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Il convegno
27 Maggio 2023 - 06:45
lo stabilimento Acciaierie d'Italia
L’unica prospettiva da scongiurare è quella della chiusura. Almeno questo è parso chiaro come segnale nella due giorni che il consigliere comunale Gianni Liviano e l’associazione “La città che vogliamo” hanno dedicato a storia, presente e futuro dello stabilimento siderurgico di Taranto. Un convegno dal titolo emblematico, “Odissea di uno stabilimento”, nel quale finalmente la concretezza e la qualità degli spunti hanno tenuto lontani slogan e demagogia che da almeno dieci anni a Taranto vengono sparsi a piene mani, più per ansia di consenso che per effettiva volontà/capacità di individuare soluzioni realistiche intorno alla più grande vertenza industriale della Repubblica.
Pur nella differenza di approccio dei numerosi interventi che si sono succeduti e pur nelle divergenze sulle strade cosiddette “green” da seguire, ognuno dei relatori ha provato a disegnare percorsi fattibili e futuribili, senza mai cedere alla tentazione di soluzioni tanto semplicistiche quanto impraticabili.
Dialogare col territorio
«Acciaierie d’Italia - ha subito messo in chiaro Antonio Gozzi, presidente di Federacciai, intervenuto in collegamento da remoto - è uno degli asset più importanti del Paese e consente alla nostra filiera manifatturiera di essere tra le prime in Europa. La caduta della produzione, in questi anni, ha comportato un aumento delle importazioni, ma in questo modo si creano delle dipendenze strategiche, anche perché le altre acciaierie, come Arvedi, non sono sufficienti a soddisfare la domanda interna».
Gozzi ha comunque sottolineato come sia cambiato il clima a Taranto rispetto alla vertenza ex Ilva: «Nel 2012 ci sono stati errori ed estremizzazioni politiche e giudiziarie. Oggi vedo una situazione fondamentalmente migliorata. Lo stabilimento è il più ambientalizzato al mondo e anche in città, che pratico spesso, si nota un cambiamento positivo e questo direi soprattutto grazie all’opera intelligente del presidente Bernabè e del ministro Urso che si sono spesi per il dialogo sul territorio».
Sappiamo bene, però, che uscire dal tunnel non è facile. «Ci sono incognite e incertezze - ha ammesso il presidente di Federacciai, che riguardano soprattutto il piano industriale. Oggi nelle siderurgie europee si afferma un modello ibrido: forni elettrici e altoforni decarbonizzati per produrre acciaio dolce a più alto valore aggiunto. A Taranto va rilanciato l’Afo 5 accanto all’introduzione dei forni elettrici. Poi c’è bisogno di investire sugli impianti, dove registriamo una carenza di investimenti da più di dieci anni».
Ma alla base c’è da sciogliere il nodo degli assetti proprietari. «Va fatta chiarezza - ha detto Gozzi - perché avvertiamo segni di disimpegno del socio privato. Se non è più disponibile bisogna cambiare. In ogni caso tutto il processo di cambiamento va accompagnato da un continuo confronto con il territorio».
No a una nuova Bagnoli
Chi ha sgomberato il campo dal ritornello delle bonifiche come alternativa occupazionale è statao Marco Bentivogli, già segretario della Fim Cisl: «Quando uno stabilimento chiude, la prospettiva delle boniche è impraticabile. Abbiamo l’esempio di Bagnoli: con le bonifiche abbiamo registrato desertificaizone e infiltrazione della camorra. Non possiamo commettere gli stessi errori. Piuttosto bisogna saper responsabilizzare il privato ad un capitalismo moderno, con l’assunzione di responsabilità sociale e ambientale».
E a proposito di ambiente, Bentivogli ha chiarito che i forni elettrici, presi in sé, non sono oro colato: «Non è vero che non hanno impatto perché bisogna verificare le fonti da cui proviene l’energia elettrica. Se proviene da fonti fossili, allora è da rivedere tutta la catena». E anche gli altri modelli che spesso gli ambientalisti hanno portato ad esempio in questi anni non sembrano applicabili a Taranto: «La Ruhr in Germania aveva accanto l’area più ricca d’Europa; qui è completamente diverso». Piuttosto Bentivogli guarda al modello di Linz, in Austria: «Oggi produce 6 milioni di tonnellate e non lontano dallo stabilimento si coltivano produzioni biologiche. Utilizzando le migliori tecnologie e sviluppando un rapporto sano col territorio queste cose si possono fare».
Eppure l’ex sindacalista non ha nascosto qualche punta di scetticismo: «Non mi pare che l’Italia abbia grandi manager pubblici per gestire uno stabilimento come quello di Taranto. Arcelor Mittal di fatto non c’è più da tempo ed è stata una occasione sprecata. Va cambiato anche l’approccio delle istituzioni: il sindaco che ha firmato l’ordinanza sul benzene deve innanzitutto chiedere all’Arpa il nesso di causalità tra siderurgico e queste emissioni. La verità è che l’ex Ilva in questi anni ha fatto da paravento anche per altre situazioni». In ogni caso è la prospettiva della chiusura che va scongiurata. «Chiudere - ha concluso Bentivogli - significa anni e anni di cassa integrazione: sarebbe il default sociale per la città».
Lo Stato deve risarcire
Chi deve pagare i costi della transizione? Domenico Laforgia, già rettore dell’Università del Salento e attuale presidente dell’Acquedotto Pugliese, non ha dubbi: «Lo Stato deve risarcire Taranto. Qui il vero problema è stato l’Italsider, la gestione pubblica, che lasciò un passivo da millecinquecento miliardi di lire. Riva in un anno portò il bilancio in attivo di 900 milioni. Oggi la credibilità internazionale dell’Italia è vicina allo zero».
Laforgia ha ricordato i tanti episodi controversi, su tutti la triste immagine dei coils fermi al porto per ordine della magistratura perché considerati corpi del reato. «Fu impedito - ha detto Laforgia - di consegnarli ai clienti», con tutte le conseguenze del caso in termini di mercato.
Luoghi comuni spazzati via anche a proposito dell’idrogeno: «Il carbon free si può realizzare solo con l’idrogeno da fonti rinnovabili. Ma occorrerebbe moltiplicare per quattro gli impianti delle rinnovabili presenti oggi in Puglia e questo solo per alimentare l’ex Ilva. In ogni caso l’idrogeno non è ancora tecnologia matura. Lo si sta sperimentando solo su impianti di dimensioni minuscole e i costi attualmente sono fuori mercato. In Svezia ritengono che la produzione carbon free possa essere realizzata nel 2045». E intanto? Laforgia sposa la strada del preridotto che avrebbe costi abbordabili, «ma è lo Stato che deve investire su Taranto».
Il costo della transizione
Lidia Greco, docente dell’Università di Bari, si è soffernata sulla transizione giusta. Con una crudezza estrema, senza infingimenti: «La decarbonizzazione comporta la perdita di migliaia di posti di lavoro e questo processo va accompagnato adeguatamente dalle istituzioni. Le decisioni partecipate sono elemento fondamentale della transizione giusta». Insomma, nessuno può essere abbandonato a se stesso in questa delicata e complessa fase della storia.
Un richiamo alla politica lo ha fatto Gianni Liviano, a conclusione del convegno: «Oggi si inseguono i like con scenari emotivi. Servono invece serietà e competenza».
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