La lettura di un romanzo storico e giallo letterario di Gabriele Dadati: “Nella pietra e nel sangue” ha suscitato in me un certo interesse e il desiderio di comprendere quell’insieme di fantasia e storia e quale possa essere la “verità sconvolgente” della sua ricerca scoperta dopo ben otto secoli. Il protagonista è Pier delle Vigne di cui ci ha parlato il grande poeta Dante Alighieri nel XIII canto dell’Inferno e sul quale io soprattutto mi soffermerò. Inoltre terrò presente anche la vita di due giovani, Dario e Lucia, che vivono la loro storia d’amore in cui il passato e il presente si intrecciano riuscendo ad andare avanti, uniti dal loro profondo sentimento, sullo sfondo di una cronaca che non è solo la loro personale, ma anche quella di Pier delle Vigne o Pietro delle Vigne, tragica, quest’ultima, al punto da incutere un certo senso di orrore che, anche nei lettori, desta un immane dolore. Mi rifaccio subito al canto XIII dell’Inferno che si apre con tre antitesi, con una anafora che si ripete nei primi versi e con una struttura sintattica ed un ritmo sempre uguale che preannuncia la strana originalità del luogo, di questa selva che accoglie i suicidi. Lo stile è aspro, artificioso, molto elaborato e ci conduce in una atmosfera da incubo, da tragedia. Probabilmente Dante si sarà ispirato ad un’opera di Seneca: “Hercules furens” per la descrizione di questo tetro luogo. Il protagonista, come ho accennato, è Pier delle Vigne e, secondo il De Sanctis, questo XIII canto non è il canto dei suicidi, ma soprattutto di Pier delle Vigne. Tutto, dal significato della pena, alla rappresentazione che il poeta dà e la sua partecipazione sentimentale da cui ha origine l’alta tragicità del passo, si concentra in quella parte, in quei versi che ha come unico protagonista Pier delle Vigne, il segretario e logoteta di Federico II. La storia di questo canto, la ricchezza di motivi, di elementi culturali sono stati fondamentali per gli interpreti dell’età romantica, dal De Sanctis allo Spitzer. Il De Sanctis si sofferma sulla descrizione della selva orribile che ospita questi peccatori suicidi e l’orrore che Dante trova lascia il passo ad una intensa commozione per l’amaro destino dell’anima di Pier delle Vigne, sottoposta ingiustamente ad un’atroce pena e che parla da dentro ad un pruno. Sì, perché le anime dei suicidi e quindi del nostro protagonista sono trasformate in piante, in alberi sui quali nidificano le Arpie che emettono i loro lugubri lamenti. “Non Fronda verde ma di color fosco; non rami schietti, ma nodosi e ‘nvolti; non pomi v’eran, ma stecchi con tosco”. Per comprendere meglio l’intensità di questi versi, basta pensare a quelli che inquadrano la selva del I canto dell’Inferno. Il tono è euforico e Dante usa un metodo descrittivo, quasi da cronista, mentre in questa seconda descrizione, l’immagine è potente e il paesaggio è l’antitesi di ciò che una natura arborea può offrirci di bello e sereno. È una natura sconvolgente che richiama quella della Maremma toscana e che serve a dare maggiore drammaticità a questo quadro orribile. Dante si serve di Virgilio e dell’Eneide per creare un grande clima tragico, un’atmosfera in cui giganteggia l’umano dolore di Pier delle Vigne. Il nostro poeta pensa anche all’episodio Virgiliano di Polidoro ma è ben lontano da quello; e l ramo lacerato, che parla e gocciola nero sangue lo intimorisce, lo terrorizza fin dal suo ingresso nella selva: “Io sentia da ogni parte trarre guai, e non vedea persona che ‘l facesse; per ch’io tutto smarrito m’arrestai. Cred’io ch’ei credette ch’io credesse, che tante voci uscisser tra que’ bronchi da gente che per noi si nascondesse. “Allor porsi la mano un poco avante, e colsi un ramicello da un gran pruno: e ‘l tronco suo gridò: “perché mi schiante?”Da che fatto fu poi di sangue bruno, ricominciò a dir: Perché mi scerpri? non hai tu spirto di pietà alcuno? Uomini fummo, e or siam fatti sterpi…”. Terrorizzato Dante lascia cadere la cima e dinanzi alla scheggia rotta che grondava sangue, insieme alle parole, stette lì come l’uomo che è assalito dalla paura, dall’angoscia. “Ond’io lasciai la cima cadere, e stetti come l’uom che teme.” E questa frase che il poeta ha espresso in una maniera molto realistica è di stampo medievale. Le parole che rappresentano una scena molto aderente al verosimile danno l’idea della pena fisica e anche morale vissuta da quei peccatori trasformati in piante. La poesia di Dante ci rappresenta un dramma nella sua attualità e proprio da quella