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Ilva, uno stabilimento moribondo.

A chi dobbiamo tutto questo?

A chi dobbiamo tutto questo?

"L’impianto è in una situazione di grave crisi. Nel 2023 la produzione si attesterà a meno di 3 milioni di tonnellate, come nel 2022, ben sotto l’obiettivo minimo che avrebbe dovuto essere di 4 milioni, per poi quest’anno risalire a 5 milioni”… “intendiamo invertire la rotta cambiando equipaggio – ha proseguito il Ministro del Mimit Urso -. Ci impegniamo a ricostruire l’ex Ilva competitiva sulla tecnologia green su cui già sono impegnate le acciaierie italiane, prime in Europa”.

Il fatto è che l’acciaio green non esiste ancora e forse non esisterà mai. Che fare allora? Sarebbe l’ora che, nell’interesse generale, l’attuale maggioranza meno ricattabile sul piano della retorica ambientalista, volesse vederci chiaro in quella tragedia industriale annunciata. Anziché perdere tempo con una Commissione d’indagine sulla gestione del Covid-19 se ne costituisca una per andare a fondo sul caso ex Ilva.

Bisognerà pure arrivare a dire la verità!

Se vogliamo dare un nome a quella vicenda potremmo coniare una nuova fattispecie di reato: procurato disastro industriale. Potremmo persino spingerci, seguendo la moda, nella creazione di un neologismo: “opificidio”.

Perché quell’impianto è stato coscientemente, premeditatamente e volontariamente assassinato, in un momento di pazzia collettiva, da una congiura della magistratura tarantina in complicità – su mandato delle lobbies ambientaliste – e d’intesa con ben individuate istituzioni e forze politiche locali e nazionali.

Quando nel 1995 la famiglia Riva fu invitata ad acquistare l’ex Ilva, lo stabilimento perdeva 4 miliardi di lire l’anno. La nuova proprietà dal 1995 al 2012 effettuò investimenti per 4,5 miliardi di euro di cui 1,2 per misure di carattere ambientale.

Al momento del sequestro, l’Ilva non era solo il più grande stabilimento siderurgico d’Europa; i suoi laminati servivano tutta l’industria manifatturiera nazionale. E che dire di Taranto? L’acciaieria rappresentava il 75% del Pil di quel territorio e il 76% della movimentazione del porto (uno scalo su cui vi era un forte interesse dei cinesi per farne il principale hub per le loro merci nell’Europa meridionale). Per il solo approvvigionamento delle materie prime dell’Ilva approdavano nel porto, annualmente, ben 1300 navi. L’85% dei prodotti Ilva transitava per il porto. In sostanza, tra occupazione diretta ed indiretta, 20mila famiglie, solo a Taranto, dipendevano e ancora dipendono dall’Ilva. Se questa era la fotografia della situazione, vi era la possibilità di aprire prospettive nuove per quell’area, alla luce del protocollo d’intesa del 26 luglio 2012, degli stanziamenti pubblici previsti (336 milioni) per la bonifica ambientale e degli impegni assunti dal gruppo, in un rapporto di collaborazione con le autorità nazionali e locali e con le organizzazioni sindacali.

Si è voluto incamminarsi, invece, in una “terra di nessuno” per sette anni, con la cacciata della famiglia Riva, i commissariamenti e la guerriglia della procura contro i provvedimenti votati dal Parlamento. Un’atroce lotta tra la condanna ad una morte lenta e l’istinto di sopravvivenza di quella comunità di lavoro, sola perché lasciata sola.

