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Virgole Golose

Quella pizza su un affresco rinvenuto a Pompei

Ha molto colpito l’immaginazione

L'affresco scoperto a Pompei

L'affresco scoperto a Pompei

Ha molto colpito l’immaginazione (anche per l’immagine molto bella) l’affresco con “natura morta” rivenuto a Pompei con, in bella evidenza... una pizza. O qualcosa di molto simile ad una antenata della pizza; duemila anni fa, e proprio in area napoletana...

Si sono scatenate interpretazioni, si sono azzardati paragoni, si è fatta una gran confusione; ma al di là della bellezza dell’affresco e del forte impatto emozionale che le immagini hanno rispetto alle fonti letterarie, va ricordato subito che “la scoperta della pizza” è una non scoperta: lo sapevamo già, da secoli, che i Greci ed i Romani consumavano derrate “simili” ad una pizza, anche se, beninteso – come aggiunge qualcuno – senza pomodoro. Perché il saporito ortaggio, oggi assunto quasi a simbolo della cucina italiana, per il suo matrimonio d’elezione appunto con la pizza e poi con la posta, i contrassegni identitari del mangiare italiano, se ne stava tranquillo in America; ed anche quando fu importato in Europa lo fu come pianta ornamentale: prima del XVIII secolo non era consumato, e solo nel XIX secolo divenne un ingrediente popolare nelle gastronomie del Mediterraneo. E di rimbalzo, come salsa (e come ketchup), tornò pure in America. In luogo del pane (àrtos, il pane di frumento, lievitato), che era considerato un genere di lusso, i Greci consumavano la màza, una specie di piadina di farina d’orzo, non lievitata, cotta su pietre roventi o sotto il testo, l’antenato meno ingombrante e costoso del forno vero e proprio: una tegola arroventata sotto la quale, e sempre su una pietra, si poneva l’impasto da cuocere.

I Romani perfezionarono il testo col clibanus, una sorta di fornelletto da tavola, spesso in prezioso argento, che consentiva lo stesso tipo di cottura. La màza induriva presto, e sulla màza ciascuno “poggiava” – come si sarebbe fatto molti secoli dopo con la pizza... – quello che aveva a disposizione, o che più gli piaceva, in base alle possibilità economiche. In base al grado di cottura, la màza poteva inoltre presentarsi come una piadina o come una vera e propria frisella. Non a caso, nel Salento, area di superstrato greco-bizantino ma che risentì anche in epoca pre-romana, sia pure in conflitto politico-militare, dell’influenza greca irradiata da Taras, le friselle si preparano con farina d’orzo. Nella fertile e ricca Magna Grecia, invece, l’orzo fu ben presto abbandonato in favore del frumento, e in particolare del grano duro: ed è con lo sfarinato del grano duro, la semola (farina a rigore è lo sfarinato del grano tenero) che i Tarantini preparavano il loro soffice e lievitato pane: quello che nella madrepatria era una sorta di dolciume, e che rientrava fra le Delikatessen, non certo nel vitto quotidiano, divenne cibo di tutti i giorni, derrata diffusa in tutti gli strati sociali; e ricevette anche il nome che sarebbe poi passato in tutte le lingue neolatine: panòs. Più che di pane, però, sia in Grecia che, ancor più, in Magna Grecia (e poi a Roma) bisogna parlare di pani: differenti per forma, miscele di sfarinati, metodi di cottura, altri ingredienti aggiunti nell’impasto (come l’artolagano, nel cui impasto – lievitante – si aggiungevano latte, olio, strutto, pepe e vino; fondamentalmente, come ricorda Eugenia Salza Prina Ricotti, la pizza bianca in uso oggi soprattutto a Roma).

La forma schiacciata della màza, per esempio, rimase: ma adesso si trattava di un disco di pasta lievitata. Sempre ottima base per qualsiasi condimento. Come l’impasto laboriosamente amalgamato nel mortaio di erbe, formaggio ed aglio che il contadino Symilo dello pseudo-virgiliano Moretum prepara per spalmarlo appunto su una “focaccia” di farro (meno soffice e molto meno lievitata di quelle di semola del mondo magnogreco). E a proposito di focaccia: il nome, come è noto, viene dal “panis focaceus” dei Romani; un pane cotto col fuoco, cioè in forno, non su una pietra rovente o sotto un testo; una via di mezzo fra la antica schiacciata e quella che sarà la pizza; e tuttora la focaccia differisce dalla pizza, anche se tutt’e due cuociono in forno e nascono da un impasto lievitato. Quanto al nome della pizza, parrebbe derivare dal greco plax (piatto, schiacciato), che i Romani tradussero con placenta (nome che diedero soprattutto a dolci schiacciati e ricoperti di miele). Il nome pizza lo troviamo in un codice di Gaeta nel 997 d.C. (indica una focaccia condita con grasso animale, sale e aglio), e nell’anno 1000 in un codice papale troviamo delle pizas (con una zeta) che sono focacce condite con grasso e sale. Màza, schiacciate varie, focacce tondeggianti erano usate per deporvi su vari alimenti; ma non solo come base per un companatico; fino a tutto il Medio Evo, sostituirono spesso i piatti se non addirittura, per mangiate all’aperto, i tavoli, ovvero le mense: è il destino che tocca agli esuli troiani, maledetti da un’arpia: “avrete tanta fame che mangerete anche le vostre mense”. Approdati nel Lazio, Enea e i suoi divorano il poco che hanno, e che han deposto sulle “piadine”. Troppo poco: e per la fame divorano le piadine stesse.

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