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La storia

Il sequestro dell’Ilva 11 anni dopo

Il 26 luglio 2012 scattarono i sigilli all’area a caldo del siderurgico targato Riva

Una veduta del siderurgico

Una veduta del siderurgico

Undici lunghi anni sono trascorsi da quel 26 luglio 2012 quando fu eseguito il sequestro dell’area a caldo dell’Ilva targata Riva. Una data che ha segnato e segnerà per sempre la storia di Taranto perché è uno spartiacque fra un prima e un dopo, non solo per il Siderurgico ma per l’intera città, per la sua economia, per il rapporto con la fabbrica, per i lavoratori, per le imprese dell’appalto e per tutte le realtà che ruotavano intorno allo stabilimento. 

Il caldo e l’afa erano meno opprimenti di quelli di questi giorni ma l’atmosfera era bollente. Insieme ai sigilli scattano i primi arresti eccellenti, compreso quello dell’ultraottantenne Emilio Riva. Il capostipite della famiglia e fondatore del gruppo viene sottoposto ai domiciliari insieme ad alcuni dirigenti. E’ la prima puntata dell’inchiesta della Procura di Taranto alla quale ne seguiranno altre sempre con altri arresti. Nel giro di poco più di un anno la vicenda Ilva va avanti a puntate, con uno schema simile a quello del caso di Avetrana. Le misure cautelari scattano per Emilio e Fabio Riva, per l’addetto alle relazioni esterne Girolamo Archinà, per il direttore dello stabilimento Luigi Capogrosso e successivamente, a maggio 2013, per il presidente della Provincia dell’epoca Gianni Florido e l’assessore all’Ambiente Michele Conserva per vicende secondo gli inquirenti collegate all’Ilva. Infine anche per alcuni consulenti di fiducia del gruppo industriale, i cosiddetti dirigenti ombra che poi erano noti a tutti in fabbrica. L’inchiesta si chiude con una raffica di avvisi di garanzia distribuiti a piene mani soprattutto ad esponenti del mondo politico fra i quali il presidente della Regione Puglia Nichi Vendola, alcuni assessori, il sindaco Ezio Stefàno, il direttore dell’Arpa Puglia professor Giorgio Assennato, tutti gettati nel calderone.

A destare le maggiori preoccupazioni sin dall’inizio è il sequestro dell’area a caldo, malgrado la facoltà d’uso concessa dal Tribunale del Riesame su ricorso dei legali dell’azienda. Preoccupa il futuro dei lavoratori. Sono loro i primi a manifestare. Alcune ore dopo il sequestro invadono le strade di Taranto come un fiume in piena partito dai cancelli dello stabilimento e formato dai lavoratori che terminavano il turno e da quelli che si accingevano a iniziarlo. Per giorni bloccano anche le principali vie di ingresso al centro urbano, lasciando passare solo ambulanze, mezzi di soccorso, auto con a bordo donne incinta e anziani. La tensione è alta e il 2 agosto durante il comizio in piazza della Vittoria dei principali leader nazionali dei sindacati, malgrado l’imponente spiegamento di forze dell’ordine, alcuni manifestanti fanno un blitz a bordo di un tre ruote. Alcuni staccano i fili dell’impianto di amplificazione mentre altri salgono sul palco interrompendo gli interventi. Maurizio Landini e gli altri leader sindacali sono costretti ad allontanarsi sotto scorta. 

Anche tanti tarantini scendono in piazza per manifestare in quei mesi ma non per il futuro dei lavoratori. Chiedono la chiusura della fabbrica. Il gigante dai piedi di argilla, l’Italsider è stato il volano dello sviluppo e della crescita economica di Taranto, dagli anni ’60, al raddoppio, al ridimensionamento della produzione imposto da Bruxelles negli anni ’90, è diventato il mostro che inquina e semina morte e malattie. Fino al 2008 a Taranto non era stato ancora istituzionalizzato il registro tumori. Sull’incidenza delle neoplasie indagava a partire dal 2003 l’Università di Bari con un gruppo di ricerca guidato dal professor Assennato. A lui, specializzato in medicina e malattie del lavoro, Vendola affida l’Arpa e per la prima volta, nel 2005, parte il sistema di monitoraggio ambientale sulle emissioni dei camini. Diventerà presto il nemico dell’Ilva per il suo ruolo ma finirà nello stesso processo.

In aula la vicenda Ilva approda nel 2014. L’udienza preliminare sfocia in una sentenza di assoluzione – diventata definitiva - per alcuni indagati che scelgono l’abbreviato e nel rinvio a giudizio contro 47 imputati – 44 persone fisiche e tre società – 16 dei quali accusati di disastro ambientale doloso, oltre a violazioni di norme ambientali, omissione di misure a tutela della salute dei lavoratori e dei cittadini e reati contro la pubblica amministrazione.