Poi arrivò – contrastata, osteggiata – l’intesa con Arcelor-Mittal, ma il ministro Luigi Di Maio fece di tutto per farla saltare (chi non ricorda le dichiarazioni alla Camera sulle illegalità dell’operazione, l’evocazione di un “delitto di Stato”) fino alla pugnalata alle spalle, nonostante l’esplicito avvertimento del vertice dell’azienda, della rimozione del c.d. scudo penale. Quanto tale misura fosse indispensabile in quella situazione lo ha spiegato meglio di ogni altro un bravo sindacalista come Marco Bentivogli: “Qualcuno investirebbe 3,6 miliardi, in uno stabilimento che è ancora sotto sequestro giudiziario l’area a caldo? In un impianto per il quale la magistratura ha chiesto il fermo dell’altoforno? In una struttura che deve essere messa a norma sapendo che nel corso del tempo che occorre per farlo, non potendo fermare l’attività, i suoi manager potrebbero essere chiamati a rispondere di reati conseguenti a fatti penali riferibili alle gestioni precedenti?”.

Dello stabilimento si sono occupate ben due procure (quella di Taranto e quella di Milano) che giunsero persino ad impartire direttive opposte. Al management dell’ex Ilva, fu ordinato di spegnere e contemporaneamente di lasciare in funzione l’altoforno più importante dello stabilimento. In sostanza, di rispondere penalmente sia della continuità del funzionamento che della chiusura degli impianti. La società provò a spiegare che: “I provvedimenti emessi dal Tribunale penale di Taranto obbligano i commissari straordinari di Ilva a completare talune prescrizioni entro il 13 dicembre 2019 – termine che gli stessi commissari hanno ritenuto impossibile da rispettare – pena lo spegnimento dell’Altoforno numero 2”.

Secondo la multinazionale franco-indiana, le suddette prescrizioni “dovrebbero ragionevolmente e prudenzialmente essere applicate anche ad altri due altiforni dello stabilimento di Taranto”. Ma tale spegnimento “renderebbe impossibile per la Società attuare il suo piano industriale, gestire lo stabilimento di Taranto e, in generale, eseguire il Contratto”. L’Arcelor Mittal non si rivelò inadempiente, ma le fu impedito di adempiere quanto previsto dall’accordo. Lo smantellamento per via giudiziaria iniziò nel 2012, con una serie di incursioni della procura tarantina che paradossalmente – in nome del risanamento ambientale, e di intesa con le autorità politiche, fece di tutto – dopo il sequestro dello stabilimento e dei prodotti finiti come prova del reato – per impedire anche la realizzazione delle misure di volta in volta adottate per rendere più sostenibile la produzione. Uno stabilimento siderurgico al pari di ogni altra attività produttiva è tenuto a rispettare le norme di volta in volta vigenti in materia di sicurezza e lavoro e di salvaguardia dell’ambiente. Le tecnologie di produzione industriale nella UE sono stabilite sulla base degli obiettivi di protezione della salute identificati a livello europeo d’accordo con l’OMS. Ma, nello stabilire questi parametri, gli obiettivi di risanamento ambientale non possono non essere compatibili con altre esigenze riguardanti i diversi settori produttivi, come i problemi di ammortamento degli impianti, di risorse da investire, di coordinamento tra i diversi Paesi. Soprattutto, i sistemi produttivi hanno necessità di avere dei riferimenti precisi ai quali attenersi per essere considerati in regola.

Il cambiamento procede per gradi sulla base di regole uniformi che divengono di volta in volta non l’indicatore di una impossibile sicurezza assoluta, ma uno standard sostenibile e progressivo a cui attenersi in un quadro di certezza del diritto, perché le imprese devono sapere come regolarsi – nel produrre e nell’investire – senza essere vittime di procure che di punto in bianco, con criteri del tutto discrezionali, impongono ad un’acciaieria di adottare tecnologie cervellotiche, a cui non sono tenute le aziende concorrenti e che appartengono ancora al novero delle buone intenzioni. Nelle stesse ore in cui si discuteva del futuro dell’economia tarantina i carabinieri hanno eseguito un blitz nella fabbrica dell’ex Ilva, per acquisire la documentazione necessaria alla Procura in relazione all’inchiesta su possibili emissioni inquinanti. Negli ultimi mesi, infatti, sono stati registrati diversi picchi periodici di benzene, segnalati da Arpa Puglia, anche se non è stato superato (sic!) il valore soglia fissato dalla norma.

