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La Storia
30 Giugno 2024 - 09:30
Olimpiadi di ieri e di oggi
di Mario Lazzarini
Tra circa un mese inizieranno a Parigi le XXXIII Olimpiadi moderne, che conservano il nome degli antichi giochi olimpici che si svolgevano ogni quattro anni nel santuario di Zeus a Olimpia, nel Peloponneso, a partire ufficialmente dall’anno 776 a. C. Furono ininterrottamente celebrati fino al 393 d. C., per ben 292 edizioni; per cui le nostre moderne Olimpiadi, giunte alla XXXIII edizione, sono sostanzialmente ai primi passi.
Charles Pierre de Frédy, barone di Coubertin (1863- 1937) ne fu il creatore e promotore, con la prima edizione che si tenne ad Atene nel 1896. Da buon pedagogista romantico, ma anche scrittore e politico francese, ispirandosi al noto motto latino Mens sana in corpore sano (Nelle Satire di Giovenale), era convinto della necessità della pratica atletica e sportiva nell’educazione dei giovani. Fu lui l’inventore del simbolo dei cinque cerchi intrecciati che rappresentano i 5 continenti (che i Greci non conoscevano) e della staffetta della torcia col fuoco sacro di Olimpia. Molto infatuato dal mondo greco classico, e soprattutto dalle immaginarie scenografie di Olimpia (tipo film peplum), ma non approfondito conoscitore della storia e funzione degli antichi giochi atletici nell’Ellade, creò qualcosa che solo alla lontana ricordava i valori e gli scopi delle antiche olimpiadi.
Anche la frase a lui attribuita, ma che pare lui non abbia mai scritto: “L’importante non è vincere, ma partecipare”, era del tutto sconosciuta ai Greci antichi e sarebbe stata incomprensibile, perché per loro l’importante era esclusivamente vincere, e del solo partecipare non sapevano che farsene.
I vari giochi atletici nacquero in Grecia in epoca remotissima come cerimonie funebri in onore di un grande guerriero, vero o mitologico, e si svolgevano intorno al suo monumento funerario e in un luogo a lui consacrato. In pratica gli altri guerrieri dedicavano al defunto l’esempio di quelle qualità fisiche e morali di cui lo scomparso era stato in possesso in vita e che facevano parte del comune bagaglio eroico. Poi pian piano assunsero una maggiore valenza religiosa e le sedi deputate furono i grandi santuari venerati da tutti i greci (perciò detti “panellenici”), come Olimpia, Delphi, Corinto Nemea.
Le prime tracce le abbiamo nell’Iliade di Omero, con i giochi celebrati per l’eroe Patroclo, cugino e amico di Achille, caduto in battaglia. Ma già molti secoli prima le scene di pugilato e lotta dipinte nei palazzi minoici di Creta, testimoniano dell’esistenza di gare diciamo sportive.
Quindi questi giochi nascevano in ambito aristocratico, tra i più forti e illustri guerrieri che dovevano esibire la loro valentia per garantirsi pubblicamente ammirazione e il diritto a un potere principesco. Valentia che non era solo fisica, ma anche morale, dovuta all’educazione familiare, a quella ricevuta nella propria città, con un complesso di regole da rispettare per onorare soprattutto gli dei, senza il cui favore ogni prestanza fisica era inutile. Era quello spirito di competizione, che con parola greca noi definiamo “agonismo”.
Prima che i giochi iniziassero gli atleti si impegnavano con giuramento solenne nel santuario di Zeus proclamando di essere greci e cittadini liberi (gli stranieri e gli schiavi non erano ammessi), di rispettare le regole di lealtà e onestà verso gli avversari e i giudici di gara, e di non mettere in pratica trucchi o inganni per ottenere la vittoria. Le punizioni per i trasgressori erano molto severe: si andava dalla squalifica a pesanti multe e addirittura a pene corporali come la fustigazione; i rei potevano essere obbligati a far innalzare a loro spese costose statue a Zeus, come espiazione; a dimostrazione che i furbacchioni ci sono sempre stati ad Olimpia furono molte le statue innalzate per pagare le multe. Ma la punizione più grave era la vergogna davanti a tutto il pubblico e davanti ai loro concittadini, che praticamente significava per loro l’esclusione dalla vita sociale.
La competizione era tra singoli individui e lo scopo era solo la vittoria: uno vinceva, tutti gli altri erano sconfitti e disonorati, e chi durante una gara si ritirava era considerato un vile e punito dai giudici. Perciò non esistevano secondi e terzi posti, medaglie d’argento o di cartone, e per lo stesso motivo i greci non concepirono mai gli sport di quadra, dove i meriti per la vittoria devono essere necessariamente ripartiti fra tutti i componenti la squadra.
Ma agli atleti vincitori spettava solo una corona di foglie d’alloro: niente medaglie, niente contratti pubblicitari, niente montepremi da milioni di dracme! Però gli spettava il canto onorifico dei poeti più celebri che sarebbe rimasto a ricordo nei secoli, il trionfo al rientro nella città natale con pubbliche cerimonie di ringraziamento agli dei, il diritto a un posto in prima fila a vita a teatro (proedrìa) e spesso anche ad un pasto gratuito al giorno vita natural durante a spese dello stato; che non era poca cosa in tempi in cui non è che ci fosse grande abbondanza di cibo.
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