Dopo cinque anni di dibattimento e fino a tre udienze a settimana – oltre 300 complessivamente – il 31 maggio 2021 per il processo “Ambiente svenduto” arriva la sentenza di primo grado con una serie di condanne e la conferma del sequestro, ossia la confisca degli impianti. La Corte d’assise di Taranto accoglie in blocco delle richieste della pubblica accusa. Le corpose motivazioni – 3800 pagine circa suddivise in 14 capitoli - arrivano a novembre 2022, un anno e mezzo dopo la lettura del dispositivo. Descrivono l’Ilva gestione Riva come un’azienda con una gestione dalla legalità “solamente apparente” ma in realtà “contraria alla legge”, che aggirava le norme sulla tutela dell’ambiente e della salute “omettendo di adeguare lo stabilimento ai sistemi minimi di ambientalizzazione e sicurezza” e causando danni “all’integrità fisica e alla vita che in alcuni casi si sono concretizzati: dagli omicidi colposi alla mortalità interna ed esterna per tumori, alla presenza di diossina nel latte materno”. Una gestione che, secondo la Corte d’Assise di Taranto, ha messo “in pericolo la vita e l’integrità fisica dei lavoratori dello stesso stabilimento, la vita e l’integrità fisica degli abitanti del quartiere Tamburi e dei cittadini di Taranto”.

I giudici di primo grado indicano come principali responsabili Fabio Riva, Nicola Riva, Emilio quando era in vita insieme a Capogrosso e a fiduciari Lanfranco Legnani e Alfredo Ceriani, alcuni dei componenti del cosiddetto management ombra della fabbrica, i quali avrebbero avuto “un ruolo centrale e promozionale di tutta l’attività criminosa”. Insieme a loro viene condannato anche l’addetto alle relazioni esterne Girolamo Archinà. Unico assolto è l’ex prefetto Bruno Ferrante, presidente del cda Ilva per alcune settimane prima dell’affidamento degli impianti al pool di custodi giudiziari. Per numerosi capi d’imputazione, alcuni dei quali datati 2009, scatta la prescrizione.

Adesso il processo è in attesa di approdare in Corte d’assise d’appello dopo la raffica di ricorsi dei legali degli imputati e anche di coloro che pur non essendo stati condannati per il reato sono stati condannati al pagamento di spese legali e provvisionali.

La Corte d’appello non ha ancora fissato l’udienza e considerando la pausa estiva la data è attesa fra settembre e ottobre. Non è escluso che il pm Mariano Buccoliero segua il processo anche in secondo grado in considerazione della particolare complessità e poderosità della vicenda processuale.

A distanza di 11 anni una verità giudiziaria definitiva ancora non c’è - considerando che l’unica sentenza è quella di primo grado- e difficilmente arriverà in tempi brevi. Dopo l’appello ci sarà anche la Cassazione e con circa cinquanta imputati un processo elefantiaco non viaggia certo velocemente malgrado la cadenza delle udienze.

Sono usciti definitivamente di scena alcuni dei principali protagonisti degli accusatori e degli accusati. Prima dell’inizio dell’udienza preliminare mori il capostipite della famiglia Riva, Emilio, il 30 aprile 2014. Più recentemente, il 10 gennaio di quest’anno, è deceduto  l’ex procuratore della Repubblica Franco Sebastio. Era in pensione dal 2016, l’anno successivo è stato candidato sindaco  e poi assessore per un breve periodo. Con vertici Ilva ed esponenti istituzionali anche un modello di sviluppo è stato processato nelle aule giudiziarie. A distanza di 11 anni dal sequestro resta soprattutto una rivoluzione mancata e una fabbrica ancora aperta grazie alla sequela di decreti cosiddetti salva Ilva e all’ingresso dello Stato a fianco di Arcelor Mittal. Di nuovo c’è solo la denominazione Acciaierie d’Italia. La decarbonizzazione fa parte solo del dibattito politico ma in concreto non è stata attuata e tantomeno l’ambientalizzazione della fabbrica. Migliaia di operai sono in cassa integrazione, sul futuro non ci sono certezze e spesso i sindacati metalmeccanici chiedono garanzie.

L’attuale governo dopo il decreto “salva infrazioni Ue” mira a reintrodurre lo scudo penale eliminato nel 2019 e a centralizzare a Roma tutte le decisioni relative all’ex Ilva. Un’operazione di salvataggio messa in atto dal ministro Raffale Fitto nel tentativo di consentire all’Ilva di continuare a produrre anche in caso di confisca definitiva. Nel 2004 come presidente della Regione Puglia Fitto mise in atto un’altra exit strategy, l’accordo di programma che doveva portare alla copertura dei parchi minerari ma rimase lettera morta. I parchi sono stati coperti negli ultimi anni con i soldi sequestrati ai Riva.

A distanza di 20 anni qualcuno dei protagonisti della scena politica non c’è più, è scomparso alcuni mesi prima della deflagrazione dell’inchiesta. Resta sulla scena il ministro Fitto, anche questa volta con un ruolo chiave. La storia del Siderurgico però è cambiata e anche Taranto. La città e i lavoratori sperano che venga scritto un capitolo nuovo, dove ci sia spazio per i diritti alla salute, all’ambiente, all’aria pulita.

Annalisa Latartara

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