Nessuno è mai stato in grado di provare che l’ex Ilva abbia violato le leggi sulla tutela ambientale all’epoca vigenti. La Corte d’Assise di Taranto si rifiutò di accettare questa logica. Il pm lo disse esplicitamente: “Ma come facciamo a rispondere alla mamma che ha perso il bambino che i limiti erano in regola?” Furono proprio le condanne inflitte all’ex governatore della Puglia Nichi Vendola e al prof. Giorgio Assennato, ex direttore dell’Agenzia regionale dell’ambiente a rendere palese l’arbitrio che hanno sorretto le indagini e la sentenza della Corte. Nichi Vendola, condannato a 3 anni e 6 mesi di reclusione, avrebbe concusso in modo implicito il prof. Assennato perché moderasse la valutazione di impatto ambientale dello stabilimento; ma anche il direttore fu condannato a 2 anni per favoreggiamento perché negò di aver ricevuto delle minacce da Vendola. Toccherebbe alla magistratura fornire la prova dei reati. A Taranto i giudici si sono avvalsi di una presunzione assoluta. Anche il Consiglio di Stato riconobbe l’importanza strategica dello stabilimento e della produzione di acciaio, anche in vista del PNRR e della mission della <decarbonizzazione>. Intanto ai sindacati la voce grossa. Ha tuonato , Michele De Palma, leader della Fiom prima della riunione col governo: “Ora dunque anche se con ritardo il governo si assuma la responsabilità per dare continuità all’azienda e sicurezza a tutti i lavoratori di tutti gli impianti”, Neppure un cenno di autocritica per aver tollerato quel disegno criminoso che ha messo l’Ilva sul lastrico, perché incapaci di sottrarsi alla gogna del politicamente corretto ecologista e di opporsi alle toghe che brandivano sfacciatamente quel ricatto in spregio di tutti i provvedimenti di salvaguardia adattati dai vari governi.

Ben venga, allora, una Commissione parlamentare di inchiesta che spieghi agli italiani perché: la più grande acciaieria d’Europa è stata commissariata anche se era in salute; i proprietari, fratelli Riva, sono stati processati per bancarotta fraudolenta. Ma il fratello Fabio che non aveva patteggiato (e che a Taranto era stato condannato a 22 anni) a Milano venne assolto sia in primo grado che in appello. Nelle motivazioni della sentenza di assoluzione di primo grado emessa nel luglio 2019 il Gup Lidia Castellucci del Tribunale di Milano scrisse che la società Riva Fire aveva investito “in materia di ambiente” risorse finanziarie nella gestione dell’ILVA di Taranto nel periodo intercorrente tra il 1995 e il 2012, per “oltre un miliardo di euro” ed “oltre tre miliardi di euro per l’ammodernamento e la costruzione di nuovi impianti” e pertanto non vi era stato il “contestato depauperamento generale della struttura”. Per tirare avanti sotto i colpi di mortaio della magistratura e delle autorità pugliesi (le stesse che hanno promosso il referendum sulle trivelle, fatto una guerra implacabile alla Tap, consentito alla xilella di divorare centinaia di migliaia di ettari di ulivo) lo Stato ha erogato – anche a titolo di ammortizzatori sociali – ingenti risorse. Fino al punto di garantire, adesso, una prospettiva a 20 mila famiglie, ricevendo in cambio uno stabilimento moribondo. A chi dobbiamo tutto questo?

*ADAPT è una associazione senza fini di lucro, fondata da Marco Biagi nel 2000 per promuovere, in una ottica internazionale e comparata, studi e ricerche nell’ambito delle relazioni industriali e di lavoro. Il suo obiettivo è promuovere un modo nuovo di “fare Università”, costruendo stabili relazioni e avviando interscambi tra sedi della alta formazione, mondo associativo, istituzioni e imprese.

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