Una bugia tira l’altra, come le ciliegie. «Quando rimani incastrato in questo ingranaggio, per non deludere, la prima bugia chiama la seconda, e poi avanti tutta la vita…». È quello che succede a Jean-Claude Romand protagonista del romanzo L’avversario di Emmanuel Carrère. Vuole fare il medico, avere una bella famiglia, la «sua costante preoccupazione è dare di sé un’immagine positiva». Il padre e la madre gli hanno insegnato a non mentire mai, ma già da adolescente familiarizza con le bugie tanto da inventarsi una falsa aggressione per suscitare attenzione e interesse. La sua sarà «una vita interamente corrosa dalla menzogna». Nel momento di morire, i vecchi Romand probabilmente «avrebbero dovuto vedere Dio e al suo posto avevano visto, sotto le sembianze dell’amato figlio, colui che la Bibbia chiama Satana: l’Avversario». S’iscrive a Medicina, al secondo anno non si presenta agli esami. A casa, invece, racconta di essere stato ammesso al terzo anno. Inizia a fingere agli occhi dei cari, degli amici, dei conoscenti. S’inventa una vita. Inizia a vivere una doppia vita. Dove inizia la sconfitta e finisce l’errore? Perdere è un errore? Non essere all’altezza delle proprie attese è una sconfitta? Perché Jean- Claude non accetta la vita per quella che è e per come si presenta? È ossessionato dal ruolo sociale da interpretare. Possibile che chi lo circonda «senza sospettare nulla» non si accorge delle sue abissali bugie? Ci sono verità che non si vogliono vedere, che non si vogliono affrontare. In fin dei conti a cosa serve la verità se non si hanno delle alternative. Il Mondo ci vuole vincenti, performanti. Jean-Claude è un perdente di successo. Sa già che il suo futuro sarà breve. Convive con la paura di essere scoperto. Agli occhi degli Altri è chi avrebbe voluto essere. In realtà è il Nulla, un’identità vuota. È Nessuno che per salvarsi millanta di essere Ulisse. I poveri Ciclopi della storia ci rimettono tutto: occhio, pecore, serenità, fiducia e vita. Più si va avanti nella lettura del libro e più manca il fiato. Mi piace definire questo genere di romanzo come “Letteratura del disagio” in cui si mettono in scena le luci e le ombre del protagonista. Soprattutto le ombre. Dopo il disagio di stare al mondo e di rapportarsi con esso, sempre più si fa strada il disagio di convivere con se stessi. Disagio mentale, disagio esistenziale. La bellezza rappresenta sempre il momento della salvezza, ma il percorso nei luoghi bui dell’anima ha il suo diabolico fascino. Sentirsi avvolti dal fango della vita ci aiuta a cercare un po’ di luce, la via luminosa del riscatto. Dopo il riscatto di nuovo il degrado. Siamo a nostro agio e disagio nel fango e nella luce. Eros confina pericolosamente con Thanatos, Amore e Morte si sovrappongono più del dovuto lungo il corso di una vita. «Il lato sociale era falso, ma il lato affettivo era autentico» dice Romand. Dice di essere stato un finto medico, ma un vero marito e un vero padre, di aver amato con tutto il cuore moglie e figli, i quali lo ricambiavano». A una vita senza scopo e senza senso in soccorso viene la Finzione che non è la patologica Falsità. La Finzione è il Teatro. È la consapevolezza di recitare una Parte. Il pubblico lo sa e si emoziona e s’immedesima lo stesso. Abbiamo bisogno di brividi per non lasciarci intorpidire e anestetizzare dalla Realtà. Ogni bugia è una verità che ha solo sete di felicità. Tanti grandi attori si sentono vivi solo in scena, e nella vita reale sono depressi. Perché? Il personaggio è più vivo della Persona. Fuori la scena c’è il cimitero delle anime. Jean-Claude Romand non era un Attore, ma un manipolatore. Ha frequentato e incarnato il diabolico avversario-complice della Falsità vivendo sotto «anestesia morale». «L’unica cosa positiva che potesse capitargli… era di prendere sul serio coscienza dei suoi crimini e, anziché piagnucolare, precipitare sul serio nella grave depressione che aveva fatto in modo di evitare per tutta la vita. Solo a quel prezzo, forse, sarebbe riuscito un giorno ad accedere a qualcosa che non fosse una menzogna, o l’ennesima fuga dalla realtà». In carcere, da carnefice a preda. La sua storia è crimine, è preghiera? Nasconde l’oscuro vanto di ogni confessione che cerca la redenzione sulla via della superbia dell’ammissione di colpa e di averla fatta franca per tanto tempo. Nel risvolto di copertina Emmanuel Carrère scrive: «Il 9 gennaio 1993 Jean-Claude Romand ha ucciso la moglie, i figli e i genitori, poi ha tentato di suicidarsi, ma invano. L’inchiesta ha rivelato che non era affatto un medico come sosteneva e, cosa ancor più difficile da credere, che non era nient’altro. Da diciott’anni mentiva, e quella menzogna non nascondeva assolutamente nulla. Sul punto di essere scoperto, ha preferito sopprimere le persone di cui non sarebbe riuscito a sopportare lo sguardo. È stato condannato all’ergastolo». «Sono entrato in contatto con lui e ho assistito al processo. Ho cercato di raccontare con precisione, giorno per giorno, quella vita di solitudine, di impostura e di assenza. Di immaginare che cosa passasse per la testa di quell’uomo durante le lunghe ore vuote, senza progetti e senza testimoni, che tutti presumevano trascorresse al lavoro, e che trascorreva invece nel parcheggio di un’autostrada o nei boschi del Giura. Di capire, infine, che cosa, in un’esperienza umana tanto estrema, mi abbia così profondamente turbato – e turbi, credo, ciascuno di noi».
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