Tra le pieghe dei nuovi modelli istituzionali ed economici, applicati alla gestione degli enti locali e degli enti pubblici in genere, non c’è soltanto la finanza creativa, c’è anche quello che potremmo definire “assistenzialismo creativo” o, per meglio dire, speculativo e politicizzato, legato alla costituzione di entità giuridiche di facile gestione e di altrettanto facile controllo. Ciò a cui ci si riferisce è un tipo di intervento nel quale le assunzioni, non meno che le forniture di beni e servizi, possono avvenire con l’utilizzo di strumenti di natura privatistica, che per la loro configurazione giuridica si prestano meglio a condizionamenti di vario genere, anche per ciò che riguarda la conduzione degli affari correnti. Insomma, oltre al tradizionale assistenzialismo, del largo uso del quale vengono tacciate soprattutto le realtà meridionali, vale a dire quell’assistenzialismo fatto di invalidità facili, di pensioni immeritate, di sussidi e di non dovuti redditi di cittadinanza, esistono forme diverse di supporto improduttivo meno palesi, ma altrettanto “efficaci”. Si tratta di misure o di strumenti che talvolta, molto interessatamente, sfuggono all’attenzione dei più, anche perché la loro diffusione non attrae né incuriosisce certa stampa filosettentrionale, sempre pronta ad accorgersi della pagliuzza nell’occhio altrui, piuttosto che del palo conficcato nell’occhio proprio. Simili forme di neoassistenzialismo non nascondono chissà quali illegalità, non è questo il tema, in quanto il tutto si sviluppa attraverso la costituzione, perfettamente regolare, ma non sempre necessaria, né economicamente vantaggiosa, di società partecipate da enti pubblici, alle quali si applicano le “più comode” disposizioni previste per i soggetti privati. Sull’argomento in questione sono piuttosto chiari i riscontri che emergono dal “Rapporto sulle partecipazioni delle Amministrazioni Pubbliche”, fondati su dati del 2018/19, elaborato dal Ministero dell’Economia e delle Finanze. Secondo l’importante dossier, oggi in fase di ulteriore verifica e aggiornamento, le società a partecipazione pubblica presenti nel nostro Paese sarebbero 5.768, molte delle quali, però, a conferma della loro “dubbia utilità”, sono già state sciolte o sono in fase di scioglimento. L’analisi ministeriale mostra come il 42% degli organismi in questioni che, a conferma dell’ assunto, si trovano in una situazione finanziaria di perdita, risulti essere a totale partecipazione pubblica, un elemento che evidenzia non solo il fatto che tali società, istituti o fondazioni non siano necessari, ma che anzi siano persino controproducenti, ai fini delle eventuali economie che avrebbero dovuto velleitariamente determinare. Passando alla distribuzione territoriale, le società partecipate sono così ripartite: Valle D’Aosta 60, Piemonte 480, Lombardia 962, Liguria 205 (totale Nord-Ovest 1.707), Trentino Alto Adige 436, Veneto 519, Friuli Venezia Giulia 161, Emilia Romagna 557 (totale Nord-Est 1673), Toscana 548, Umbria 155, Marche 244, Lazio 245 (totale Centro 1.192), Abruzzo 191, Molise 42, Campania 273, Puglia 186, Basilicata 35, Calabria 108 (totale Sud 835) Sicilia 219, Sardegna 143 (totale Isole 362). Si tratta di cifre che devono fare molto riflettere, anche alla luce del fatto che il totale del valore delle produzioni delle varie partecipate è stato di 80.807.748.947 euro, i costi di produzione sono stati 75.866.439.522 euro, il costo del personale è stato di 14.849.087.813, l’utile netto è stato di 5.315,898.766, mentre le perdite sono state 1.525.230.687. Un altro dato importante, che conferma una certa sperequazione di natura territoriale e gestionale tra società partecipate presenti al Nord e società partecipate presenti in altre parti d’Italia, è quello che riguarda la quantità di addetti ed il loro relativo costo medio. In Valle D’Aosta il numero di dipendenti degli organismi in questione è pari a 3.179 unità, con un costo medio di 54.925 euro a persona, in Piemonte gli addetti sono 18.705, con