della drammaticità deriva quella compenetrazione forte tra l’ambiente e i personaggi e i mutamenti di tono. E tanto l’episodio di Polidoro come la duplice domande di Pier delle Vigne: “perché mi schiante?... Perché mi scerpi?” Sono altamente drammatici e non si tratta di più o meno poeticità. Virgilio parla per Dante che, terrorizzato, è muto; egli passa dal terrore al sentimento di pietà. Non pensa più a quel luogo spettrale, ma a quel soffio forte che genera la voce e fa fuoriuscire il nero sangue. Solo l’angoscia di Pier delle Vigne, che ricorda la sua terribile vicenda umana, lo scuote e spera di aver consolazione solo da Dante, quando questi, ritornato tra i vivi, potrà dissipare quelle infamia, di cui i cortigiani, invidiosi del suo potere, si sono macchiati. E Pier delle Vigne, maestro dell’ “ars dictandi” si servirà di un linguaggio fiorito, artificioso nelle immagini con frequenti ripetizioni ed antitesi. Come nei seguenti versi: “Io son colui che tenni ambo le chiavi del cor di Federico, e che le volsi serrando disserrando, si soavi, che dal secreto suo quasi ogn ‘uom tolsi” Il linguaggio è differente quando il nostro protagonista giura di essere stato sempre fedele al suo Signore o quando chiede a Dante di ricordarlo ai vivi come un uomo sempre fedele che non ha mai tradito e così il personaggio si allontana dalla cronaca per divenire un personaggio tragico attraverso il riconoscimento della dignità del suo signore. Tre sono dunque i protagonisti di questa tragedia: la vittima, Pier delle Vigne, l’imperatore Federico II e l’invidia, la “meretrice”, come la chiama Dante, quasi personificata. Dante illustra i fatti servendosi della parola, distruggendo l’aneddotica per creare solo poesia. C’è un grande sentimento di pietà in questa storia brutta umana e quell’attimo di oblio che ha portato i suicidi a peccare contro la legge di Dio, comporta una esasperazione della pena nel senso che essi sono consapevoli di quella infelicità, ancora più grande, che toccherà loro dopo il Giudizio Universale. Quando Pier delle Vigne tace, tace anche l’alta poesia tragica che scaturisce dalla considerazione di quell’uomo giusto, felice un tempo e poi, improvvisamente, caduto in disgrazia, colpito dall’infamia, dalla calunnia e, accusato di infedeltà e tradimento verso il suo signore Federico II, decide di togliersi la vita. Dante segue la concezione aristotelica della “poesia tragica”. Per il grande filosofo di Stagira, il “Canto tragico” doveva essere un canto terminale di purificazione con la ”Nemesi” che era la giustizia divina pagana e la” Catarsi”. L’Inferno di Dante vive della sentenza aristotelica, ma quella” Nemesi “diventa cristiana. “Giustizia mosse il mio alto fattore; fecemi la divina potestate la somma sapienza, e ‘l primo amore”. L’alto fattore, che è Dio, il dio cristiano. Siamo nel secondo girone del settimo cerchio, dove sono i suicidi che neanche dopo il Giudizio Universale potranno riprendersi il proprio corpo, contro il quale avevano infierito in vita e per questo peccato essi rimarranno sospesi all’ombra di quel pruno per sempre. La loro anima, laddove cade, germoglia sino a divenire una cespuglio spinoso. I suicidi che hanno separato l’anima dal corpo, contravvenendo alla volontà di Dio che aveva voluto il corpo e l’anima uniti nell’interezza della persona, saranno condannati ad essere privati del corpo e a rivestire una natura inferiore, cioè ad assumere una natura vegetale. La loro anima non risiede nel pruno, ma è il pruno stesso che parla e si duole e si lamenta quando i suoi rami vengono strappati dalle Arpie e dallo stesso Dante che, su invito di rorizza Virgilio, ferisce quelle fronde, come ho già detto. Lo spettacolo è veramente drammatico, anzi disumano. Si tratta di un corpo arboreo che non ha nessun legame col precedente. Un esempio è la metamorfosi di Dafne in alloro, voluta dal dio Apollo, per il suo rifiuto. L’uomo pianta di Dante è un derivato di Virgilio e di Ovidio, dal primo prende il concetto della trasformazione della persona in pianta, come succede in Polidoro; da Ovidio, invece, l’uomo pianta, quando subisce la sezione di un ramo, emette una voce che, dolorosamente, si lamenta. Il nostro Pier delle Vigne è, anche lui, un vegetale, un arbusto spinoso dal quale gronda un nero sangue, ma con una coscienza tutta umana. “Uomini fummo e or siam fatti sterpi”. Egli seguì gli studi giuridici a Bologna, nel 1220 divenne notaio e scrittore di corte presso Federico II, stimato tanto da divenire uno dei