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Virgole Golose

L’ultimo trattato romano o il primo medievale?

L’opera di Vinidarius

Una cucina medioevale

Una cucina medioevale

Lo spiritello bizzarro che alligna nei cavi telefonici e nelle onde elettromagnetiche ha “resuscitato” la scorsa settimana nel box di Virgole Golose, intitolato agli Excerpta di Vinidarius, di fine V secolo / inizio VII secolo dopo Cristo, una ricetta rinascimentale firmata Bartolomeo Scappi, di circa mille anni posteriore, già pubblicata. Poco male.

E’ l’occasione propizia per parlare più diffusamente di questo Vinidario, che si autodefinisce nell’introduzione alla sua aggiunta al trattato gastronomico di Apicio “uomo illustre”, o tale viene definito dal copista. Se Apicio resta per noi un mistero (ne conosciamo almeno tre), l’illustre Vinidario è un totale Carneade (e non nel senso di buon filosofo ma in quello traslato di ignota nullità che gli affibbiò in bocca a don Abbondio il Manzoni). Il trattato di Apicio, De re coquinaria, noto anche come Ars magirica (Intorno alla cucina, nel primo caso; l’Arte del cuoco nel secondo)ci è pervenuto, mutilo, in copie di IX secolo, nella versione che fu stesa, rielaborata nel tempo ed illustrata (illustrazioni purtroppo perdute) intorno alla metà del IV secolo, partendo probabilmente da un nucleo di I secolo, se l’autore del trattato è l’Apicio sferzato da Seneca e vissuto sotto Tiberio e Caligola, morto suicida dopo aver sperperato un immenso patrimonio, temendo che, pur con le cospicue ricchezze rimastegli, non avrebbe potuto mantenere il tenore di vita al quale era abituato.

La pozione velenosa da lui inghiottita per porre fine alla vita fu utilizzata biecamente da Seneca, che lo detestava perché, secondo lui, aveva corrotto le giovani generazioni con la gastrosofia, distogliendole così dagli studi filosofici: con animo ben poco sereno ed amante della sapienza, a differenza dell’immagine di sé che volle tramandare, Seneca non nascose il proprio godimento nel considerare la mortifera pozione la più salutare tra quante Apicio ne avesse ingurgitate; quanto al maligno Marziale, che almeno non posava a sapiente, in uno dei suoi feroci epigrammi scrive (traduzione poetica di Alberto Mortera): “Sessanta milioni avevi sperperato / per soddisfar del ventre tuo le brame; / dieci milioni avevi accantonato / ma di soffrir temendo sete e fame / a tran-gugiar veleno ti sei indotto. / Non fosti mai, Apicio, così ghiotto”. I milioni in questione sono di sesterzi; e molto approssimativamente, i dieci milioni che erano rimasti al nostro ghiottone corrispondevano come potere d’acquisto ad un centinaio di milioni di euro. Al testo di IV secolo, molto più ampio di quello che abbiamo a disposizione, attinse tra la fine del V ed il VII secolo l’illustre sconosciuto Vinidarius, che porta un nome germanico latinizzato, per il suo “estratto”.

Probabilmente longobardo, Vinidarius riassume ricette sicuramente apiciane ed altre forse presenti nelle parti perdute del trattato, insieme con alcune che han preso ormai le distanze da ciò che sappiamo della cucina “romana” di epoca imperiale, ma ancora assai distanti da quelle che saranno le prime “ricette” medievali europee in nostro possesso (XIII secolo, con citazioni da molto probabili testi del secolo precedente) e distanti anche dalle purtroppo poche ricette che il medico bizantino Antimo, vissuto però nei regni romano-barbarici d’Occidente (nella Ravenna del goto Teodorico e, come suo ambasciatore, alla corte di un altro Tedorico, re dei Franchi, figlio del più noto Clodoveo), ci ha lasciato nella sua lettera di dietetica indirizzata al re dei Franchi, De observatione ciborum (Osservazioni sui cibi), che è del VI secolo: poco dopo o poco prima di Vinidarius, ma con una differente cultura gastronomica e scientifica alle spalle. La datazione degli Excerpta è corroborata dagli studi linguistici: il Latino è ormai fortemente degradato (esempio fra tutti, la scomparsa di quasi tutte le terminazioni in emme e la confusione fra o ed u); paradossalmente, mentre i codici più antichi del De re coquinaria in nostro possesso risalgono al IX secolo, gli Excerpta sono riportati in un codice quasi coevo alla loro compilazione, databile fra il VII e l’VIII secolo.

Pubblicati ormai tradizionalmente in appendice all’Apicio, gli Excerpta sono importanti anche perché si aprono con una lista degli ingredienti indispensabili in una cucina di buon livello per preparare i condimenti: vi compaiono spezie mai usate da Apicio, come i chiodi di garofano e la curcuma, insieme con un ampio repertorio di bacche, semi, frutta essiccata (prugne damascene, ovvero di Damasco; datteri; uva passa; melagrane) ed erbe dell’orto, comprese alcune (la salvia, per esempio, o il cerfoglio) che Apicio non menziona. Figurano poi una misteriosa “addena”, le “bacche di timo” e forse la genziana, se è corretta la ricostruzione di una parola dubbia. Le ricette sono appena 31, ed alcune sono effettivamente “estratti” semplificati di ricette di Apicio. A differenza di quelle di Antimo, nessuna di quelle di Vinidario prevede cotture “al vapore”.

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