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Il 25 aprile
25 Aprile 2024 - 05:38
I testimoni di quella memoria rappresentano la verità diversa dall’odierno revisionismo, che non dovrebbe tradirla per rappresentare e cementare l’unità nazionale.
L’occupazione tedesca e fascista in Italia non terminò in un solo giorno. La decisione di scegliere il 25 aprile come “festa della Liberazione” fu presa il 22 aprile del 1946, quando il governo italiano provvisorio, guidato da Alcide De Gasperi, l’ultimo del Regno d’Italia, stabilì, con un decreto, che il 25 aprile dovesse essere “festa nazionale”.
Nei primi mesi del 1945 c’erano diverse decine di migliaia di partigiani, che combattevano contro l’occupazione tedesca e la repubblica di Salò nell’Italia settentrionale.
A sud della Pianura padana nel marzo del 1945, molti soldati occupanti, cercavano di resistere all’offensiva finale degli Alleati, che si intensificò a partire dal 9 aprile a est di Bologna. L’offensiva fu un successo, per il generale sentimento di sfiducia e inevitabilità nella sconfitta diffuso tra i soldati tedeschi e i repubblichini, nonostante le massime autorità tedesche e fasciste, volessero continuare la guerra fino all’ultimo.
Il 16 aprile il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia, di cui facevano parte tutti i movimenti antifascisti e di resistenza italiani, dai comunisti ai socialisti ai democristiani e agli azionisti, diffuse a tutte le organizzazioni locali, la “Direttiva” di “scatenare l’attacco definitivo” di insurrezione generale.
Il 24 aprile 1945 gli alleati superarono il Po, e il 25 aprile i soldati tedeschi e della repubblica di Salò cominciarono a ritirarsi da Milano e Torino. Gli americani arrivarono il primo maggio.
A quasi ottant’anni dalla nascita della Repubblica italiana, democratica e antifascista, il significato del termine antifascismo sembra aver perduto la sua dimensione storica. L’uso corrente è troppo spesso improprio. Un “marchio” di cui fregiarsi a seconda delle circostanze, già evidente a metà degli anni Settanta, in una minoranza di giovani, quando antifascismo e fascismo finivano per ridursi a mere etichette nella lotta fra bande, a volte sanguinosa, che ha marcato una delle stagioni più difficili della democrazia italiana.
Nel periodo ’92-’96, in seguito alla traumatica fine di tutti i partiti storici fondatori nel 1945 dell’Italia repubblicana, un intenso dibattito scientifico sulle origini, aveva riproposto il discorso sull’antifascismo nel suo significato storico di lievito valoriale alla Carta Costituzionale, rimasta pilastro della continuità istituzionale nella cosiddetta seconda Repubblica.
Oggi, lo scontro politico si continua ad alimentare impropriamente di una vicenda storica lontana ormai più di un secolo, col risultato di ignorare il contesto politico, culturale, sociale e internazionale dell’epoca e di cancellare la stessa identità degli antifascisti, diversi gli uni dagli altri nei valori ideologici, morali e politici, ma alla fine uniti per fondare il nuovo Stato democratico.
Quando si lamenta l’assenza di impegno civile nelle generazioni più giovani, forse vale la pena riflettere su quanto questa costante rimozione e distorsione della storia abbia contribuito a indebolire i valori repubblicani che i padri antifascisti avevano affermato nel corso della lunga lotta contro il fascismo.
Come ci ricorda Simona Colarizi nel suo libro “La resistenza lunga Storia dell'antifascismo 1919-1945”, edito da Laterza nel 2023, “la storia dell’antifascismo va dunque letta come storia dei tanti soggetti antifascisti che hanno combattuto il regime fascista: i partiti antifascisti le cui radici risalivano all’Italia liberale, le nuove formazioni politiche antifasciste, i giovani antifascisti cresciuti nel ventennio che non si riconoscevano nei vecchi partiti, la generazione dei più anziani protagonisti della prima guerra civile del ’19-’22, ritornati sulla scena nella seconda guerra civile del ’43-’45. Accanto ai militanti c’è poi il mondo della cultura antifascista legata ai valori dell’Italia liberale, e infine la moltitudine di anonimi antifascisti silenti dalle più diverse provenienze politiche e sociali il cui antifascismo si esprime in un gesto, in un insulto, in una scritta sui muri, in un atto sporadico di disobbedienza”.
L’interpretazione di “resistenza lunga” comporta anche una revisione della vulgata corrente, che propone la guerra partigiana come il solo terreno sul quale si va legittimando la futura classe dirigente antifascista della Repubblica democratica. Una legittimazione che si sono guadagnati tutti gli antifascisti nelle diverse fasi e nelle diverse modalità della loro lotta contro il fascismo; a maggior ragione se si considera il ruolo che ricoprono nella nuova Italia tutti i leader dei partiti antifascisti ante marcia – De Gasperi, Nenni, Togliatti, ma anche La Malfa e Saragat e gli esponenti ai vertici del Partito d’Azione (Pda), aderenti alle altre formazioni politiche dopo lo scioglimento del loro partito nel 1947.
La loro legittimazione come futura classe dirigente dell’Italia postfascista nasce da un dibattito sui futuri assetti democratici dello Stato che non può essere circoscritto al confronto aperto nel Cln, dove si consolida l’unità politica degli antifascisti.
Ritrovare il significato storico dell’antifascismo e ridare identità agli antifascisti significa anche misurarsi con quasi cent’anni di storiografia.
Una storia complessa per la quantità e la diversità di soggetti, di luoghi, di valori espressi dagli antifascisti in esilio, nelle carceri, nella lotta clandestina, ma anche nella loro sfera privata, nei luoghi di lavoro, nelle parrocchie e persino nelle organizzazioni fasciste.
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