“Historia se può deffinire una guerra illustre contro il Tempo, perché togliendogli di mano gli anni suoi prigionieri, li richiama in vita e li schiera di nuovo in battaglia”. (Alessandro Manzoni, Promessi Sposi, Introduzione) *** Tommaso Fiore, nel lontano 1968, in una sua pubblicazione edita dalla Editrice Adriatica di Bari, affermò che la realtà, nella quale l’uomo opera, soffre, ama e dirige la politica è Storia perché tutta la realtà, in principio, è Storia. Ma di quale Storia? Fiore, ripeto, sosteneva che l’uomo, come humanitas, nella sua volontà di essere sociale, politico, etico e religioso, fa quotidianamente Storia perché essa nasce con l’uomo e, di volta in volta, nel tempo, come l’uomo di quel tempo, si estingue lasciando ad altri il compito di conoscere quanto di bene e quanto di male ha compiuto. Lentamente, ma inesorabilmente, procede quella che si chiama “la civiltà” di un popolo che gli antichi chiamavano “annales” e, dopo tempo, “historia”. Così scriveva Tacito, il più grande storico di Roma. “Historia”, come termine greco, passò egualmente in quello romano e, primamente, opponendosi al “mito” significava, “descrizione, resoconto di fatti realmente accaduti”. Nel tempo quel vocabolo divenne “storia” ed indicò il procedere delle azioni umane e del tempo in cui venivasi a procedere; di qui la parola “storiografia” che prese il valore di storia. E in tal senso anche gli avvenimenti divenuti storici ebbero il risultato delle storie umane positive o negative che fossero. Con l’Illuminismo si formò anche quella che si scrisse “filosofia della storia”. Ma una filosofia della storia era già nei capitoli del “Principe” di Machiavelli, allorché il grande fiorentino unì, nel concetto politico del suo tempo, gli avvenimenti degli antichi romani come se i fatti fossero, anche se distinti, consequenziali. Concetto che, tempo dopo, ebbe il napoletano Vico che pervenne ad una visione storicamente ed eticamente provvidenziale dei fatti umani, visione che ebbe anche Alessandro Manzoni tanto nel suo romanzo quanto nella sua ode il “Cinque mag gio” diretta a Napoleone. Vico considerò anche il “mithos” che in Omero ebbe il suo primo poeta o raccontatore degli avvenimenti allegorici o metaforici umani. E tuttavia, come realtà concreta e non episodica di un tempo. Al mito tenne anche lo storico romano Tito Livio nel suo “Ad urbe condita”. Nel tempo il pensiero dell’uomo, le sue azioni, storicamente intese, ebbero in Voltaire il principale interprete della concezione politica della storia alla quale poi ebbe merito il filosofo Hegel. Di qui nacque l’ombra del cosiddetto “pessimismo storico” che molti profeti della storia ebbero a definire i fatti e le azioni dell’uomo già in partenza fenomeni negativi e non dimentichiamo che per la risoluzione di molti problemi storici incompiuti anche Croce, nel suo volume” Etica e politica” (1967 pgg. 295-297) “quod nunc ratio est, impetus ante fuit”. Il pessimismo storico, dunque, nasce da una perpetua lotta tra il bene e il male compiuto dall’uomo; che è, quando è uomo politico, il principale artefice di quegli avvenimenti della storia che si tramandano e più volte non si completano. Pessimismo che prendeva la realtà effettuale con l’esperienza del bene e del male, ripeto, e la quale, di volta in volta, non poteva sottrarsi la parola “libertà” più volte soppressa da dittature e più volte risorgente ad opera di altri uomini che vedevano e vedono nella libertà ogni liberazione da politiche credute positive ma in realtà negative. Da tale contrasto procedeva e procede il concetto di una civiltà umana. Ora, questa lunga digressione sul concetto della Storia era necessaria per ben intendere il significativo libro di Paolo Mieli, valido storico, di merito, con il suo “Il tribunale della Storia” e con un sottotitolo quale “Processo alle falsificazioni” (Mondadori, Rizzoli 2021, pp. 277). La sacralità della