consiglieri più fidati. Fu logoteta e protonotaro di corte ed anche segretario. Ma la sua vita avrà un tragico epilogo; sarà accusato di tradimento, imprigionato dall’imperatore ed anche accecato. Morirà suicida in carcere nell’anno 1249. Fu uomo colto, Pier delle Vigne, raffinato negli studi e di fulgida intelligenza; conosceva gli studi del latino, del volgare e del diritto. Per queste sue doti, Federico II lo volle al suo fianco come collaboratore devoto e fedele. Al culmine della sua carriera, accusato e condannato per invidia fu rinchiuso nella Rocca di San Miniato per ordine dell’imperatore. Ci chiediamo: “Perché?” Le cause sono oscure ed anche molto misteriose, come è misteriosa la sua fine terrena. Qui torno al romanzo di Gabriele Dadati e faccio riferimento all’VIII capitolo dove ci parla della tragica morte di Pier delle Vigne. Secondo Dadati, le notizie circa la sua morte, sono diverse, ma non ci sono documenti che le attestano, perciò ci soffermiamo su alcune senza però esserne certi. Secondo l’ “Anonimo Latino” Pier delle Vigne, tradotto nel carcere di San Miniato e convinto della propria innocenza, ma certo di non poter sperare in una riabilitazione, decise di impiccarsi. Nelle “Chiose Cagliaritane” si narra che Pier delle Vigne, invece, abbacinato da Federico e disperato, si gettò nell’acqua da un ponte e si lasciò morire. Anche l’imolese Benvenuto Rambaldi fu di questa tesi e solo in un secondo momento aderì alla narrazione del Boccaccio. Le Chiose Palatine, invece, pur non contenendo alcun cenno ai modi concreti del suicidio, riferirono che egli, per disdegno, uccise se stesso. Altri commentatori, poco pratici della zona stabilirono che Pietro si era gettato in un torrente, detto Arnonico o Rinonico per affogarsi. Geograficamente, chi aveva fornito i dettagli del luogo era stato Jacopo Alighieri. Gli esegeti successivi attribuirono una certa autorevolezza al fatto accaduto. Negli anni Sessanta del Trecento, tre erano state le versioni del suicidio del famoso logoteta: la morte per annegamento, quella per impiccagione e quella del suicidio “ad murum”. Benvenuto Rambaldi ricordava una notizia, priva di precedenti documenti, secondo la quale Pier delle Vigne si era suicidato a Capua, dove era nato, gettandosi dal suo palazzo, al passaggio dell’imperatore. Ma il suicidio più drammatico, anzi tragico e sconvolgente è quello citato nel “De Casibus virorum illustrium” del Boccaccio. Pier delle Vigne si trovava a Pisa dopo che l’imperatore l’aveva cacciato dal carcere; era un uomo solo, senza amici che lo stimassero ancora, ma insultato, con parole piuttosto ingiuriose da gente cattiva che lo odiava. Non gli restava che desiderare la morte. Era stato accecato e con lui c’era vicino un fanciullo al quale chiese in quale luogo di Pisa si si trovasse. Il fanciullo rispose che era presso la chiesa di San Paolo in riva all’Arno; Pietro delle Vigne lo pregò di accompagnarlo in direzione del muro, ma giunto vicino, con il capo verso il muro, con impeto si lanciò contro di esso, si ferì così atrocemente che la testa si aprì, lasciando al suolo il cervello che si sparse sulla terra, provocando la sua morte. Questo racconto del Boccaccio è considerato interrogativo e quindi non storicamente accertato. Morì quindi a Pisa e Dante lo collocò nel suo poema, al secondo cerchio del settimo girone, insieme agli altri suicidi e trasformato in pruno. Resta l’episodio più credibile quello della morte avvenuta a Pisa, per volontaria impiccagione, o a San Miniato. Dante aveva molta stima dell’illustre notaro e poeta, lo ritenne ingiustamente calunniato e fu convinto che Pier delle Vigne avesse voluto di sua iniziativa suicidarsi mediante impiccagione. “Laqueo se suspendit”. Io condivido pienamente il pensiero dantesco e boccacciano. Il romanzo di Dadati è una narrazione storica, un giallo letterario, come sostiene Arata, che si legge con interesse, ma la tesi di Dante, corroborata dal Boccaccio mi convince di più. Il grande narratore toscano nel suo “De Casibus” narra che Federico II aveva fatto accecare il suo logoteta, poi lo aveva tenuto in carcere, pur convinto della sua innocenza. Ma Pier delle Vigne, nel carcere pisano, preferì togliersi la vita. Chiudo così il mio intervento con le stesse parole del protagonista: “L’animo mio, per disdegnoso gusto, credendo col morir fuggir disdegno, ingiusto fece me contra me giusto”.Titina Laserra Comitato Società “Dante Alighieri” Sezione Taranto
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