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Xi Jinping e la Belt and Road Initiative
13 Maggio 2023 - 09:47
Xi Jinping e la Belt and Road Initiative
Sotto al cappello della Belt and Road Initiative la Cina è diventata un grande creditore del mondo.
Secondo la Banca Mondiale, la Cina detiene oltre 110 miliardi di euro di crediti, ancora da ricevere, dei Paesi in via di sviluppo: più del doppio di quanto debbano a tutti i Paesi occidentali messi insieme. In media, questi Paesi devono destinare il 17% delle entrate statali al pagamento del debito, anziché a servizi ai cittadini o a investimenti produttivi. Una situazione che li spinge a cercare di rinegoziare i propri debiti. E per farlo devono sempre più spesso rivolgersi a Pechino, anziché ai creditori occidentali. Negli ultimi dieci anni quasi il 70% dei rinegoziati di debito ha coinvolto una controparte cinese che è riluttante a rinegoziare il debito con i Paesi che lo richiedano, trascina i negoziati per tempi più lunghi e spesso concede dilazioni nei pagamenti più che vere e proprie cancellazioni. Condizioni nettamente peggiori di quelle concesse da molti Paesi occidentali nell’ultimo mezzo secolo.
Le conseguenze politiche di queste dinamiche sono chiare: la Cina non può più proporsi come modello alternativo e insieme virtuoso, ma è progressivamente accomunata ai creditori occidentali “classici”. Nei prossimi anni, poi, è probabile che i nuovi investimenti pubblici cinesi verso il mondo siano persino inferiori rispetto alle entrate da debito e interessi. Insomma, sui flussi finanziari, i cinesi stanno rapidamente passando da “going out” a “coming back home”.
Gli eventi degli ultimi mesi hanno acuito le difficoltà delle economie più fragili, che si trovano di fronte a maggiori spese ma a costi sempre più elevati in caso di emissione di nuovo debito o rifinanziamento di quello in scadenza.
Così il mondo dei rinegoziati del debito, che prima era dominato dai 22 Paesi del club di Parigi, adesso è sempre più un “affare cinese”. Il che genera non pochi problemi. Il primo in ordine di importanza: anziché cancellare i debiti, la Cina preferisce estenderne i termini di ripagamento. Spalmando il debito su più anni, e dunque di fatto perdendoci comunque rispetto al valore iniziale dell’investimento. Ma, ancora molto spesso, senza alleviare in maniera sostanziale il peso del debito che i Paesi debitori si trovano a dover pagare.
Questo problema ne genera un secondo: quando Pechino non accetta un taglio del debito pregresso, il Fondo monetario internazionale non accetta di salvare Paesi in difficoltà. Il che prolunga le crisi di debito ben oltre i tempi che in passato la comunità internazionale avrebbe impiegato per raggiungere un accordo. La pressione si accumula. E, in alcuni casi, sfocia in vere e proprie crisi.
Per quanto tempo Pechino potrà sostenere la sua politica sui rinegoziati? Il limbo in cui precipitano i Paesi risulta dannoso non solo per le finanze cinesi, su cui grava il peso di prestiti non sempre redditizi, ma anche e sempre più per i Paesi debitori a basso reddito.
In questi anni si è molto parlato di quanto i Paesi emergenti e in via di sviluppo abbiano progressivamente voltato le spalle all’Occidente, cercando fonti di legittimazione politica e modelli di sviluppo alternativi, ma anche nuove linee di credito e capitali meno “condizionati” dai "lacci e lacciuoli occidentali", come la protezione dello stato di diritto e della democrazia, o più direttamente delle prospettive di rendimento degli investimenti effettuati. Si è anche molto discusso di quanto molti Paesi guardassero con sempre maggior interesse alla Cina, come modello di sviluppo o come principale investitore internazionale.
Le cose stiano rapidamente cambiando, e la Cina è sempre più percepita come un creditore come gli altri; anzi, un creditore persino più ostinato dei partner occidentali, perché ostacola la ristrutturazione del debito dei Paesi in crisi, malgrado i finanziamenti cinesi tendano a essere opachi. Recenti ricerche mostrano come i prestiti provenienti dalla Cina tendano a essere concessi con tassi d’interesse medi del 5%, ovvero più che doppi rispetto al 2% medio del Fondo monetario internazionale. Non esattamente un regalo per Paesi già in difficoltà economiche.
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