Storia è il suo procedere nel tempo e non nel farsi in un tempo determinato perché si va incontro, in tal modo, a falsificazioni passate per vere, della Storia; più volte, proprio volute, onde distogliere il pensiero altrui da una volontà partitica, illusoria, e in tal senso, quella storia diventa impropriamente politica falsificata. E proprio qui mi vengono a mente le parole di Cicerone: “Historia est tempis temporum, lux veritatis, magistra vitae” (Cic., De Orat., 4,9, 36). L’opera di Paolo Mieli, suggestiva e calamitante, si divide in tre parti egualmente distribuite in dieci capitoli: “Sul banco degli imputati”; “Le arringhe dell’accusa” e “La parola alla difesa”. E c’è una conclusione che validamente traduce il pensiero dello storico con la motivazione che la storia non contempla sentenze definitive. Passa attraverso l’attenta e ben collegata, con opportune citazioni bibliografiche: “la lunga marcia di avvicinamento alla verità che è infinita, conosce soste, anche lunghe, ma si tratta, appunto, di soste. Poi il cammino, anche lungo, riprende”. E non si giungerà mai, per moltissimi avvenimenti, ad una stazione finale, ad un capolinea. Conta il viaggio, non la meta. Codesta conclusione non porterà mai ad una definitiva soluzione di tanti avvenimenti e il dibattito tra gli storici sarà sempre lungo anche quando il fatto è ben documentato. Il tribunale della Storia, per Mieli, è sempre riunito, la seduta è permanente. In tal senso e modo lo storico Mieli passa in rassegna, tra gli altri, “la vittoria postuma di Napoleone” dopo la sua morte celebrato soprattutto dal poeta tedesco Goethe, e non dimentichiamo, in senso provvidenziale il nostro Manzoni con il Cinque maggio. E poi “Ruggero II, il re che unificò il Sud Italia”; ed anche Gesù, profeta rinnegato dai suoi apostoli e poi considerato non più profeta ma figlio di Dio. E ancora un capitolo è dedicato a Catilina se veramente la sua fu una congiura come affermarono Cicerone e Sallustio nella “Catilinaria” e poi altri capitoli di seconda e terza parte: “Ambigui pontieri del Duce”, e poi “L’incerto ordito di Vittorio Emanuele III” e poi “L’ideologizzazione dei briganti” per la difesa “L’astuzia di Palmiro Togliatti”, “La profezia di Cavour sulla Chiesa”, “La peste castigo di Dio”. La scrittura dello storico Paolo Mieli, anche attraverso queste nostre semplici annotazioni, è organicamente e ordinatamente precisa e le pagine delle varie sezioni sono ben distribuite e ben condotte anche attraverso una valida bibliografia che consente al lettore o allo studioso ogni opportuna riflessione in pro e in contro. Il tribunale della Storia è lì ma la sentenza di verità è nella memoria del futuro; la Storia è sempre vicina ma non è mai realizzata nel senso di una verità che non sia la Verità. E qui Croce avrebbe scritto che un continuo esame dei fatti e dei personaggi riconsiderati alla luce di quei fatti produce un continuo senza pause o soste, e tuttavia quel continuo è storia come farsi in se stessa perché gli uomini sono gli attori di quella storia che procede inesorabilmente nella descrizione e trascrizione di ciò che è accaduto perché è accaduto e come si risolverà quell’accaduto. E mi vengono a mente ora le parole del Foscolo dalla cattedra di Pavia “Italiani, io vi esorto alle Storie; perché niun popolo più di voi, può mostrare né più calamità da compiangere né più virtù che vi facciano rispettare. Io vi esorto alle Storie”. Più che una esortazione quelle parole del Foscolo sono un accorato monito. Il libro dello storico Paolo Mieli, “Il tribunale della Storia”, è una valida pietra miliare perché si proceda, perché si vada avanti nello studio dei fatti e dei documenti, al di là dell’esito conclusivo e generalmente convincente; ma la “Historia” è tutta qui e il volume di Paolo Mieli convince chi lo legge, ed è più vicino a chi lo medita.
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