle occasioni più conflittuali, come quando inscenò un quasi solitario sit-in sotto la sede del nostro giornale per contestarne la linea editoriale.
Era un naturale uomo di popolo che aveva fatto della battaglia contro l’inquinamento industriale la missione del suo impegno. Era un dipendente del siderurgico, ma viveva la fabbrica come strumento di lotta. L’ha vissuta in termini conflittuali, dapprima come sindacalista Fiom e poi come Libero e Pensante, con punte da antologia della contrapposizione fra “padrone” e operaio quando fu relegato a «contare le barche» giù al lungomare, tra i resti di quello che era il dopolavoro “marinaresco” riservato ai dipendenti Ilva.
La battaglia di Massimo Battista ha però necessità di avere un senso anche ora che lui non c’è più. E forse c’è una immagine che più di altre può contribuire a costruire un senso su un livello diverso: c’è un video dove Massimo Battista è accanto ad Adolfo Buffo, ex direttore del siderurgico. Sono nel mezzo di un acceso e a tratti drammatico confronto con gli operai, all’interno dello stabilimento. Sono uno accanto all’altro, ognuno però con ruoli e posizioni diverse. Adolfo Buffo è morto qualche giorno prima di Massimo Battista. Anche lui ucciso da un tumore. Ecco allora il senso nuovo da ricercare: queste battaglie non possono più produrre divisioni, i tumori non fanno distinzioni tra ingegneri e operai, tra chi è di Taranto e chi di Laterza, tra chi è dentro e chi è fuori la fabbrica. In questi anni, in tanti, in troppi, hanno lavorato – talvolta solo in funzione di una visibilità personale – per scavare un solco, secondo una visione manichea che ha prodotto tragiche lacerazioni. Allo stesso tempo, “Coniugare lavoro e salute” da nobile obiettivo si è ridotto a sterile slogan in questi lunghi anni di fallimenti che, paradossalmente, hanno portato Taranto ad essere terra senza lavoro e dalla salute precaria: esattamente l’opposto del traguardo che si voleva raggiungere. Dare un nuovo senso a questa espressione, in una visione condivisa, deve essere un impegno comune e tangibile. Ma serve una condizione non rinunciabile, che vada ben oltre le dispute sulle tecnologie da utilizzare per rendere le fabbriche (non solo l’ex Ilva, anche se di altre si parla poco) luoghi di lavoro e non di malattia: una politica che sappia essere capace di facilitare dialogo e ricostruire una comunità stremata e lacerata. Questa, forse, è la sfida più difficile.
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