un costo medio di 51.144 euro, in Lombardia gli addetti sono 59.924, con un costo medio di 50.305 euro, in Liguria gli addetti sono 11.166, mentre il costo è di 47.597 euro, in Trentino Alto Adige gli addetti sono 13.373, per un costo medio che sale a 56.519 euro, il più alto in assoluto. In Veneto gli addetti sono 29.296, per un costo medio di 45.239 euro, in Friuli Venezia Giulia gli addetti sono 9.565, per un costo medio di 41.062 euro ad unità, in Emilia Romagna gli addetti sono 30.342, con un costo medio di 50.306, in Toscana gli addetti sono 28.816, con un costo medio di 38.786, in Umbria gli addetti sono 4,762, con un costo medio di 41.068 euro, nelle Marche gli addetti sono 6.919, con un costo medio di 41.441 euro, nel Lazio gli addetti sono 44.229, con un costo medio di 44.061, in Abruzzo gli addetti sono 4.930, con un costo medio di 44.187. In Molise il numero di addetti è di 643 unità, per un costo medio di 22.695 euro, il più basso in assoluto, in Campania gli addetti sono 16.805, con un costo medio di 43.594 euro, in Basilicata gli addetti sono 668, con un costo medio di 46.708 euro, in Calabria gli addetti sono 4.391, con un costo medio di 35.111 euro, in Sicilia gli addetti sono 25.512, con un costo medio di 32.756 euro, in Sardegna gli addetti sono 8.924, con un costo medio di 40.778 euro. Com’è facile notale dai dati enunciati, la media del costo per addetto al Nord è di poco inferiore ai 50 mila euro, mentre al Sud si scende al di sotto dei 40 mila: anche questo rappresenta un dato sul quale riflettere, dato che appare di tutta evidenza l’effetto di simili forme di sperequazione, talvolta riconducibili a misure di tendenziale assistenzialismo politicamente gestito. Un assistenzialismo di nuovo modello i cui risultati si manifestano pure in sede elettorale, cioè nel momento in cui i cittadini scelgono da chi essere amministrati, essendo palesemente influenzati delle utilità, dirette o indirette, che ne derivano per ciascuno di loro. Oltre all’analisi dei costi ed alla ripartizione territoriale degli enti partecipati, può essere interessante comprendere quali siano i settori nei quali questi ultimi esercitano in prevalenza le loro funzioni. Ebbene, 773 si occupano di gestione di acqua, fognature e rifiuti, 574 si occupano di energia elettrica, gas e vapore, 582 si occupano di trasporto e stoccaggio, 220 di assistenza sociale. Secondo i dati contenuti nella ricerca affettata dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, sotto il profilo qualitativo, oltre quattro quinti delle perdite delle società partecipate sono concentrati tra gli organismi presenti al Nord ed in particolare tra quelli della Lombardia, la regione in cui si registra oltre il 50% delle perdite complessive computate nel 2016. Il fenomeno, però, si mostra, fortunatamente, in rapida attenuazione, anche per effetto delle migliori performance registrate dalle società del Piemonte, del Veneto, dell’Emilia Romagna e del Friuli Venezia Giulia. Un elemento particolarmente interessante, che conferma il ruolo neo-assistenzialistico di molte società partecipate è, infine, quello che riguarda il numero di addetti ed il numero di amministratori. Sono moltissime, infatti, quelle che presentano più amministratori che lavoratori: sembra incredibile ma in Italia accade anche questo, nonostante la spending review! Anche questa circostanza dimostra come, in molti casi, simili strumenti di gestione non siano affatto da considerare funzionali ad una sana e saggia gestione della cosa pubblica, ma solo a modelli politici che, attraverso simili enti, producono il controllo delle posizioni di sottogoverno, delle forniture e del personale. Insomma, l’assistenzialismo e la clientela politica del terzo millennio non passano soltanto attraverso invalidità, sussidi o pensioni facili, come si potrebbe pensare o come si vorrebbe lasciar pensare, ma anche attraverso società partecipate non sempre necessarie, né economicamente vantaggiose.
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