Continuiamo a seguire il buon Orazio in cucina ed a tavola. Come abbiamo visto, mettendo in scena il pretenzioso banchetto allestito da Nasidieno Rufo nell’ottava del II libro delle Satire, interrotto da una precipitosa fuga dei commensali intossicati dall’eloquio del pur generoso anfitrione, c’è un variato antipasto che precede, piatto forte, la murena su letto di gamberi. Fra gli antipasti figura il cinghiale lucano (a denominazione d’origine, praticamente...) “cacciato con un leggero vento di Mezzogiorno”, ovvero nelle condizioni climatiche per averne le carni al top... Quanto alla murena, è stata cotta, ancora gravida, in una appetitosa salsa. Ma non basta: “Seguono i servi portando su un grande vassoio le parti scalcate di una gru, cosparsa di abbondante sale e farro tritato, un fegato d’oca bianca ingrassata con fichi e spalle di lepre staccate dal corpo, molto migliori così che mangiate insieme ai quarti posteriori. Vedemmo ancora servire merli col petto abbrustolito e piccioni senza cosce”. Qui il banchetto si interrompe, per la fuga dei convitati, mortalmente annoiati dallo logorrea del padrone di casa. Peccato, perché sarebbe stato molto interessante sapere quali dolci e frutta Orazio avrebbe messo nel menu, così come seguire il simposio... Noi abbiamo comunque già cospicue indicazioni, quasi ricette vere e proprie: c’è già il foie gras, quello che i Romani chiamavano jecur ficatus, perché ottenuto ingozzando di fichi le oche (e dall’aggettivo di questa raffinatezza derivò il nome del nostro fegato); c’è la murena cotta in una salsa molto raffinata (con vini, olii ed aceti doc); c’è un arrosto (di gru) in crosta di sale e farro. E’ la grande cuisine romana, quella che verrà sublimata nel trattato di Apicio (intanto qui presente anche con altre ricette, assenti o non sopravvissute nell’Ars magirica): ed è una cucina che conserva intatte, al di là delle apparenze, fruibilità ed appetibilità anche oggi. Come è sopravvissuto, anche se solo in provincia di Lecce o in centri del brindisino e del tarantino adiacenti al leccese, un piatto appetibilissimo che è davvero un reperto archeologico vivente e che per certo Orazio ha gustato, quel “catino” di lagane porri e ceci (“catinum lagani”) che in altri versi contrappone all’alta cucina e che oggi è diventato i ciceri e tria: ceci cotti in un intingolo brodoso con molto olio ed erbe aromatiche, ai quali si aggiungono corte tagliatelline (le tria, dall’Arabo itriyya, che fu il primo nome della pasta secca alimentare; un nome peraltro derivato dal Greco itrion, al plurale itria, che designava già in Galeno impasti d’acqua e farina), in parte lessate (e questa è aggiunta “moderna”, così come l’ombra di pomodoro – ortaggio americano – nell’intingolo), in parte, come in antico s’usavano le lagana, fritte. Eugenia Salza Prina Ricotti, una archeologa con una forte passione e reale competenza per la cucina – che abbiamo avuto il piacere di ospitare a Taranto una quindicina di anni fa per una conferenza organizzata da chi scrive nell’ambito delle iniziative dell’Istituto per la storia e l’archeologia della Magna Grecia in occasione dell’anno dedicato dal ministero dei Beni culturali all’alimentazione – suggerisce di leggere diversamente i versi oraziani: separa dai porri e ceci, visti come piatti a sé, antipasti, il “catinum lagani”, nel quale ella vede un pasticcio di lasagne che assimila ad un paio di ricette apiciane a base di lagana: la “patina apiciana” e la “patina cotidiana”, che, a dispetto dell’understatement del nome (traducibile approssimativamente come “piatto d’ogni giorno”), è in realtà un ricchissimo pasticcio di lasagne al forno, appena meno ricco di quello che prende il nome proprio da Apicio.
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