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Il commento
30 Aprile 2024 - 06:00
Un momento delle celebrazioni del 25 Aprile, in Piazza della Vittoria, a Taranto
Ci mancavano i veleni di Michele Riondino per inquinare oltremodo il già polveroso scontro sul 25 Aprile e sull’antifascismo.
Come sappiamo, in principio a far detonare le polemiche è stato il caso Scurati.
Ha detto bene Augusto Minzolini, già direttore del Tg1, giornalista di chiara collocazione nell’area politica di centrodestra: non aver consentito allo scrittore di leggere il suo monologo sull’antifascismo non è stato un atto di censura, ma un atto di idiozia. Il risultato lo dimostra: se lo scrittore vincitore del Premio Strega fosse stato tranquillamente ospitato nella trasmissione di Serena Bortone, il suo monologo verosimilmente non avrebbe sortito alcun particolare effetto, come ha opportunamente fatto rilevare anche Italo Bocchino, direttore editoriale del Secolo d’Italia. Con quella censura (o, appunto, idiozia) il testo di Scurati è invece diventato il manifesto del 25 aprile 2024. Una lezione di comunicazione e di opportunità politica per chi, più realista del re, ha forse pensato di rendere un servigio al governo e alla Presidente del Consiglio, ottenendone, invece, l’effetto contrario proprio alla vigilia di una data “sensibile” come il 25 aprile. La sinistra, con grande opportunismo, ha colto la palla al balzo per rievocare lo spettro di un ritorno al fascismo e rilanciare con grande enfasi la questione della parola “antifascista” non pronunciata dai leader della destra italiana. Un perfetto assist, quello servito da chi ha deciso di oscurare Scurati, risultato utile al centrosinistra per mascherare un suo momento di oggettiva debolezza e frammentazione e spostare l’attenzione dell’opinione pubblica altrove.
Altrettanta idiozia – per riportare la questione nei confini locali - è nel gesto di chi ha imbrattato il cippo dedicato al partigiano Pandiani. Un ignobile sfregio che, anche in questo caso, finisce per portare acqua al mulino di quella parte di sinistra che fatica a legittimare avversari e governo tacciandoli di non dichiararsi apertamente antifascisti.
Un argomento, quello dell’antifascismo, che una parte di sinistra agita contro la destra al governo, ma che un uomo di intelletto e di cultura come Massimo Cacciari – già sindaco di Venezia e certamente non imputabile di simpatie destrorse - ha liquidato per la sua pochezza: «È solo propaganda, fatta quando a destra e a sinistra non hanno altri argomenti». Piuttosto, ha sottolineato il filosofo, quel che serve è una seria opposizione, aggiungendo che oggi non esiste alcun pericolo di rigurgito fascista.
È un po’ come se la sinistra replicasse, dalla parte opposta, lo schema di Berlusconi che agitava, strumentalmente, lo spettro del pericolo comunista. A sinistra l’ossessione è invece per il pericolo fascista. Quella parte di sinistra che continua ad insistere sulla necessità che Giorgia Meloni pronunci la fatidica frase: «Sono antifascista». A ben vedere, però, si tratta di un artificio ideologico che in verità appare più che altro strumentale per attaccare il governo. Un atteggiamento certamente legittimo nella tenzone politica, ma che non ha alcun serio fondamento di sostanza. Per un motivo tanto semplice quanto addirittura banale: il Presidente del Consiglio e i Ministri prima di esercitare le loro funzioni prestano giuramento pronunciando le seguenti parole: «Giuro di essere fedele alla Repubblica, di osservarne lealmente la Costituzione e le leggi e di esercitare le mie funzioni nell’interesse esclusivo della Nazione». Giurare sulla Repubblica e sulla Costituzione è di per sé un atto di antifascismo. Di più: continuare ad affermare che la Costituzione Italiana sia antifascista è persino limitante, riduttivo. La Costituzione è molto di più: è un meraviglioso e irrinunciabile inno alla libertà di manifestazione del pensiero, senza alcuna distinzione di razza, sesso, religione o credo politico.
Giurare sulla Costituzione significa sposare questi valori che vanno ben oltre l’antifascismo. Anzi, l’antifascismo non può essere una patente di legittimità per tutti quanti si professano tali, perché la cronaca quotidiana ci racconta di episodi che dimostrano come talvolta l’antifascismo venga brandito per legittimare gesti violenti e tutt’altro che democratici. La foto del presidente del Senato a testa in giù ne è un esempio. La libertà di manifestazione del pensiero garantita dalla nostra Carta Costituzionale è invece una insopprimibile blindatura contro ogni forma di violenza politica, autoritarismo e/o totalitarismo, di qualunque colore sia. Accettare o meno questi valori sacri e inviolabili è l’unico vero discrimine tra democratici e antidemocratici. Chi non li accetta è fuori dalla Costituzione ed è fuori dal recinto della democrazia liberale, tanto a destra quanto a sinistra. Ma giurare sulla Costituzione è un atto fondamentale che allontana ogni possibilità di dubbio sulla fedeltà ai principi costituzionali di chi è al governo.
Tutto risolto, dunque? No. Al di là delle strumentalizzazioni, occorrono gesti inequivocabili e pacificatori. La destra, se vuole proporsi anche plasticamente come forza liberale, deve riconoscere che senza Liberazione oggi non vivremmo in un Paese democratico, pur senza dimenticare l’esistenza di fazioni, sì antifasciste, ma che nella guerra partigiana non avevano certo come proprio orizzonte politico una democrazia liberale o una socialdemocrazia. La Liberazione e l’architettura costituzionale che ne è seguita, hanno offerto anche al Msi e ai suoi eredi la possibilità di essere legittimi protagonisti della vita politica, dando così sostanza ad un principio liberale sacrosanto: le idee si combattono con altre idee, non con il proibizionismo.
All’indomani del 25 aprile Aldo Cazzullo, sul Corriere della Sera, ha parlato di occasione perduta della destra, che avrebbe potuto in qualche modo onorare quei partigiani – cattolici, repubblicani, liberali, ecc. - che niente avevano a che vedere con chi professava ideologie di segno opposto al fascismo ma pur sempre totalitarie. Così come forse, aggiungiamo per tornare ai confini tarantini, è stata una occasione perduta non pronunciare nemmeno una parola di condanna per lo sfregio al cippo Pandiani (a dire il vero neppure da sinistra si sono alzate voci di condanna).
Ma l’occasione non sarebbe perduta se, finalmente, questi gesti di riconoscimento del valore della Liberazione fossero compiuti. Le occasioni si possono sempre creare. Sarebbe un modo per spegnere definitivamente le polemiche sull’antifascismo, sottrarre una volta per tutte questo stucchevole argomento alla sinistra – non sazia della svolta di Fiuggi e di Fini, di cui Giorgia Meloni è figlia - e isolare, senza alcun tentennamento, quelle frange radicali che non possono albergare o convivere all’interno di una destra moderna, europea, conservatrice, liberale.
Con un gesto di questo tipo la destra si assumerebbe il merito storico di offrire un enorme contributo alla pacificazione nazionale e di portare l’Italia ad essere un Paese dalla democrazia finalmente matura.
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